Riceviamo da Mario Cicala e
pubblichiamo volentieri questa riflessione di Domenica Aroma. La riteniamo il miglior
augurio che potevamo fare a chi ci segue. Che la prossima sia una
Pasqua di pace. GIUDICE E VERITA Una riflessione di Domenico Airoma Io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto
nel mondo: per rendere testimonianza alla Verità(Gv. 18, 37); queste sono le
parole che Gesù pronunzia dinanzi al suo giudice, Ponzio Pilato. La verità: è questo il tormento di ogni giudice; come fare
per avvicinarsi il più possibile al vero e rendere giusta la sentenza emessa. Seguire lesempio di Pilato e chiedersi, senza però
ricercare una risposta, che cosa sia la verità, oppure comportarsi come il centurione
sotto la croce: osservare con umiltà il reale e trarne il giudizio:Veramente
questuomo era il figlio di Dio!. Quale umiltà, e soprattutto, quando lumiltà è
condizione per la conoscenza e, quindi, per il retto giudizio? Guai a quel giudice ha scritto tempo fa un
magistrato- che a somiglianza del fariseo di fronte al pubblicano è soddisfatto della
sua sentenza perché sente di essere un uomo giusto di fronte a una schiera illimitata di
peccatori. Pessime sarebbero le sentenze pronunziate con tale spirito, che è quello vuoto
del vanitoso, superbo peccatore. Saggio invece quel giudice che farà sentire alle parti
come la sua decisione, inflessibile ed equilibrata, rispecchia il profondo sentimento
cristiano dellamore, perché egli non si sente affatto dissimile da coloro che
giudica. Lumiltà del giudice postula, dunque, umanità. Lumanità intesa non come vuota clemenza, lavacro delle
proprie e delle altrui colpe, ma come abito mentale, abitudine a tener presente che la
legge è per luomo e non luomo per la legge (Pio XII). E porre luomo al di sopra delle leggi scritte, significa
innanzitutto riconoscere i limiti propri e quindi quelli delle persone da giudicare; ma
vuol dire anche sacrificare le libertà degli uomini se e nella misura in cui ciò sia
giustificato dal diritto, così come non applicare la legge ingiusta e smettere la toga se
le norme comprimono, senza giustificazione, i diritti che ciascuno porta scritti dentro di
sé. Che fare, allora? Come acquisire, cioè, questo abito, che è, in definitiva, il modo
stesso di essere del giudice? Il magistrato è ottimo è stato detto- quando
si affidi alla diligenza più che allingegno per avvicinarsi alla verità. Quanto poco esaltante, allapparenza, è una prospettiva di tal
fatta. Ma quanto impegnativa! E il giudice diligente, infatti, che matura la capacità di
accostarsi con rispetto ai fatti, al processo, alle parti; e così facendo si spoglia dei
propri pre-giudizi, del proprio senso di onnipotenza, combatte lipertrofia dellio
e riduce al massimo lerroneità del giudizio. Ugo Betti, in Corruzione a Palazzo di Giustizia, ci ha
dato un ritratto, davvero mirabile, di vecchio magistrato sul finire della carriera: Per
lunghi anni, ascoltando in silenzio molte bugie, essi hanno esaminato azioni umane di
straordinaria sottigliezza e perfidia. La loro esperienza è immensa. La gente vede, oltre
il tavolo, dei signori un po logorati e cerimoniosi. Ma in realtà (
) sono dei
lottatori (
). Generalmente hanno il sonno difficile, e così
covano le loro
idee a lungo. Sono capaci di ascoltare attentamente, tenaci, prudentissimi. Dunque: umiltà tenace; è questa la strada. Come fare, però, per conservare questabito, farlo diventare
uno stile di vita professionale? Conservando intatta la sofferenza del giudicare. E questo monologo interiore ha scritto non
un magistrato- che nobilita il giudice anche nellerrore. Quando le cause non
passano più per i punti obbligati della scienza e della coscienza, il magistrato diventa
un funzionario come tanti. La sua fatica si riduce nel saper aprire il codice alla pagina
giusta. Il codice diventa il libro dei libri, lenciclopedia di Stato dei delitti e
delle pene. Disporre dellonore, della libertà, degli averi, dellavvenire,
della vita dei propri simili; basterebbe riflettere, solo per un attimo, sugli effetti del
giudicare, per esclamare, da un lato: quali funzioni sublimi!, ma dallaltro: quali
terribili compiti! Allora, la sofferenza del giudicare è, forse, condizione prima
per maturare la capacità di accostarsi il più possibile al vero, per la capacità stessa
di giudicare. Smarrire questa sofferenza, cloroformizzarla, o, peggio ancora,
esorcizzarla piegando il giudizio al perseguimento di un obiettivo ritenuto superiore per
ideologia o per interesse, è il dramma del giudice, la vera questione morale della
magistratura. Per il giudice cattolico, vi è un sollievo; egli sa che quella
sofferenza, che lo accompagnerà durante tutta la vita, non è senza significato;
riparare, per quanto è dato alla sua condizione di creatura, loltraggio alla
Verità compiuto da Ponzio Pilato, nella certezza che alla fine la Giustizia, quella Vera,
trionferà. |