Indigenza e lavoro
Corte costituzionale ordinanza 6-18 dicembre 2002-12-18
Presidente Chieppa Redattore Flick
Ritenuto
che il Tribunale di Napoli solleva, in riferimento agli articoli 1,
2, 3, 4, 13, secondo comma, 27, terzo comma, e 35 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dellarticolo 284, comma 3, del codice di procedura
penale, «nella parte in cui prevede che il giudice possa effettuare il giudizio sulla
opportunità di concedere al detenuto agli arresti domiciliari lautorizzazione ad
assentarsi dal luogo di detenzione per lo svolgimento di una attività lavorativa soltanto
qualora il detenuto non possa altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di
vita, ovvero versi in situazione di assoluta indigenza»;
che il giudice rimettente - dopo aver sottolineato come larticolo 284, comma 3, Cpp
rappresenti esplicazione del generale principio sancito dallarticolo 277 del
medesimo codice, in tema di salvaguardia dei diritti della persona sottoposta a misure
cautelari, così da doversi «perseguire un equilibrato bilanciamento dei contrapposti
interessi coinvolti dal provvedimento coercitivo», e consentire al giudice la scelta di
modalità attuative del regime cautelare atte a sacrificare il minimo indispensabile i
diritti fondamentali della persona richiama, quale termine di raffronto, il diverso
regime che presiede alla autorizzazione al lavoro per i detenuti in carcere;
che, infatti, in base allarticolo 20 dellordinamento penitenziario, il lavoro
«nel caso di detenzione carceraria è obbligatorio e con finalità non
produttive nè afflittive, bensì di natura rieducativa»; che il detenuto, espiata parte
della pena, può chiedere alla autorità penitenziaria di essere ammesso al lavoro allesterno,
come dipendente o lavoratore autonomo; che, infine, la direzione penitenziaria ammette il
detenuto al lavoro allesterno emanando un provvedimento amministrativo che deve
essere approvato con decreto dal magistrato di sorveglianza;
che, inoltre, «gli articoli 47ter, 47quater e 47quinquies» della legge 354/75, nel
disciplinare listituto della detenzione domiciliare per il condannato, a differenza
di quanto stabilito dalla norma impugnata, non prevedono che per poter svolgere una
attività lavorativa esterna, il condannato debba trovarsi in stato di assoluta
indigenza, ovvero nella «impossibilità di provvedere altrimenti alle proprie
indispensabili esigenze di vita»;
che, pertanto, svelerebbe «tutta la sua irragionevolezza un impianto normativo il quale -
mentre per il rilascio della autorizzazione del lavoro allesterno dellistituto
penitenziario da parte del detenuto ristretto in carcere, ovvero del condannato in stato
di detenzione domiciliare», non richiede le condizioni di cui innanzi si è detto -
impone, invece, la sussistenza di tali requisiti ove la medesima autorizzazione riguardi
la persona sottoposta alla misura cautelare degli arresti domiciliari, malgrado si tratti
di soggetto «istituzionalmente ritenuto socialmente meno pericoloso»;
che, di conseguenza, tale irragionevole disciplina contrasterebbe, a parere del giudice a quo, anche con il principio sancito dallarticolo
27, terzo comma, della Costituzione, posto che sottolinea il rimettente - «anche
la custodia cautelare deve uniformarsi» al suddetto principio, secondo quanto sarebbe
stato testualmente affermato da questa Corte (sentenza 173/97);
che sarebbe violato anche larticolo 13, secondo comma, della medesima Carta, in
quanto al giudice sarebbe imposto di dichiarare inammissibile, in via preliminare, la
richiesta di autorizzazione al lavoro in mancanza della condizione soggettiva patrimoniale
postulata dallarticolo 284, comma 3 Cpp, senza poter in alcun modo «valutare il
merito della richiesta stessa che, viceversa, meriterebbe di essere esaminata
esclusivamente sotto il profilo della sua compatibilità con le esigenze di tutela
sociale, alla stregua della pericolosità del detenuto»;
che, infine posto che lindicata condizione «di carattere soggettivo
patrimoniale» precluderebbe al giudice di operare il doveroso bilanciamento tra il
sacrificio di diritti fondamentali, come quello al lavoro, e le esigenze cautelari
ne deriverebbe, ad avviso del rimettente, «un irragionevole sacrificio della dignità
umana e professionale», nonchè una «disparità di trattamento fondata sulle sole
condizioni economiche del detenuto», con la conseguente violazione degli articoli 1,
primo comma, 2, 3, 4 e 35, della Costituzione;
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata
non fondata.
Considerato
che il giudice a quo
censura larticolo 284, comma 3 Cpp, nella parte in cui prevede che, nei confronti
della persona sottoposta alla misura degli arresti domiciliari, il giudice possa
autorizzare limputato ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo dellarresto
per esercitare una attività lavorativa, soltanto qualora limputato stesso «non
possa altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita» ovvero «versi in
situazione di assoluta indigenza»;
che secondo le prospettive del giudice a quo - il nucleo delle censure si concentra
sulla pretesa, irragionevole disparità di trattamento che sarebbe dato riscontrare tra la
disciplina prevista, in tema di autorizzazione al lavoro, per limputato sottoposto
alla misura degli arresti domiciliari per il quale varrebbe una presunzione di
pericolosità affievolita e quella prevista per chi è detenuto in carcere: e ciò
perchè, in base allarticolo 20 dellordinamento penitenziario, «il lavoro,
nel caso di detenzione carceraria, è obbligatorio e con finalità non
produttive nè afflittive, bensì di natura rieducativa»; non è subordinato alle
condizioni invece prescritte dalla disposizione censurata; può essere autorizzato anche
allesterno del carcere in favore del detenuto che abbia «espiato parte della
pena», a seguito di provvedimento amministrativo della direzione penitenziaria, approvato
con decreto del magistrato di sorveglianza,
avendo di mira, come parametri, esclusivamente «quelli rieducativi (art. 27, terzo comma,
Cost.), nel rispetto delle esigenze di tutela sociale»;
che analogo raffronto varrebbe anche con riferimento alla disciplina dettata in tema di
«detenzione domiciliare del condannato», considerato che gli articoli 47ter, 47quater e
47quinquies dellordinamento penitenziario non richiederebbero, per lautorizzazione
allo svolgimento di una attività lavorativa esterna, le condizioni prescritte dallarticolo
284 comma 3, Cpp;
che, peraltro, la prospettata analogia di situazioni, da cui discende lintera gamma
delle doglianze, si rivela palesemente erronea: e ciò, non soltanto sul piano più
generale della assimilabilità di status fra loro eterogenei, quali sono quelli che
contraddistinguono, da un lato, la condizione dellimputato sottoposto ad una misura
cautelare personale, e, dallaltro, quella del condannato in fase di esecuzione della
pena; ma anche sul versante, più specifico, dei provvedimenti destinati ad incidere sulle
rispettive sfere di coercizione, in vista della possibilità di svolgere una attività
lavorativa;
che, quanto al primo aspetto, è infatti agevole rilevare come la funzione rieducativa -
cui è necessariamente informata lintera fase esecutiva e sulla cui falsariga sono
quindi plasmati gli istituti previsti dallordinamento penitenziario - si rivela non
soltanto eccentrica, ma addirittura contraddittoria rispetto alle connotazioni che
tipizzano lintera gamma delle misure cautelari;
queste ultime - presupponendo la temporaneità e le garanzie postulate dallarticolo
13 della Costituzione - evidentemente sono volte a presidiare esclusivamente i pericula
libertatis previsti dalla legge: con esclusione, quindi, di qualsiasi finalità di rieducazione
che, per gli imputati, equivarrebbe ad una palese elusione del principio di presunzione di
non colpevolezza;
che, in effetti, questa Corte ha affermato (v. sentenza 173/97, citata) non già - come
assume il rimettente - che «la finalità rieducativa è assegnata dalla Costituzione a
ogni pena e, dunque, anche alle misure cautelari»; bensì che tale finalità è
assegnata, accanto ad ogni pena, «anche alle misure alternative previste in seno allordinamento
penitenziario»;
che, di conseguenza, ben si giustifica la previsione dellarticolo 15 dellordinamento
penitenziario, secondo cui il lavoro è una componente essenziale del trattamento
rieducativo, al punto come rammenta lo stesso giudice a quo - da essere configurato
come «obbligatorio per i condannati», in base allarticolo 20 dello stesso
ordinamento; non senza rammentare, peraltro, come per il detenuto in carcere lintero
complesso delle misure che lo riguardano vale a distinguere nettamente la condizione di
chi vi è sottoposto, rispetto alla posizione che caratterizza limputato agli
arresti domiciliari;
che le considerazioni che precedono - in ordine alla eterogeneità e non comparabilità,
sotto questo profilo, delle condizioni concernenti rispettivamente lesecuzione della
pena e le misure cautelari personali valgono altresì con riferimento allistituto
della detenzione domiciliare: questultima infatti è una misura alternativa che
presuppone lesecuzione della pena e che assume, per di più, connotazioni del tutto
peculiari nel panorama di tali misure, avuto riguardo ai profili polifunzionali che la
caratterizzano e che consentono, in sè, di distinguerla dallapparentemente simile
istituto degli arresti domiciliari (v. sentenza 165/96); non senza sottolineare, peraltro,
come lo stesso articolo 47ter dellordinamento
penitenziario richiami espressamente (al comma 4) proprio larticolo 284 Cpp, per
determinare le modalità secondo le quali la detenzione domiciliare deve
essere eseguita;
che, infine, la differenza fra la condizione dellimputato sottoposto a custodia
cautelare in carcere e quella dellimputato agli arresti domiciliari rende ragione
del fatto peraltro non evocato dal rimettente che la disciplina dellarticolo
21 dellordinamento penitenziario sia applicabile al primo e non invece al secondo;
che rientra nella sfera della discrezionalità legislativa bilanciare lesercizio di
diritti fondamentali, come il diritto al lavoro, con la specifica natura e funzione delle
singole misure di cautela personale: con lovvio limite rappresentato dal rispetto
del principio di ragionevolezza, che nella specie venendo in discorso una misura
coercitiva equiparata, in tutto e per tutto, alla custodia cautelare in carcere - non può
ritenersi esser stato in alcun modo vulnerato;
che, di conseguenza, la questione proposta deve essere dichiarata manifestamente
infondata.
Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 87/1953, e 9, secondo comma, delle norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Per
questi motivi
La corte costituzionale
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dellart.
284, comma 3, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 1,
2, 3, 4, 13, secondo comma, 27, terzo comma, e 35 della Costituzione, dal Tribunale di
Napoli con lordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6
dicembre 2002.
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