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Da IL SOLE 24ORE del 2 dicembre 2003

GIUDICI DISPOSTI AL DIALOGO SE IL GOVERNO NON PONE VETI

  La vicenda dell’aspro conflitto tra maggioranza politica e magistratura, causato dal disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, presenta aspetti davvero sconcertanti.

  Gli stessi magistrati, infatti, sono d’accordo sull’opportunità di riformare molte delle norme che oggi regolano la materia, spesso anche in senso sostanzialmente simile ad alcune delle soluzioni proposte. L’esigenza di abolire le qualifiche astratte avulse dall’esercizio effettivo delle funzioni corrispondenti, la rotazione negli incarichi direttivi così da eliminare pericolose incrostazioni in centri di potere, la creazione di una scuola di formazione autonoma e indipendente che escluda in radice la possibilità di inquinanti interferenze di qualsiasi tipo, il potenziamento dei consigli giudiziari, l’accentuazione dei criteri di separazione tra le funzioni di giudice e quelle di pubblico ministero che impediscano ad un magistrato di cambiare ruolo da un giorno all’altro nella stessa città, la tipizzazione degli illeciti disciplinari, la “deregionalizzazione” della Corte di Cassazione grazie ad un’apposita indennità di trasferta: tutto ciò non è, per la maggior parte dei magistrati, oggetto di contestazione in punto di principio, ed anzi risponde talvolta ad istanze  avanzate dallo stesso ordine giudiziario.

  Ci si muove in un contesto, pertanto, in cui si potevano facilmente trovare spazi di dialogo e di consenso che avrebbero aumentato la fiducia dei cittadini nei confronti di tutte le istituzioni, sia politiche che giudiziarie, se non fosse stato per uno strano atteggiamento della maggioranza che spesso sembra faccia apposta a ricercare a tutti i costi ogni spunto di conflitto con i magistrati, toccando i nervi per loro più sensibili.

  Due esempi per tutti, certamente non esaustivi del problema.

  Gli stessi magistrati vogliono e propongono criteri più severi di valutazione, purchè il giudizio su di loro provenga dall’organo di autogoverno, per tutelarli da interferenze, e sia fondato sul lavoro svolto nelle aule giudiziarie, che è l’unico parametro davvero rivelatore della loro professionalità. Si pretende, invece, di farli valutare da commissioni esterne al CSM sulla base di esami teorici scritti e orali, così riportando sui banchi di scuola, dotandole di penna e calamaio, persone che esercitano le funzioni giudiziarie anche da venti o trenta anni, secondo un metodo che è il più inutile possibile per dimostrare ciò che soprattutto serve a un magistrato, ovverosia attitudine ed equilibrio.

  Tutti i magistrati sanno che non c’è gerarchia di importanza tra le funzioni di primo grado, di appello e di cassazione, perché nessuno può pensare, ad esempio, che il pubblico ministero d’appello, il cui compito principale è quello di formulare richieste all’esito di un giudizio di merito normalmente fondato solo sulle carte, sia da un lato più importante del pubblico ministero di primo grado che dirige per mesi o per anni le indagini e affronta in dibattimento gli avvocati nel contraddittorio per la formazione della prova, e dall’altro meno importante del pubblico ministero nel giudizio di legittimità che si occupa del solo aspetto relativo alla soluzione delle questioni di diritto. Eppure il disegno di legge crea una gerarchia tra queste funzioni, inducendo i magistrati alla competizione tra loro per ricoprire preferibilmente alcune di esse, e il prima possibile, per ottenerne benefici addirittura in termini di retribuzione economica, oltre che di sbocchi ulteriori di carriera. 

  Tutto ciò costituisce testimonianza di una colpevole incapacità di comprendere e rapportarsi utilmente con il mondo della magistratura e con le esigenze della giustizia, e dà luogo ad una situazione che, nell’interesse di tutti, chiunque abbia a cuore le sorti del Paese non può che augurarsi che cambi al più presto.

 

Antonio Patrono

Segretario Generale di Magistratura Indipendente