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LA RELAZIONE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE

Roma 28 gennaio 2003 

Ritengo di dover sottoporre ai lettori questo ampio stralcio della relazione dell’avv. Danovi, Presidente del Consiglio Nazionale Forense per gli spunti di riflessione che essa contiene che dimostrano come anche l’avvocatura, o parte di essa, abbia assunto posizioni critiche nei confronti della politica giudiziaria del governo.

La relazione che è stata letta nel corso della cerimonia inaugurale dell’anno di attività del C.N.F. evidenzia, tra l’altro, quanto sia errata la politica delle riforme parziali seguita dal governo.

L’avv. Danovi ha, poi, segnalato l’esigenza di

aumentare il numero dei magistrati (i “1.000 magistrati” sono ancora lontanissimi dal prendere servizio),

risolvere il problema della magistratura onoraria aumentando la competenza dei giudici di pace (estensione prevista da più commissioni ministeriali ma ancora inattuata), semplificare le procedure all’interno dei giudizi «evitando che nel processo si instaurino altri procedimenti esiziali»

 accelerare l’adozione degli strumenti informatici «con tutti gli stanziamenti necessari» (ovvero, invertendo l’attuale tendenza del bilancio di via Arenula);

consentire motivazioni succinte delle sentenze «quando si accompagni un’alta professionalità nella formazione e nell’aggiornamento dei magistrati»; colpire le liti temerarie «applicando le disposizioni già esistenti: gli articoli 88 e 96 del Cpc»;

prevedere riti alternativi (dando nuovo slancio alle proposte di legge insabbiate in parlament)

assicurare l’espletamento sollecito dei giudizi in tema di famiglia e di lavoro con strutture e personale adeguati, e privilegiare l’attività di consulenza riservata agli avvocati rispetto all’attività contenziosa.

 

La relazione dimostra, una  volta di più, l’importanza che può avere il dialogo con l’avvocatura specie quando questa non assume posizioni barricadiere e mostra sensibilità per i problemi concreti della giustizia.

o.d.g,

……………………………………..

11.) I temi della professione non esauriscono l’ambito dell’attività, anzi costituiscono un limite interno. Ma l’avvocatura non può rimanere estranea alle grandi riforme che sono in atto e deve quindi partecipare al dibattito, per il miglioramento di tutti i nuovi assetti normativi.
Vi sono aspetti particolari su cui molto si sta facendo e si è fatto ad opera del Ministero della giustizia, con riferimento alla riforma del diritto societario, già attuata, e a quelle del diritto fallimentare e minorile (in corso di attuazione), o alla definizione del problema della magistratura onoraria (che è urgente, poiché l’articolo 245 del decreto legislativo 51/1998, impone il riordino della magistratura ordinaria comunque non oltre 5 anni dalla data di efficacia del decreto, e quindi entro il 2004).


Malgrado le critiche sollevate, a noi pare che il metodo adottato sia da incoraggiare, per la possibilità offerta a tutti gli interessati di intervenire con proposte di modifiche e miglioramenti.
Né di per sé può essere disapprovata la riforma delle varie normative, quando queste siano da lungo tempo esistenti e datate nella regolamentazione e nelle loro prospettive.
Certo, vi sono visuali particolari e interessi che possono dover essere privilegiati rispetto ad altri (ad esempio, l’interesse dei soci di minoranza o dei creditori, o dei soggetti più deboli nel diritto minorile), ma non pare giusto introdurre - almeno in questa sede - contrapposizioni ideologiche, nella convinzione che i suggerimenti offerti possano sempre essere accettati per la loro validità. In questo contesto l’avvocatura non intende far mancare alle istituzioni il proprio contributo culturale e le proprie conoscenze specifiche; sono infatti in preparazione iniziative di approfondimento e monitoraggio su tutte le innovazioni normative avvenute e in itinere, anche insieme con le altre professioni interessate, e si sta definendo al riguardo un protocollo di intesa con i commercialisti e i notai.
Diverso è invece il giudizio che si può complessivamente dare sull’attività legislativa in generale.
Certo, in una società perfetta (una società immaginaria) di giustizia e di leggi non vi è bisogno. Così è, ad esempio, nel regno di Utopia, dove le leggi sono minime, perché ad un popolo bene organizzato ne bastano pochissime, e gli avvocati non servono (T. More, Utopia, 1516); e così è anche nella Città del Sole (nell’isola Taprobane), poiché in questo paese «non si scrive processo, ma in presenza del giudice e del Potestà si dice il pro e il contra; e subito si condanna dal giudice; e poi dal Sole il terzo dì si condanna o s’aggrazia dopo molti dì con il consenso del popolo. Le leggi son pochissime, tutte scritte in una tavola di rame alla porta del tempio» (T. Campanella, La città del Sole, 1602).
Si comprende dunque, molto facilmente, come non possa essere di per sé perfetta una società che ha centinaia di migliaia di leggi e milioni di processi e tempi biblici per risolverli.
È un fenomeno generalizzato nei giorni attuali e in molti paesi (nei quali si parla di esplosione della litigiosità), anche se di “eternità delle liti” parlava già il Muratori (Dei difetti della giurisprudenza, 1742), e ancora prima di “ritardo della legge” si fa menzione nel monologo di Amleto (1600).


Calzante è dunque l’espressione che abbiamo utilizzato nel ricordo di un episodio realmente accaduto, ma anche come metafora di una condizione: La giustizia in parcheggio (Milano, 1996) è la formula utilizzata per indicare che la giustizia è accantonata, tra tempi morti e superflui, in un’attesa senza fine.


Per sorreggere la giustizia occorrono dunque le leggi: leggi semplici, ben scritte, per dare certezze ai diritti.


E invece! Le leggi sono innumerevoli (e innumerabili: qualche centinaia di migliaia), accresciute da moltiplicatori senza fine. È stato rilevato ad esempio che nella XIII legislatura (apertasi con le elezioni del 1996), il 65,52% degli interventi legislativi «riguarda modifiche o proroghe di disposizioni vigenti» (L. Volante, L’Italia dopo il 1999, Milano, 1998).
Poi vi sono le leggi monstre, con pochi articoli ma con centinaia di commi, che nascono molto spesso per improvvisazione (viene aggiunto un ennesimo comma a una legge generale, che contempla e disciplina altri eventi: ad esempio i commi 113 e 114 dell’articolo 17 della legge 127/97, che introducono le scuole di specializzazione per magistrati, avvocati e notai, nell’ambito delle «misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo»).


E ancora vi sono leggi che rinviano a regolamenti o decreti che dovrebbero meglio precisare i contenuti dei vari articoli (nell’ultimo disegno di legge sull’ordinamento forense si fa rinvio ad emanandi regolamenti per ben 18 volte, mentre nell’articolo 24 della legge 266/97, si abolisce il divieto di costituire società, ma si demanda a un decreto ministeriale mai emanato di fissare i requisiti per l’esercizio dell’attività in società); oppure ancora vengono richieste e rilasciate deleghe al governo, nella incapacità o impossibilità palesata dai proponenti di definire a priori le scelte (e quindi nella prospettiva di negoziare successivamente il contenuto delle norme).


Un esempio mirabile della fecondità di pensiero in questo campo è la c.d. legge comunitaria, un’invenzione del 1989 (legge 86/1989: cosiddetta legge La Pergola), che è una legge contenitore utilizzata per dare nominalmente attuazione a tutte le direttive europee in sospeso, e in relazione alle quali lo Stato italiano sarebbe inadempiente (nell’ultima legge comunitaria del 2002, viene data “attuazione” a ben 51 direttive nelle materie più disparate); contestualmente viene data delega al governo per provvedere all’attuazione effettiva nell’ulteriore tempo variabile concesso (da 6 mesi a due anni), consentendosi così la dilatazione dei tempi imposti a livello europeo!
Se poi si pensa che è scoppiato anche lo scandalo dei voti dati dal parlamento (i c.d. onorevoli-pianisti, che votano per i colleghi di partito assenti, secondo una pratica da tempo invalsa e mai sufficientemente stigmatizzata), è certo che anche in questo caso un richiamo alla correttezza dei comportamenti sarebbe doveroso.


Non pare improprio, a questo punto, esprimere formale disapprovazione per questo modo di legiferare, e richiamare la necessità di un’etica anche per il legislatore, un’etica che dovrebbe essere imposta per il rispetto della funzione normativa svolta.
12.) Non si pensi poi che tale situazione normativa sia indifferente rispetto agli effettivi equilibri dell’esercizio della giurisdizione. La giurisdizione è la funzione statuale per eccellenza, quella più intimamente connessa alla sovranità, e vive di meccanismi delicati nei quali ogni potere deve essere controbilanciato da canoni di responsabilità e dall’azione di altri poteri.


Ebbene, sistemi giuridici particolarmente complessi, sia per la cattiva qualità dei testi normativi, sia per la quantità di norme vigenti, conducono inevitabilmente a un protagonismo dell’interprete “istituzionale” della legge stessa, cioè del giudice. La pronunzia, cioè, della regola di diritto che, per il caso specifico, concreta e attualizza la volontà della legge finisce per risultare sempre meno vicina al modello dell’asettica e neutra attività logico-deduttiva del sillogismo giuridico, e sembra invece postulare un ruolo più “attivo” del giudice stesso, tanto più in quanto spetta allo stesso di avanzare dubbi di costituzionalità sulla conformità delle leggi all’ordine giuridico costituzionale (C. Guarnieri, La magistratura nella transizione politica italiana, in Riv. dir. Costituzione, 1997, 173). Lo stesso argomento, con i dovuti adattamenti, può essere speso con riferimento all’integrazione comunitaria dei sistemi giuridici nazionali europei, integrazione nell’ambito della quale il giudice nazionale esercita un ruolo particolarmente incisivo grazie al riconoscimento del potere di disapplicazione.


Da qui una progressiva trasformazione del ruolo sistemico della magistratura, che non può non comportare conseguenze dirette anche per gli avvocati e rispetto al quale è necessaria innanzitutto una forte presa di coscienza.


Non solo. L’enucleazione, accanto ai tradizionali diritti soggettivi di altre posizioni giuridicamente rilevanti, sia nelle forme di veri e propri diritti soggettivi - i diritti della terza generazione (S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, Roma-Bari, 1992, e G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992) - sia nel riconoscimento di interessi superindividuali giuridicamente rilevanti e idonei a conferire ai rispettivi titolari poteri e facoltà sostanziali e processuali, influisce certamente in modo determinante sull’espansione dell’area della giurisidizione. Attorno al cittadino lo Stato contemporaneo costruisce un complesso reticolo di posizioni giuridiche e di interessi tutelati che, interagendo con le aree degli interessi degli altri consociati e con gli interessi pubblici, aumenta enormemente il rischio di “patologie” nelle relazioni giuridiche intrattenute. Ancora, la funzione statuale di promozione dell’eguaglianza formale e sostanziale (articolo 3 Costituzione), l’intervento organizzato e sistemico dello Stato nei processi sociali ed economici, i tentativi di razionalizzazione legislativa dei fenomeni connessi allo sviluppo delle società complesse hanno comportato una dilatazione dei sistemi normativi che richiede l’intervento del giudice anche a volte solo per fornire all’operatore l’interpretazione secundum ius della norma giuridica.
È insomma il generale assetto dello status civitatis, la cittadinanza complessivamente intesa, che comporta l’espansione della “giustiziabilità” dei rapporti intersoggettivi, che sempre più di frequente sfociano in una “lite”, cioè in una posizione di contrasto di due o più soggetti rispetto ad un diritto, che reclama pertanto l’intervento satisfattivo dell’organo giurisdizionale.


13.) Vi è poi ancora un elemento di cui occorre tenere conto ed è la “sfera pubblica” in cui questa espansione della giurisdizione si manifesta.


La “sfera pubblica” può essere considerata come il luogo ideale dell’attività di elaborazione e di formulazione degli orientamenti collettivi e delle decisioni pubbliche, e corrisponde solo parzialmente all’area delle istituzioni costituzionali, le cui dinamiche si appalesano sempre più insufficienti a spiegare esaustivamente i processi di decisione pubblica, di frequente influenzati da circuiti diversi rispetto a quelli  tradizionali.


Così, una delle innovazioni più importanti che hanno inciso sugli assetti della giurisdizione nel sistema italiano è stata la progressiva inclusione di taluni giudici e pubblici ministeri tra i soggetti della sfera pubblica, accanto alla (o favorendo la) soggettività del Csm e dell’Associazione nazionale magistrati. E i magistrati “entrano” nella sfera pubblica grazie allo spazio che riescono ad ottenere presso i media. Tramite i media, cioè, un giudice, ma anche in ipotesi un accademico, un giornalista, o un avvocato, di fatto vengono a superare i limiti del proprio naturale ambiente relazionale, cioè della comunità scientifica o professionale nella quale operano, e contendere a soggetti tradizionalmente operanti su questo terreno, come gli esponenti politici, il consenso di strati più o meno ampi della pubblica opinione.


Certo la “mediatizzazione” dell’esercizio delle funzioni giudiziarie, che trasforma gli atti tipici del potere giudiziario in strumenti nell’agone della sfera pubblica, suscita problemi e rischia probabilmente di incidere sulle linee di difesa adottate, e quindi anche sulla simmetria e sulla pari dignità delle posizioni processuali; ma questa è la realtà nella quale viviamo e con la quale dobbiamo confrontarci, a meno di non volere fare come coloro che «fuggendo davanti alla realtà non pensano la realtà. E non si accorgono che se non si pensa la realtà si finisce con il non pensare per nulla» (André Glucksmann).


14.) È nella straordinaria tradizione dell’Avvocatura italiana che forse possiamo trovare elementi utili per comprendere e affrontare un quadro così complesso. È nella responsabilità collettiva dell’Avvocatura quale comunità ordinata secondo diritto, cioè come Ordine - che tale e nulla di più è l’Ordine forense, una comunità di professionisti qualificata tecnicamente e ordinata secondo diritto - che possiamo rinvenire le risorse per lo svolgimento di un ruolo di riequilibrio e contemperamento del quale possano giovarsi tutti, in primo luogo gli altri operatori della giustizia e  poi tutta la comunità nazionale. Basta guardare un po’ dietro le nostre spalle agli avvocati che ci hanno preceduti; basta guardare a Francesco Carrara e al dibattito sulla legge del 1874 che offre risorse inaspettate anche per i nostri tempi. Nelle parole di Francesco Carrara si delinea già l’affermazione di un vero e proprio ruolo “costituzionale” dell’avvocatura quale contropotere che, insieme con la magistratura, contribuisce a riequilibrare la forza del potere esecutivo: «(...) l’Ordine degli Avvocati ha dalla sua propria natura, e sotto qualunque forma di governo, una missione antica quanto il primo patrono che sorse ad impedire che col pretesto del diritto si violasse il diritto (...). Larghissimo e fruttuoso fu il contributo che in tutti i  tempi recarono gli Avvocati alla causa del progresso liberale (...). Quindi necessità che siano costituiti in corpo; necessità che questo corpo sia tale per numero e per dignità ad imporre rispetto» (F. Carrara, Il passato, il presente e l’avvenire degli avvocati in Italia, Lucca, tip. Giusti, 1874, ora ripubblicato da Giuffré, Milano 1998, 29-31).


Stupisce constatare la vicinanza di idee tra chi scriveva oltre un secolo fa in un contesto culturale e in un assetto costituzionale così lontani e chi, modernamente, ha sostenuto la necessità per l’avvocatura di utilizzare realisticamente le logiche comunicative proprie della sfera pubblica, e ha predicato di un ruolo equilibratore degli avvocati quale corpo collettivo al fine di contenere le disfunzioni nell’amministrazione della giustizia (A. Garapon, I custodi dei diritti. Giustizia e democrazia, Milano, 1997, 180).


Il ceto degli avvocati, ontologicamente votato alla cultura delle libertà (E. N. Buccico, Relazione annuale sullo stato della giustizia, in Rass. forense, 1999, 11), deve quindi poter essere in grado di offrire un contributo di moderazione e di equilibrio all’amministrazione della giustizia, rinunciando ad atteggiamenti graffianti, ma non abdicando alla funzione propria, che la storia e la cultura del nostro paese, prima ancora dei codici, gli affidano: quella di essere scudo e difesa del cittadino di fronte all’esercizio del potere pubblico e di fronte all’abuso del potere privato.


Uno sviluppo adeguato di tale funzione passa probabilmente anche attraverso l’introduzione nell’ordinamento di talune misure organizzative, ma è senz’altro legata a un effettivo e consapevole inserimento dell’avvocatura stessa nelle logiche e nelle dinamiche della sfera pubblica.


È per questo che in questa sede vogliamo lanciare una proposta ai nostri interlocutori, che è quella di prevedere che ogni anno, nella cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, sede simbolica nella quale il Paese riflette sul modo in cui viene amministrata la giustizia, alla presenza delle più alte Autorità dello Stato, dopo la voce della magistratura sia ascoltato anche il Cnf e cioè la voce dell’Avvocatura: a noi pare che questo sarebbe un gesto di riconoscimento molto importante e prezioso della funzione difensiva quale presidio insostituibile della tutela dei diritti dei cittadini, dentro e fuori dal processo.
È una istanza che formuliamo fin d’ora, e che riproporremo formalmente, nella speranza, di più, nella convinzione che quanto richiesto possa concretamente realizzarsi per continuare a migliorare il sistema e coltivare la speranza che l’impegno quotidiano degli avvocati per la giustizia sia utile ai cittadini e al paese.


15.) Nella disamina dei rapporti con il potere politico e con i magistrati si devono anche segnalare i forti contrasti che intervengono tra le opposte forze politiche quando vengono emanate leggi che (si assume) intendono assecondare interessi particolari e contingenti (o almeno, ritenuti tali).


Questo fenomeno ha provocato liti e tensioni sulla giustizia, tutti ritenendosi portatori delle ideologie sufficienti per legittimarsi al di sopra degli altri e tutti contribuendo in tal modo ad accrescere le divisioni e i contrasti. Così, ogni caso giudiziario e ogni iniziativa legislativa sono stati presi a pretesto per contrapposte valutazioni e l’opinione pubblica è stata continuamente sollecitata e frastornata da giudizi per lo più personali e atecnici, persino confondendosi soggetti e funzioni. Se il paragone non fosse irriverente (lo ricorda J. Huizinga, Homo ludens, 1938), si dovrebbe richiamare il processo degli esquimesi che, «quando vogliono sporgere una querela contro un altro, lo sfidano a una gara di tamburi», e vince chi rumoreggia di più (mentre le competizioni durano anni)!


In questo contesto, sufficientemente critico per la giustizia, l’avvocatura ritiene che si debbano porre dei rimedi, cominciando anzitutto a riportare il dibattito nelle più corrette proporzioni, ed eliminando tensioni e accuse totalmente estranee alla ricerca delle soluzioni possibili.
Così in particolare, per quanto riguarda i contrasti che sono sorti e sorgono in occasione di ogni iniziativa parlamentare, come di ogni decisione giudiziaria, dobbiamo insistere perché vengano distinte le funzioni dai soggetti che le svolgono, e le critiche siano riservate, quando necessario, ai soggetti che possono essere perfettibili o ai singoli casi giudiziari che possono essere oggetto di revisione, ma non alle funzioni svolte che debbono essere difese da tutti. E la funzione giurisdizionale soprattutto deve essere difesa da ogni attacco, essendo per eccellenza presidio del valore dello Stato.


È quindi necessario che tutti gli operatori della giustizia, politici, magistrati e avvocati, abbandonino i toni gravi e i risentimenti ingiustificati che turbano i rapporti interpersonali e impediscono la progressione e l’aggiornamento delle leggi, per ritrovare nella concordia degli strumenti tecnici di cui dispongono il metodo per sconfiggere i mali: le malattie non si combattono con le parole (penso alle lungaggini dei processi), ma con grandi e utili ricerche, nel solo interesse del bene pubblico (penso alle soluzioni concrete che da tempo attendono specifiche approvazioni).


Non è solo infatti il fair-play costituzionale necessario in questi contesti (è un richiamo del professor Conso), ma è anche il senso del limite e della lealtà che dovrebbe essere osservato: quale modello di senso di giustizia, invero, può essere dato al cittadino, se il contesto è quello che abbiamo pur sommariamente delineato?


16.) Vi è poi la durata dei processi. Su questo punto vi è concordia di opinioni, poiché lo Stato italiano ha battuto tutti i primati avanti la Corte di giustizia europea, con centinaia di casi affrontati e miliardi di spese sostenute.


La cosa curiosa è che, per tentare di limitare il danno anche di immagine derivato dalla realtà giudiziaria, è nata la legge 89/2001 (cosiddetta legge Pinto) che consente di agire avanti la Corte d’appello per ottenere il risarcimento del danno, precludendo l’iniziativa avanti la Corte europea dei diritti dell’uomo. Al di là poi dell’ulteriore proposta formulata di imporre un pre-tentativo obbligatorio di conciliazione (proposta non portata ad attuazione), resta il fatto che, con la legge indicata, il legislatore italiano si è preoccupato di limitare gli effetti delle distorsioni giudiziarie, senza operare sulle cause. È come se, per sopperire alla mancanza di scuole o alla mancanza di ospedali, venisse offerta una somma di denaro ad ogni analfabeta o ad ogni malato!


Certo non sono mancate e non mancano le iniziative, né è mancato il fatto lodevolissimo di introdurre la “durata ragionevole del processo” tra i principi sanciti dal nuovo assetto costituzionale. Ma è ancora prematuro pensare che questo male così diffuso sia stato vinto o quanto meno se ne sia limitata la gravità.


In effetti, i dati che più colpiscono, anno dopo anno, sono quelli numerici: sono dichiarati pendenti in primo grado 3,1 milioni di procedimenti civili (tra giudici di pace e giudici di tribunale), cui si debbono aggiungere i procedimenti in grado di appello, quelli avanti i giudici del lavoro (1 milione di procedimenti) e quelli in materia di famiglia e avanti la Corte di Cassazione (indicati questi ultimi nel numero di 76.478). Poi vi sono i processi penali pendenti (circa 6 milioni), con le varie distinzioni proposte. Per tutti sono indicati i tempi (sono tempi biblici) per arrivare a una decisione!


È la fotografia di un dissesto, tanto più grave se si pensa che tutto il contenzioso arretrato è stato azzerato nel 1997 con la creazione delle sezioni-stralcio e dei Goa (giudici onorari aggregati), e che in pochi anni la litigiosità è esplosa nuovamente in termini inaccettabili. Tanto più grave ancora se si pensa che la “durata ragionevole del processo” è oggi un principio costituzionale che deve essere garantito, come presidio del corretto espletamento della funzione giurisdizionale.


È dunque incomprensibile come si possano continuare a privilegiare interventi parziali e settoriali, senza prendere in esame l’intera struttura dei processi, per prospettare soluzioni o rimedi tecnicamente e concretamente possibili.


Sotto questo profilo la relazione sull’amministrazione della giustizia nella inaugurazione dell’anno giudiziario 2003 descrive analiticamente i problemi esistenti, ma non incoraggia a individuare e perseguire i possibili rimedi, tanto più che i dati sono quelli riferiti al giugno 2002, e vi è da credere che gli stessi numeri siano già virtualmente acquisiti per il prossimo anno.
Se così è, occorrerebbe  abbandonare le visuali parziali e settoriali e indagare la natura dei tempi (tempi atecnici, tempi inutili, tempi morti) e ricercare le possibili soluzioni. Così in particolare occorrerebbe aumentare il numero dei magistrati, risolvere il problema della magistratura onoraria, aumentare la competenza dei giudici di pace, semplificare le procedure all’interno del processo (evitando che nel processo si instaurino altri procedimenti esiziali per la conclusione del primo), accelerare l’adozione degli strumenti informatici (con tutti gli stanziamenti necessari), consentire motivazioni succinte (quando si accompagni un’alta professionalità nella formazione e nell’aggiornamento dei magistrati), colpire le liti temerarie (applicando le disposizioni già esistenti: gli articoli 88 e 96 del Cpc, ad esempio), prevedere riti alternativi (quando sia assicurata una analoga durata con i giudizi ordinari), assicurare l’espletamento sollecito dei giudizi in tema di famiglia e di lavoro (con strutture e personale adeguati), privilegiare l’attività di consulenza riservata agli avvocati rispetto all’attività contenziosa, e altro ancora che è oggetto di attenzione e di studio.
Come metodo da adottare, poi, dovrebbero essere abbandonate le mere posizioni di principio (un esempio per tutti: la separazione delle carriere o delle funzioni che in nessun modo - comunque - dovrebbero toccare l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati), e dovrebbero essere formulate proposte operative, tanti “articolati” su cui confrontare le conseguenze possibili sul piano tecnico, per ritrovare ottimisticamente una soluzione accettabile per tutti.


Sono queste alcune proposte concrete, su cui dovrebbero confrontarsi tutti gli operatori della giustizia, politici, magistrati e avvocati, in un tavolo comune, che voglia arrivare a invertire la tendenza in atto il più celermente possibile.


Forse nessuno si sente  particolarmente responsabile per la situazione disastrosa in cui ci troviamo (risalendo le colpe nel tempo e ognuno cercando di trasferirle ad altri); ma tutti siamo sicuramente responsabili – secondo la graduazione del potere che abbiamo - se non facciamo nulla per tutelare il diritto dei cittadini e il principio costituzionale sulla ragionevole durata dei processi.


È questo il compito, l’unico compito che dovrebbe essere raccomandato per il nuovo anno che ci attende.


17.) In verità non è mai sopita l’idea che gli avvocati siano responsabili o corresponsabili in grandissima misura della abdicazione della giustizia civile alla sua funzione, e quindi tocchi anche agli stessi darsi carico dei rimedi necessari.


Peraltro è certo che i ritardi della giustizia non possono dipendere dagli avvocati, poiché:
a) se tutti gli avvocati, improvvisamente, chiedessero provvedimenti istruttori o decisori per le cause in corso (rifiutando meri rinvii), la giustizia sarebbe al collasso totale. Per fare un esempio, se gli avvocati chiedessero la decisione immediata di tutte le cause pendenti, rinunciando ai rinvii, il ruolo di ciascun giudice potrebbe essere esaurito soltanto in alcuni decenni e naturalmente non dovrebbero sopravvenire ulteriori fascicoli! La richiesta di rinvio, dunque, diventa inconsciamente il mezzo per distribuire e alleggerire la funzione giudiziaria;
b) ma non solo. Nessun avvocato si è mai lamentato della lunghezza del processo, quando questa dipenda dalle richieste formulate di rinvio. Che poi queste richieste assolvano a ragioni effettive nell’interesse delle parti (il tentativo di una composizione amichevole, ad esempio), ovvero dipendano da comportamenti degli avvocati, è certo che in nessun modo le richieste di rinvio formulate dagli avvocati potrebbero addebitarsi ai magistrati. Ma è il contrario che si verifica, ed è all’ufficio che devono addebitarsi i tempi dei rinvii, quando l’uno o l’altro degli avvocati chieda una urgente decisione, e i giudici non siano in grado di soddisfare queste richieste!


c) un’ulteriore riprova della scarsa partecipazione degli avvocati ai ritardi endemici della giustizia, è data dal giudizio in Cassazione. In questo caso l’avvocato ha il termine di 60 giorni per redigere e notificare il ricorso, e null’altro può fare successivamente se non attendere alcuni anni per la decisione e altri anni per la pubblicazione della sentenza e molti mesi ancora per il ritiro del fascicolo: laddove è evidente che in questo giudizio, ove non vi è alcuna attività da compiere né alcuna iniziativa da assumere, i tempi lunghi dipendono esclusivamente dai giudici e dalle strutture. Lo stesso accade nel processo del lavoro (e tanto più grave è questo amaro riscontro), quando si constata che le udienze vengono fissate ad anni di distanza.


18.) Vi sono poi alcuni problemi particolari, che toccano l’attività degli avvocati e la gestione del processo. Vi sono state in questi ultimi tempi diverse critiche, per la denunciata commistione tra funzioni difensive e funzioni parlamentari o governative, e anche in questo caso le contrapposte valutazioni non hanno consentito il necessario chiarimento.
È utile pertanto ribadire che su questo punto non sono ammesse incertezze, e le regole debbono garantire la corretta gestione del processo, ad evitare illazioni sul comportamento della difesa, dannose di per se stesse per l’immagine dell’avvocatura, da qualunque parte esse provengano.


Occorre dunque rispettare le regole di incompatibilità e quelle sul conflitto di interessi, che il Cnf ha recentemente precisato, come abbiamo detto, imponendo all’avvocato di astenersi quando l’attività difensiva interferisca comunque con lo svolgimento di altro incarico anche non professionale (con ciò facendosi rientrare nella posizione di “conflitto” non solo funzioni utilizzate per contrastare interessi, ma anche per favorirli, e quindi ricomprendendosi nel dovere di astensione ogni ipotesi di interferenza, commistione o distorsione rispetto al corretto ordinario esercizio della professione forense).


È poi essenziale ancora una volta ricordare che è possibile rispettare la duplice fedeltà (verso l’ordinamento e verso la parte assistita), imposta dagli stessi principi costituzionali, agendo con una difesa sempre attiva e presente nel processo, e non contro il processo. Dentro il processo e per il processo, dunque, nella consapevolezza che ai fini del corretto dispiegarsi delle dinamiche processuali il procedimento debba essere protetto da tutte le possibili ingerenze esterne, e continui a rimanere in luogo il più possibile asetticamente separato dal più generale contesto sociale e politico (N. Luhmann, Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, Milano 1995), evitandosi in particolare che il processo sia celebrato e definito attraverso le comunicazioni mediatiche.


19.) Da ultimo, per un recupero della giustizia sul piano sostanziale, non si può fare a meno di ricordare che occorre ridurre il grado di inquinamento sociale che tuttora persiste in tante parti dell’attività umana. Sono sempre più numerosi (ce lo indica anche l’esperienza degli Stati Uniti) gli scandali nell’attività finanziaria e commerciale, all’insegna della più scorretta interpretazione dei doveri degli amministratori, e vi sono ancora tante occasioni di corruzione nei settori della vita economica che dimostrano carenza di etica, prima ancora che violazione della legge penale. E così sorge la necessità, anche negli aspetti pratici nel nostro nuovo diritto societario, ad esempio, di rispettare principi certi per dare trasparenza, chiarezza e oggettività ai rilevanti interessi che si muovono intorno ai soggetti economici.
Un’etica di responsabilità, dunque, è necessaria, cioè un’etica pubblica che privilegi gli interessi collettivi e indichi le regole di civiltà per riportare la giustizia al centro dell’affidamento dei cittadini.

Ma non solo. Sarebbe estremamente importante dimostrare di avere la capacità di valutare e di agire (“attraversare il deserto”, come è stato detto) isolando i fattori negativi e denunciandoli alla pubblica opinione.


E sotto questo profilo una importante lezione viene proprio ancora dagli Stati Uniti che hanno indicato attraverso la Rivista Time, come “personaggio dell’anno”, non già il potente di turno, ma le tre donne che hanno denunciato le disfunzioni delle grandi società finanziarie (Enron e Worldcom) e dell’organismo governativo (Fbi). Tre persone (Sherron  Watkins, Coleen Rowley e Cynthia Cooper) che «hanno rischiato tutto per dare l’allarme sugli imbrogli delle loro istituzioni»: tre persone comuni «che in modo straordinario hanno riportato fiducia nella società e nelle istituzioni».


Vorremmo sperare che simili esempi possano essere seguiti anche presso di noi.
20.) La giustizia è dunque un grande tema, che colpisce costantemente per la sua irrealizzabilità. Ma è anche lo specchio dell’agire umano, che offre mille opportunità per dare risposte ai problemi politici, sociali ed economici che il mondo propone (oltre a quelli giuridici, i soli parzialmente affrontati in questa sede).


La giustizia è dunque un modello da contrapporre ai tanti altri che la società di oggi presenta, esaltando la dovizia, il successo o altri beni di questa natura: idoli certo da non perseguire. Resta la giustizia, notre affaire à tous, intesa come equità, secondo la formula di J. Rawls, oppure come equilibrio, come abbiamo sempre ritenuto.