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Misure urgenti in materia di amministrazione della giustizia e servizi di sicurezza e ordine pubblico, limitatamente ai capi I, II e IV.

 

 

Il D.L. n. 201/2002 interviene in settori dell’amministrazione della giustizia per i quali il Governo ha ritenuto improcrastinabile un intervento normativo atto a garantire funzionalità ed efficienza e ad impedire che si creino situazioni di aggravio dell’attuale stato della giurisdizione; si prevede così, attraverso una modifica della c.d. legge Pinto, un filtro conciliativo per le cause di equo indennizzo da violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, si modificano le procedure per la nomina dei giudici di pace, si aumenta la dotazione di personale del CSM, si introduce una nuova regola per la formazione dei collegi della Corte di cassazione.

 

Le modifiche alla legge n. 89 del 2001.

Com’è noto, la legge n. 89 del 2001 ha introdotto nel nostro ordinamento il diritto ad un’equa riparazione per le ipotesi di eccessiva durata dei processi, prevedendo al primo comma dell’art. 2 che “chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione, ha diritto ad una equa riparazione.”.

Tale intervento normativo si era reso necessario dopo che la proposizione di un numero altissimo di ricorsi contro l’Italia innanzi alla Corte di Strasburgo per violazione dell’art. 6 della CEDU, alterando i ritmi e i flussi di lavoro della Corte, aveva fatto sorgere quel c.d. “probléme italien” da cui era nata per il nostro Paese l’esigenza di adottare una serie articolata di misure atte a risolvere il problema dei tempi dell’amministrazione della giustizia. La scelta di introdurre un sistema indennitario interno era stata poi determinata dalla lettura offerta dalla C.E.D.U. dell’art. 13 Conv. (che recita: “tutte le persone i cui diritti e le cui libertà riconosciuti dalla presente convenzione sono stati violati, ha diritto ad avvalersi di un rimedio effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”), secondo cui deve essere previsto nell’ordinamento interno un rimedio effettivo mediante il quale sollevare davanti a un’istanza nazionale la questione della durata eccessiva della procedura [cfr. sent. CEDU, Grande Chambre, Kudla c. Polonia (132 -160) del 26/10/2000].

L’introduzione del rimedio nel nostro ordinamento ha comportato la proposizione di un numero assai elevato di ricorsi innanzi alle Corti d’Appello (competenti a provvedere) e che è verosimilmente destinato ad aumentare, in relazione alla diffusione nella pratica dello strumento e alla maggiore facilità di accesso ad un giudice nazionale anziché ad una Corte internazionale, mentre la minacciata ricaduta sull’ordinamento interno dei circa 12.000 ricorsi pendenti a Strasburgo deve ritenersi ormai in gran parte scongiurata (essendo decorso il termine – fissato dall’art.6 della l. n.89/2001 in sei mesi dall’entrata in vigore della legge e poi prorogato al 18/04/2002 dall’art. 1 DL n. 370/2001 conv.in L.n. 432/2001 – per la riproposizione innanzi alle Corti d’Appello competenti dei ricorsi già presentati innanzi alla CEDU ma non ancora dichiarati ricevibili all’entrata in vigore della legge).

In questa situazione, il D.L. persegue l’obiettivo di ridurre le sopravvenienze e le pendenze dei ricorsi per equo indennizzo, attraverso l’introduzione di un filtro precontenzioso e, per le cause pendenti, la formulazione di proposte transattive.

A tal fine viene novellata la l.n.89/2001 con l’introduzione di un art. 2 bis (art. 1 del DL) e la modifica degli artt. 3 (art. 2 del DL) e 5 (art. 3 del DL) prevedendosi:

a)      la comunicazione della volontà d’introdurre l’azione di equa riparazione, corredata da copia degli atti del processo cui si riferisce, quale condizione di procedibilità con possibilità di adire il giudice solo decorsi novanta giorni;

b)      l’attribuzione del potere di transigere all’Avvocatura dello Stato;

c)      la natura di titolo esecutivo dell’atto di transazione;

d)      l’esenzione dall’imposta di registro e l’attribuzione delle spese e degli onorari inerenti alla transazione a carico delle parti che li hanno sopportati;

e)      la dotazione dell’Avvocatura con personale e mezzi messi a disposizione dalle Amministrazioni interessate;

f)        la possibilità, per le cause pendenti, di pervenire a transazione fino al momento della decisione, con conseguente estinzione del giudizio;

g)      la motivazione del decreto con mero richiamo del precedente;

h)      le conseguenze sulle spese processuali del rifiuto immotivato di transigere;

i)        l’individuazione nel Ministero dell’Economia e delle finanze dell’ente pagatore, nei cui confronti far luogo se del caso all’esecuzione forzata;

j)        la sottrazione del contenzioso tributario all’ambito di applicazione della l.n.89/2001 (con le precisazioni di cui d’appresso).

 

Merita indubbiamente di essere condivisa la scelta di individuare strumenti deflattivi, atti ad evitare che le pendenze dei procedimenti di equa riparazione divengano un ulteriore elemento di disfunzione del sistema e che la durata dei procedimenti medesimi possa dar luogo a una nuova ondata di contenzioso italiano davanti ai giudici di Strasburgo.

Sulla base di tale premessa, e tenuto conto delle possibili ricadute della nuova normativa sull’organizzazione giudiziaria e sulla efficienza della giurisdizione (tra le quali sono da ricomprendersi anche i possibili contrasti applicativi derivanti da una formulazione dubbia del dettato normativo, essendo evidente che le oscillazioni giurisprudenziali in materia processuale possono dar luogo al moltiplicarsi delle impugnazioni, all’allungamento dei tempi nonché, talvolta, a ingiustificate disparità di trattamento), si formulano alcune considerazioni.

 

Sull’esclusione dei procedimenti del giudice tributario dall’ambito di applicazione della legge:

  1. Il nuovo art. 2 bis, rubricato “accordo transattivo”, dopo aver disciplinato al 1° comma la condizione di procedibilità, individua i destinatari della comunicazione (Ministero della Giustizia per i procedimenti di competenza del giudice ordinario, Ministero della Difesa per quelli di competenza del giudice militare, Presidenza del Consiglio in ogni altro caso) e quindi prevede: “Sono esclusi dall’accordo transattivo di cui alla presente legge i procedimenti del giudice tributario”; il nuovo 3° comma dell’art. 3, a sua volta, disciplina la legittimazione passiva attribuendola rispettivamente ai Ministri della Giustizia, della Difesa e dell’Economia per i procedimenti del giudice ordinario, di quello militare e per i “procedimenti tributari rilevanti penalmente” e alla Presidenza del Consiglio per ogni altro caso; aggiunge quindi: “Sono esclusi dal ricorso di cui alla presente legge i procedimenti di competenza del giudice tributario”.
  2. Tale previsione (che esigenze di chiarezza del testo normativo suggerirebbero di inserire nell’art. 2 della l. n. 89/2001 e non nella norma sulla transazione né in quella sulla legittimazione) trae fondamento dalla sentenza CEDU 12 luglio 2001, Ferlazzini c. Italia, che ha escluso dall’ambito di applicazione dell’art. 6 Conv. (cui rinvia l’art. 2 della legge interna) i procedimenti tributari, che non hanno natura né civile né penale ricadendo la materia fiscale “nel nocciolo duro delle prerogative del potere di imperio, poiché predomina la natura pubblica del rapporto tra contribuente e collettività”.
  3. Meno chiaro è, a fronte della univocità della decisione strasburghese, il richiamo alla nozione di “procedimenti tributari rilevanti penalmente” utilizzata nel ritagliare un’ambito di legittimazione passiva al Ministero dell’economia, né lumi fornisce la lettura della relazione illustrativa. Infatti: qualora si sia inteso far riferimento a processi penali aventi ad oggetto reati tributari, sarebbe opportuna l’adozione di una espressione letterale che non dia luogo, come l’attuale, a possibili dubbi, mentre dovrebbe in ogni caso esplicitarsi la ragione per cui tra i molti e vari procedimenti del giudice ordinario solo per i processi penali tributari sia individuato un legittimato passivo diverso dal Ministro della Giustizia (che, in ragione delle sue competenze, ha piena cognizione dello stato dell’amministrazione della giustizia e dei singoli singoli uffici giudiziari); qualora, invece, si sia inteso ricomprendere nell’ambito di applicazione della l. n.89/2001, sottraendoli alla generale esclusione, i giudizi di competenza del giudice tributario nei casi in cui i fatti costitutivi dell’obbligazione tributaria integrino anche estremi di reato, si può rilevare come la valenza penale di alcuni fatti non muti la natura del giudizio innanzi alle Commissioni tributarie che, secondo la CEDU, ha ad oggetto rapporti di diritto pubblico e resta in ogni caso estranea alla previsione di cui all’art. 6 Conv.
  4. Sembra, infine, opportuno ricordare - per completare il quadro della giurisprudenza di Strasburgo in materia - la sentenza della C.E.D.U. 26 gennaio 1994, Bendenoun c. France. Nella specie, nei confronti dell’interessato si erano svolti in parallelo tre procedimenti, uno doganale, uno fiscale e uno penale per evasione delle imposte sulle società e sul valore aggiunto e lo stesso lamentava che il procedimento davanti al giudice amministrativo per l’irrogazione di maggiorazioni d’imposta non fosse stato un processo equo (per violazione del contraddittorio); a fronte dell’eccezione del Governo – trattarsi di materia non penale, esclusa dalla Convenzione -, la Corte affermò la predominanza di elementi caratterizzati da une coloration pénale (finalità preventiva e repressiva della norma; finalità della maggiorazione d’imposta: non riparazione pecuniaria di un pregiudizio ma punizione e intervento che mira a impedire la reiterazione; afflittività in relazione all’importo elevato) tanto da attribuire caractére pénal ai sensi dell’art. 6 Conv. al procedimento con cui si applicano sanzioni fiscali.

 

Sulla comunicazione.

  1. Come si è già osservato, chi intenda promuovere l’azione per l’equa riparazione deve, a pena d’improcedibilità, comunicare tale volontà all’Avvocatura distrettuale dello Stato con lettera raccomandata AR corredata dall’atto introduttivo del giudizio, i verbali, le decisioni. Dalla comunicazione decorre un termine di 90 giorni rilevante a più fini (la procedibilità dell’azione, la comunicazione della proposta transattiva da parte dell’Avvocatura, la sospensione del termine di decadenza per la proposizione dell’azione, lo spatium decorso il quale le trattative si considerano espletate) ed appare opportuno che la norma stabilisca se il termine decorre dalla spedizione o dal ricevimento della raccomandata.
  2. Appare altresì opportuno che la comunicazione sia corredata da copia integrale degli atti del procedimento o quanto meno copia integrale di tutti gli atti di parte oltre che dei verbali e delle decisioni, onde evitare che l’Avvocatura debba successivamente chiedere ai singoli uffici giudiziari interessati l’integrazione, con inutile aggravio di attività per entrambi. Dovrebbe poi coordinarsi la disposizione sugli atti che devono essere offerti in comunicazione a pena di improcedibilità con l’art. 3, 5° co. della legge, secondo cui “le parti hanno facoltà di richiedere che la Corte disponga l’acquisizione in tutto o in parte degli atti e dei documenti del procedimento in cui si assume essersi verificata la violazione”; trattandosi di atti di cui sia il ricorrente (perché parte del procedimento medesimo) sia l’Avvocatura (perché destinataria della comunicazione corredata dagli atti e documenti del procedimento) hanno la disponibilità, potrebbe sopprimersi tale ultima previsione, residuando in ogni caso alle parti il potere di richiedere al giudice l’ordine di esibizione e l’assunzione di informazioni dalla PA.

 

Sulle possibili ricadute sugli uffici giudiziari

  1. Due sono le previsioni da cui possono derivare onerose e disfunzionali ricadute sugli uffici giudiziari: quella di cui all’art. 2 bis, 3° co., secondo cui l’Avvocatura procede a formulare una proposta transattiva “sentite le amministrazioni interessate ed acquisita, presso i competenti uffici giudiziari copia di ulteriori atti e documenti” nonché quella di cui al successivo11° comma: “Per l’espletamento della fase precontenziosa di cui al presente articolo da parte degli Uffici dell’Avvocatura dello Stato, le amministrazioni interessate provvedono, ai sensi dell’articolo 14 della legge 7 agosto 1990, n. 241, alla provvista di locali e di attrezzature anche informatiche, nonché all’attribuzione, mediante comando o distacco di unità di personale amministrativo in possesso di specifiche professionalità”.
  2. Premesso che è necessario specificare se per amministrazioni interessate devono intendersi le amministrazioni di appartenenza (i Ministeri della Giustizia, della Difesa etc.) ovvero gli uffici giudiziari, deve sin da ora segnalarsi, quanto alla prima disposizione, che, qualora l’espressione “sentite le amministrazioni interessate” dovesse interpretarsi nel senso che l’Avvocatura acquisisce informazioni scritte su tutti i procedimenti oggetto di richiesta indennitaria, permarrebbe un fattore di aggravio del lavoro dei magistrati; ciò è facilmente pronosticabile in quanto già oggi in via di prassi e in vista della costituzione in giudizio, pervengono richieste di informative e relazioni che sottraggono tempo prezioso al lavoro giudiziario (e ciò non solo per le difficoltà ricostruttive di giudizi annosi cui si è eventualmente partecipato solo in parte, ma anche perché, stante la previsione della comunicazione per l’eventuale esercizio dell’azione disciplinare e di responsabilità contabile, di fatto prevalgono infondate preoccupazioni difensive del singolo là dove si è per lo più in presenza di annose difficoltà organizzative e strutturali). Sembrerebbe preferibile non includere una tale previsione che si tradurrebbe in una sistematica richiesta di informazioni anche nei casi più elementari, lasciando che sia l’Avvocatura (ai sensi dell’art. 14 RD n.1611/1933) a decidere, in relazione alle peculiarità del caso concreto, dell’uso del potere di richiedere chiarimenti, informazioni e documenti agli uffici interessati..
  3. Se l’11° comma fa carico ai Ministeri interessati della dotazione strutturale della fase precontenziosa, nulla quaestio (ma nessuna esplicazione viene dalla Relazione tecnica al DL ove soltanto “si precisa che verranno utilizzati locali ed attrezzature già in possesso delle Amministrazioni e che verranno applicate unità di personale già in servizio presso le stesse mediante comando, distacco o collocamento fuori ruolo). Laddove, invece, si ritenesse (e la competenza dell’Avvocatura dello Stato del distretto di Corte d’Appello ove si è svolto o si sta svolgendo il procedimento depone in tal senso) che le amministrazioni interessate sono (per la giustizia ordinaria) le Corti d’Appello, dovrebbe rilevarsi come tali uffici (a seguito del rilevante aumento di competenze degli ultimi anni, sia in unico grado che in grado d’appello, si pensi solo alle controversie di lavoro) sono assai gravati e non potrebbero (soprattutto i distretti più piccoli, destinati magari a trattare i procedimenti provenienti da grandi distretti come Roma o Milano) tollerare la sottrazione di uomini e mezzi. Ma anche per le Corti di appello di maggiori dimensioni una generalizzata previsione di destinazione di locali e personale in favore dell’Avvocatura dello Stato appare strumento eccessivamente rigido e poco funzionale, solo che si consideri l’estrema eterogeneità del numero delle nuove iscrizioni che sarà poco sotto illustrata. Assai più opportuna sarebbe la previsione da parte della legge di una generale forma di collaborazione delle Corti di Appello, così che ogni sede giudiziaria possa graduare l’impegno sulle effettive necessità.

 

Sulla transazione in corso di causa.

Per i giudizi pendenti, l’art. 2 bis, 12° co. prevede che l’Avvocatura possa formulare una proposta transattiva finchè la causa non è trattenuta in decisione; l’eventuale transazione comporta rinuncia agli atti ed estinzione del giudizio, che è pronunciata dal Presidente del collegio innanzi al quale pende il processo.

Poiché la transazione comporta per legge l’estinzione del processo, superflua è la previsione che la stessa implichi altresì rinuncia agli atti (istituto del resto che mal si concilia con un effetto estintivo legale, essendo lo strumento con cui le parti personalmente o i difensori muniti di procura speciale provocano di comune accordo l’estinzione del processo).

Il 13° co. dell’art. 2 bis prevede che l’estinzione sia dichiarata con decreto del presidente del collegio.

Quanto alla competenza a rendere il provvedimento, la ratio dell’individuazione del presidente del collegio è verosimilmente quella di non coinvolgere il collegio medesimo in un’attività di breve momento. In merito, si segnala come costituisca una novità assoluta nell’ambito del processo civile, in particolare all’interno di un procedimento camerale, (sui cui riflessi sistematici sarebbe opportuna una riflessione) l’attribuzione – mutuata dal nuovo processo amministrativo - al presidente del collegio del potere di emanare il provvedimento che conclude il procedimento, posto che il presidente non ha poteri decisori autonomi .

Quanto alla forma, si prevede il decreto tipico del procedimento camerale; niente si dice sul regime delle impugnazioni di questo provvedimento, mentre sarebbe opportuno esplicitare se lo si ritiene inoppugnabile ovvero soggetto all’ordinario reclamo.

 

Sulle spese processuali

L’art. 2 del DL introduce nell’art. 3 della l. n.89/2001 un comma 6 bis, il quale attribuisce al giudice il potere di escludere la ripetizione delle spese o di condannare il vincitore alle spese “se risulta che ha, immotivatamente, rifiutato di aderire alla proposta transattiva formulata a norma dell’art. 2 bis di contenuto analogo a quello del decreto di cui al comma 6” (quello che definisce il giudizio di equa riparazione).

In sostanza, si introduce il principio per cui non valgono le regole sulla soccombenza nel caso in cui il decreto riconosca un indennizzo di importo “analogo” a quello contenuto nella proposta transattiva dell’Avvocatura. Pur nello spirito deflativo che anima tale disposizione appare eccessivamente punitiva l’ablazione dell’ordinario principio di soccombenza, ben potendo il rifiuto di aderire alla proposta di transazione costituire giusto motivo di compensazione delle spese processuali. In via più generale, sarebbe opportuno intervenire sull’art. 96 c.p.c. tipizzando le ipotesi di lite temeraria; in tal senso, seppur con riferimento alla riduzione dello spazio equitativo di cui all’art. 92 c.p.c., si era del resto già espresso questo Consiglio nel parere del 21 febbraio 2002 sul disegno di legge n. 2229/C recante “Modifiche urgenti al codice di procedura civile”, laddove si affermava: “In questa prospettiva non può non osservarsi come il rafforzamento dell’art.96 c.p.c. (con l’inserimento ad esempio della impugnazione manifestamente infondata tra le ipotesi tipiche di responsabilità aggravata) o la previsione di una sanzione pecuniaria, nel caso di lite temeraria, potrebbe rendere ben più consistente l’effetto deflattivo perseguito. Al riguardo, taluno ha suggerito di aggiungere al primo comma dell’art. 96 la previsione di una condanna in misura non inferiore al triplo delle spese ed al secondo comma prevedere una liquidazione equitativa, avuto riguardo al limite minimo di cui al comma precedente”.

 

Una considerazione conclusiva

La relazione illustrativa al DL afferma che “le ragioni pressanti ed eccezionali che impongono di intervenire nuovamente sulla materia vanno individuate nella presentazione di un numero rilevante di ricorsi presso le Corti d’Appello che solo per l’anno 2001 sono pari a 1622 e che, allo stato, nei primi cinque mesi dell’anno 2002 sono pari a 2629”.

Si è già detto che si concorda sull’analisi di fondo: l’introduzione del rimedio interno dell’equa riparazione aumenta i carichi di lavoro delle corti d’appello ed è necessario prevedere strumenti deflattivi per evitare ulteriori aggravi e allungamenti di tempi processuali.

Deve, peraltro, aggiungersi che il filtro conciliativo testé esaminato, seppur opportuno, potrebbe non risultare sufficiente per risolvere tutti i problemi posti dalla legge Pinto. Se, infatti, si vanno ad esaminare i dati relativi alle sopravvenienze dei procedimenti per equa riparazione anziché nel loro totale (come si fa nella relazione) dissociati per distretto di corte d’appello, emerge un dato molto preciso: i circa 4.200 procedimenti sopravvenuti nel primo anno di vigenza della legge (aprile 2001 – maggio 2002), la stragrande maggioranza si concentra in pochi distretti di Corte d’appello, quelli competenti a giudicare dei processi svoltisi nei grandi distretti: innanzi alla CdA di Perugia (competente per Roma) nel periodo giugno 2001 – giugno 2002 sono stati introdotti 1106 procedimenti ex l. n. 89/2001 di cui pendenti alla fine del periodo 654; innanzi alla CdA di Genova (competente per Firenze) 462 di cui pendenti alla fine di giugno 2002, 92; a Firenze (competente per Perugia) dal 25/3/2001 al 30/9/2002 sono stati introdotti 62 giudizi e sono stati definiti 36; a Torino (competente per Genova) nello stesso periodo sono stati proposti 293 con definizioni pari a 202; a Milano 83 procedimenti e 66 definizioni ; a Brescia 170 ricorsi di cui decisi 129; a Roma 3333 di cui pendenti 2028.

Questi dati dicono in modo estremamente chiaro che vi sono corti d’appello che a seguito della legge Pinto hanno visto un notevolissimo aumento del carico di lavoro, tanto più gravoso quanto più è ridotto l’organico dell’ufficio giudiziario (si pensi a Perugia) e per queste Corti d’Appello è indubbia la necessità di misure ulteriori rispetto al filtro conciliativo, soprattutto misure strutturali e organizzative, senza le quali il nostro Paese rischia di tornare in seconda battuta davanti alla Corte di Strasburgo e le conseguenze, non tanto economiche quanto di immagine e di posizione dell’Italia all’interno del Consiglio d’Europa, potrebbero essere questa volta estremamente dannose, fino ad un concreto rischio di esclusione dalla Convenzione.

 

Le modifiche alla legge n. 374 del 1991

Il Capo II del D.L. in esame (capo rubricato “Misure urgenti per la nomina dei giudici di pace e per il supporto dell’attività di governo della magistratura”) comprende due norme, la prima delle quali (art. 4) provvede, modificando l’art. 4 della l. n. 374/1991, alla regolamentazione della procedura da seguire per le nuove nomine dei giudici di pace, in vista della scadenza del quadriennio per quelli attualmente in servizio (13/01/2003 per quelli nominati il 13/01/1999, 15/03/2004 per quelli confermati il 15/03/2000), prevedendo dei bandi di concorso per distretto di corte d’appello e la limitazione del numero di domande che ogni aspirante può presentare.

Tale intervento appare in piena sintonia con l’orientamento di questo Consiglio, che nella circolare 30.7.2002 – intitolata “Nuove modalità di nomina e conferma dei giudici di pace a seguito delle modifiche alla legge istitutiva introdotte dalla legge 24 novembre 1999, n. 468” – aveva previsto al capo I, par.1 (Modalità di pubblicità del bando) che “Il presidente della corte d’appello, al fine di assicurare la più ampia pubblicità alle vacanze negli uffici del giudice di pace del distretto, provvede alla loro pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica e sul sito web della rete internet del Ministro della Giustizia. Da tale pubblicazione decorre il termine di sessanta giorni per la presentazione delle domande di ammissione al tirocinio, nelle quali dovranno essere indicati i requisiti posseduti e dovrà essere dichiarata la insussistenza delle cause di incompatibilità previste dalla legge”, e al capo II, par. 1 che “ciascun candidato può presentare non più di tre domande per anno solare relative a distretti diversi” e che “in ciascuna domanda … afferente al singolo distretto, il candidato può indicare un numero di sedi non superiore a sei, ma non può esprimere un ordine di preferenza”.

La norma, la cui valutazione è dunque pienamente positiva, consentirà di evitare le notevoli disfunzioni cui aveva dato luogo il bando di concorso DM 3/12/1998 per 4424 giudici di pace (un numero enorme di domande da valutare, anche grazie all’assenza di un limite di domande presentabile da ciascun aspirante, la complessità della procedura, il numero elevato di rinunce) e renderà più flessibile la procedura di selezione adattandola alla diversificazione delle scadenze dei giudici di pace e consentendo una migliore e più funzionale organizzazione del tirocinio.

 

Le modifiche al D.Lgs. n. 37 del 2000

L’art. 5 del Capo II intende realizzare un “supporto all’attività di governo della magistratura” prevedendo la possibilità per il CSM di assumere con contratto a tempo determinato 26 unità di personale da adibire a mansioni di segreteria e assistenza dei Consiglieri, recuperando a funzioni più strettamente amministrative gli attuali nuclei di segreteria, ed attribuendo i relativi poteri al Comitato di Presidenza.

Se è certamente utile la previsione di un aumento delle unità di personale, perplessità suscita la modifica degli artt. 3, 1° co. e 5, 4° co. della l. n. 37/2000 con la quale è stato individuato l’organo competente a stipulare contratti di collaborazione continuativa e a disporre il passaggio diretto di dipendenti di pubbliche amministrazioni per la copertura di posti apicali mentre sarebbe preferibile il mantenimento della competenza del Consiglio nel rispetto delle sue prerogative.

 

Sulle “Modifiche all’art 67 del regio decreto 30.1.1941 n 12 recante ordinamento giudiziario”.

1.  L’art 7, aggiungendo un comma all’art. 67 dell’ord. giud., dispone che la presidenza dei collegi delle sezioni semplici è assunta da un presidente della sezione, ovvero, in sua assenza, dal magistrato della stessa sezione con maggiore anzianità nell’esercizio delle funzioni di legittimità.

Il criterio generale dettato dalla nuova norma è meramente ricognitivo di una realtà normativa già esistente, pacifico essendo che la presidenza dei collegi giudicanti è una delle funzioni specifiche dei presidenti di sezione. La norma prevede inoltre un criterio speciale per il caso di assenza di presidenti di sezione e pertanto, poiché l’assenza è nozione da ritenere compresa in quelle di mancanza o impedimento, che costituiscono il presupposto dell’istituto della supplenza, la norma non può che intendersi come diretta a dettare un criterio automatico di individuazione del supplente, in deroga al criterio (altrettanto automatico) previsto in via generale dagli articoli.104, secondo comma e 108, secondo comma, ord. giud.. Ne consegue che la norma avrebbe potuto essere più correttamente collocata accanto alle altre che disciplinano la supplenza ovvero essere formulata come norma autonoma nell’ambito della disciplina ordinamentale della corte di cassazione, in quanto l’art. 67 ha ad oggetto il diverso problema della determinazione del numero dei votanti. La nuova norma è ispirata all’esigenza, del tutto condivisibile, di evitare che i delicati compiti di presidenza del collegio (sia pure per il solo caso di necessità di supplire il presidente di sezione “assente”) della corte di cassazione siano affidati in applicazione del mero criterio dell’anzianità di ruolo a magistrato privo di adeguata esperienza delle peculiarità del giudizio di legittimità e della necessaria approfondita conoscenza, per così dire dall’interno, della giurisprudenza della Corte.

2. Pur nella sua limitata portata, l’intervento normativo desta qualche perplessità, perché, per l’individuazione del supplente del presidente di sezione, finisce per sostituire il rigido criterio dell’anzianità di ruolo con un altrettanto rigido criterio di anzianità nell’esercizio delle funzioni di legittimità. In applicazione del nuovo criterio, infatti, un rilevante divario di anzianità di ruolo può essere messo nel nulla da una lieve differenza di anzianità di esercizio delle funzioni di legittimità, il che, una volta garantita una adeguata esperienza di legittimità, porterebbe a pretermettere del tutto, in contrasto con ogni esigenza di buona amministrazione, il dato di comune esperienza secondo cui a maggiore anzianità di servizio, a parità di ogni altra condizione, normalmente corrisponde maggiore professionalità e cioè maggiore conoscenza delle problematiche interpretative e applicative, maggiore equilibrio e maggiore autorevolezza nella direzione della discussione in camera di consiglio. .

La giusta esigenza di assicurare che la presidenza del collegio sia attribuita a magistrato dotato di sufficiente esperienza del giudizio di legittimità, può invece essere soddisfatta da una disposizione che richieda per poter presiedere il collegio l’effettivo esercizio di funzioni di legittimità per un periodo minimo. Soddisfatto tale requisito, dovrebbe riprendere vigore il criterio della maggiore anzianità di ruolo.

3. Residuano, inoltre, alcune incertezze interpretative, che sarebbe opportuno venissero diradate in sede di conversione.

 La norma dispone che la presidenza del collegio, in caso di assenza di un presidente di sezione, sia assunta dal “magistrato” della stessa sezione con maggiore anzianità di esercizio di funzioni di legittimità. Poiché alle sezioni della corte di cassazione sono assegnati presidenti di sezione e consiglieri, “i magistrati della sezione” altro non sono che i consiglieri della sezione stessa, mentre i magistrati d’appello destinati all’ufficio del massimario sono solo autorizzati ad esercitare le funzioni di consigliere. Il termine “magistrato” potrebbe fare ritenere il contrario e cioè che la presidenza del collegio possa essere assunta anche dal magistrato d’appello autorizzato ad assumere le funzioni di consigliere, ma la conclusione sarebbe certamente del tutto illogica e contraria a ogni principio di buona amministrazione, non essendo ammissibile che la presidenza di un collegio sia affidata a chi non ne faccia parte pleno jure, ma sia solo autorizzato a svolgere le funzioni collegiali.

Nessun dubbio invece dovrebbe sorgere in ordine al requisito dell’esercizio delle funzioni di legittimità, che comprende non solo l’esercizio di funzioni giudicanti, ma anche quello di funzioni requirenti. A tal fine sembra decisivo il richiamo all’art. 23, 2° comma della legge n. 195 del 1958, come modificato con l’art. 5 della legge n. 44 del 2002, che espressamente definisce “funzioni di legittimità” quelle svolte presso la corte e presso la procura generale.

Quanto, infine, al requisito dell’anzianità nell’esercizio di funzioni di legittimità si pongono due problemi. Se nel calcolo debba tenersi conto del periodo di esercizio di tali funzioni, anche se interrotto dall’esercizio di funzioni giurisdizionali diverse o da periodi di collocamento in aspettativa o fuori del ruolo organico, sommando quindi i periodi anteriori con quelli successivi a tale interruzione e se debba tenersi conto delle funzioni di legittimità svolte come magistrato d’appello destinato alla corte o alla procura generale, autorizzato a svolgere funzioni di consigliere o di sostituto procuratore generale.

Quanto al primo punto non v’è alcuna ragione di richiedere che il periodo minimo di esercizio di funzioni di legittimità debba essere non interrotto, perché l’interruzione non sembra idonea a disperdere il patrimonio di esperienza e di professionalità acquisita anteriormente, a meno che tale interruzione non sia estremamente protratta nel tempo.

Sul rilievo delle funzioni di legittimità svolte come magistrato d’appello destinato alla corte o alla procura generale, deve osservarsi che il carattere discontinuo e limitato (nella prassi a due udienze mensili, per quanto riguarda i magistrati d’appello destinati alla corte) di tale esercizio non consente di equipararlo all’esercizio continuo come consigliere e sostituto procuratore generale. In mancanza di indicazioni legislative che consentano di quantificare in modo diverso la valenza dei periodi di esercizio discontinuo rispetto a quelli di esercizio continuo, l’esigenza di tenere conto dell’esperienza acquisita come destinato al massimario o alla procura generale, che pure, in linea di principio, potrebbe avere qualche rilevanza, deve cedere di fronte all’impossibilità di trattare in modo identico situazioni diverse."

 


 

Abolizione dei Tribunali regionali e del Tribunale superiore delle acque pubbliche.

 

                                   

 

"1.  Il Ministro della giustizia ha chiesto, ai sensi dell’art. 10 secondo comma della 24 marzo 1958, n. 195, un parere sul disegno di legge governativo recante “Abolizione dei tribunali regionali e del tribunale superiore delle acque pubbliche”.

Il sistema del contenzioso delle acque pubbliche, come è noto, venne introdotto con il r.d.l. 9 ottobre 1919, n. 2161 (poi recepito nel testo unico n. 1775 del 1933; ma si veda anche l’art. 64 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12) che, in sostituzione dell’unico tribunale delle acque (composto da un presidente di sezione della corte di cassazione, che lo presiedeva, due consiglieri di stato, due consiglieri d’appello e due membri effettivi del consiglio superiore dei lavori pubblici, con sede in Roma e competenza, in materia sia di diritti che di interessi, su tutto il territorio nazionale) previsto dal d.l.lgt 20 novembre 1916, n. 1664 (peraltro non convertito), istituì otto tribunali regionali delle acque pubbliche (in seguito t.r.a.p.) presso le corti d’appello di Torino, Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e Cagliari, con giurisdizione sulle controversie in materia di diritti soggettivi (ora elencate nell’art. 138 del t.u. del 1933), e un tribunale superiore della acque pubbliche (in seguito t.s.a.p.), con sede in Roma, come giudice di appello contro le sentenze dei t.r.a.p. e come giudice in unico grado sulle controversie in materia di interessi legittimi (indicate nell’art. 143 del t.u.).

 I t.r.a.p. sono costituiti da una sezione della corte d’appello alla quale sono aggregati tre funzionari dell’ex Genio civile e giudicano con l’intervento di tre votanti, di cui uno è il membro tecnico; l’ufficio di cancelleria è lo stesso della sezione della corte d’appello presso la quale il t.r.a.p. è costituito.

Il t.s.a.p., che ha sede in Roma nel palazzo di giustizia dove siede la corte di cassazione, è composto da un presidente, che, ai sensi del d.l.c.p.s. 1° ottobre 1947, n. 1696, ha il “grado secondo, corrispondente a quello di procuratore generale della corte di cassazione” e che svolge esclusivamente la funzione per la quale è nominato. E’ composto da quattro consiglieri di stato, quattro consiglieri della corte di cassazione e tre tecnici, membri effettivi del Consiglio superiore dei lavori pubblici, non aventi funzioni di amministrazione attiva. Ha un autonomo ufficio di cancelleria, la cui pianta organica, attualmente, prevede trentatré unità. Come giudice d’appello il t.s.a.p. giudica con cinque votanti (tre magistrati di legittimità, compreso il presidente, un consigliere di stato e un tecnico), mentre in unico grado giudica con sette votanti (tre magistrati di legittimità, tre consiglieri di stato e un membro tecnico). Il legame del t.s.a.p. con la corte di cassazione è evidenziato non solo dall’unicità della sede, ma anche dal fatto che l’ammissione al gratuito patrocinio è deliberata dalla commissione presso la corte (art. 208 del t.u.) e che per necessità di servizio il primo presidente può applicare temporaneamente all’ufficio di cancelleria del t.a.s.p. personale addetto ad altre autorità giudiziarie di Roma (art. 139, ult. comma t.u. del 1933).

Secondo la giurisprudenza e la dottrina assolutamente prevalente i tribunali regionali hanno natura di sezioni specializzate della magistratura ordinaria (in tal senso è decisivo il richiamo dell’art. 64 ord. giud.), mentre il tribunale superiore ha natura di giudice ordinario, quando giudica come giudice d'appello, e di giudice speciale quando giudica in unico grado.

 

2. Nella relazione che accompagna il disegno di legge l’intervento legislativo è motivato con le seguenti considerazioni:

-          il sistema del contenzioso in materia di acque pubbliche si comprende e si giustifica solo in un contesto storico superato, come è dimostrato dalla circostanza che ha formato oggetto di tentativi di revisione e di adeguamento (elaborati dalla commissione ministeriale presieduta dal Pres. Ferrati, nominata nel 1966 e che ha terminato i lavori nel 1973, e da quella presieduta dal pres. Palazzolo, nominata nel 1989 e che ha terminato i lavori nel 1990);

-          la revisione dei tale sistema è imposta dalla sesta disposizione finale e transitoria della Costituzione;

-          il rito applicato davanti ai tribunali regionali e al tribunale superiore è obsoleto, basandosi sul c.p.c. del 1865; inoltre le sentenze emesse dal tribunale superiore della acque pubbliche (in seguito t.s.a.p.) sono pronunciate da un giudice amministrativo in unico grado e soggette a ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 cost.;

-          il carico di lavoro del t.s.a.p. è esiguo, come emerge dai dati delle cause sopravvenute che negli ultimi cinque anni sono state, rispettivamente, 169, 193, 191, 198, 207, e, pertanto il funzionamento del sistema è molto dispendioso;

-          la Corte costituzionale, con sentenza 3 luglio 2002, n. 305 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 139 e 143, 3° comma, del r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, recante il testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici, nella parte in cui non prevede meccanismi di sostituzione del componente del t.s.a.p. astenuto, ricusato o legittimamente impedito e con sentenza 17 luglio 2002 n. 353 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 138 dello stesso testo unico, nella parte in cui prevede che siano aggregati al tribunale regionale delle acque pubbliche (in seguito t.r.a.p.) tre funzionari dell’ex Genio civile, uno dei quali deve intervenire nel collegio giudicante;

-          possibilità di istituire un altro posto di presidente aggiunto della Corte di cassazione, a seguito della soppressione del posto di presidente del t..s.a.p., con conseguente razionalizzazione della distribuzione di competenze tra i presidenti aggiunti, uno per il ramo civile e l’altro quello penale.

L’intervento legislativo consiste nella soppressione del sistema speciale del contenzioso delle acque pubbliche, con deferimento delle controversie di cui all’art. 140 del t.u. del 1933, aventi ad oggetto situazioni giuridiche di diritto soggettivo, già attribuite alla giurisdizione del t.r.a.p., al tribunale ordinario, in composizione collegiale, del capoluogo di distretto territorialmente competente, e di quelle di cui all’art. 143 dello stesso t.u., aventi ad oggetto situazioni di interesse legittimo e già attribuite alla giurisdizione in unico grado del t.s.a.p., al giudice amministrativo. Conseguentemente, per tutte le controversie in materia di acque pubbliche è previsto un doppio grado di giurisdizione (tribunale – corte d’appello; t.a.r.- consiglio di stato) e la ricorribilità per cassazione, ex art. 360 c.p.c. per le controversie su diritti e ai sensi dell’art. 362 c.p.c. per le controversie su interessi.

E’ prevista la soppressione del posto di presidente del t.s.a.p. e l’aumento di un altro posto di presidente aggiunto della corte di cassazione. Per il personale amministrativo della pianta organica del t.s.a.p. è prevista l’aggregazione all’organico della corte di cassazione.

E’ infine prevista una disciplina transitoria per il graduale passaggio alla nuova disciplina [1].

 

 3. Le considerazioni esposte nella relazione a giustificazione dell’intervento legislativo sono in larga parte condivisibili, mentre perplessità suscitano alcune soluzioni proposte.

Innanzi tutto, è certamente necessario e urgente intervenire per colmare le lacune normative create dalle due citate pronunce di illegittimità costituzionale. Infatti, a seguito della sentenza n. 353/2002 i t.r.a.p. non sono più in grado di funzionare, non potendosi più utilizzare i membri tecnici nominati sulla base della norma dichiarata costituzionalmente illegittima e non essendovi altra norma che consenta di nominare i nuovi componenti. Per effetto della sentenza n. 305/2002, inoltre, non possono essere svolti davanti al t.s.a.p. i giudizi di rinvio, per la mancanza di un numero di supplenti che possa sostituire il collegio che ha pronunciato la sentenza cassata.

Più articolato deve essere invece il discorso sull’economicità della struttura del contenzioso delle acque, in relazione alla scarsa entità delle cause che annualmente sopravvengono. In mancanza di dati sulle sopravvenienze e sulle definizioni presso i t.r.a.p., sono comunque sufficienti per effettuare una valutazione di economicità e funzionalità i dati relativi al t.s.a.p. che si riportano in nota [2]. E’ incontestabile che il carico di lavoro non giustifica la previsione nella pianta organica della magistratura ordinaria di un posto di presidente a tempo pieno e di un autonomo organico di cancelleria del t.s.a.p., ma ad analoghe conclusioni non può pervenirsi per quanto riguarda i componenti del t.s.a.p. e dei t.r.a.p. che non sono impiegati in via esclusiva, continuando a svolgere le ordinarie funzioni alle quali sono addetti. Come già rilevato anche il personale amministrativo dei t.r.a.p. svolge le ordinarie funzioni di cancelleria della sezione di corte d’appello. Né può trascurarsi che alla base dell’istituzione del sistema del contenzioso delle acque non ci fu una valutazione di tipo quantitavo, perché la creazione di un giudice specializzato per le controversie in materia di acque pubbliche venne giustificata non per il numero di tali controversie, ma per la considerazione della specialità della materia, caratterizzata da un contenzioso spesso di grande rilevanza economica e di estrema delicatezza per l’intreccio di questioni tecniche e di questioni giuridiche.

E’ del pari indubbio che la disciplina processuale dei giudizi davanti agli organi del contenzioso delle acque pubbliche non può ritenersi del tutto soddisfacente, anche se non è esatta l’affermazione contenuta nella relazione al disegno di legge, secondo cui nella materia di cui si tratta verrebbe applicato il c.p.c. del 1865, perché, secondo la giurisprudenza e la dottrina largamente prevalenti [3] il rinvio operato dall’art. 202 del t.u. n. 1775 del 1933 al codice di procedura civile non deve intendersi come rinvio recettizio al c.p.c. del 1865, ma come rinvio formale al sistema processuale vigente. Lasciano indubbiamente insoddisfatti non solo l’esclusione del doppio grado di giurisdizione nelle materie di cui all’art. 143 del t.u. acque pubbliche o l’incoerenza sistematica derivante dalla ricorribilità per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. avverso le sentenze del t.s.a.p., pronunciate nelle indicate materie (a fronte del ricorso per soli motivi di giurisdizione nei confronti delle decisioni del Consiglio di Stato), ma anche altri profili problematici, quale, per esempio, la disciplina della decorrenza del termine per impugnare le sentenze del t.r.a.p. e del t.s.a.p. dalla notifica del dispositivo ai sensi degli articoli 183 e 202 del t.u. e, in genere, alcune vistose differenze di disciplina (in tema di termini per la comparizione, di organi della notificazione, di poteri d’impulso) rispetto ai giudizi ordinari, giustificate da un’esigenza di celerità che non è del tutto coerente con la notoria complessità e, quindi, con la durata, dei giudizi in materia di acque e che, pertanto, potrebbero ritenersi ingiustificate rispetto alla compressione delle esigenze difensive che da tali differenze derivano..

 Non è invece condivisibile l’affermazione della relazione al disegno di legge secondo la quale la revisione della disciplina del contenzioso delle acque sarebbe imposta dalla sesta disposizione transitoria della costituzione. La migliore dottrina [4], infatti, ha osservato che, poiché il t.s.a.p. in sede di giurisdizione amministrativa (per il quale soltanto si può porre il problema) si trova funzionalmente nella stessa posizione del consiglio di stato, lo stesso deve ricomprendersi tra gli organi di giustizia amministrativa mantenuti in vita dall’art. 103 Cost. e quindi sottratti alla revisione prevista dalla citata disposizione transitoria.

4. Le esigenze di economicità e funzionalità indicate nella relazione al disegno di legge, come già rilevato, del tutto condivisibili, non impongono tuttavia la completa eliminazione del sistema del contenzioso delle acque pubbliche, ben potendo tali esigenze essere soddisfatte procedendo più semplicemente a interventi riformatori parziali, lasciando a una più approfondita meditazione la rivisitazione dell’interso sistema. E’ stata infatti da molte parti sottolineato che, seppure risalente nel tempo e certamente bisogna di alcuni interventi di adeguamento, la disciplina delle acque pubbliche, sia nella parte sostanziale che in quella relativa al contenzioso, anche grazie alla apprezzata giurisprudenza prodotta dai tribunali delle acque, ha raggiunto risultati positivi e apprezzati anche in ambito internazionale, costituendo un esempio di soddisfacente tutela dell’interesse pubblico sotteso al regime delle acque pubbliche. In particolare non è assolutamente superata e anzi è di grande attualità un modello di giurisdizione specializzata nella quale la presenza del componente tecnico, se non elimina il ricorso alle consulenze tecniche, opportuno anche per evidenti esigenze di tutela del contraddittorio nello svolgimento degli accertamenti, indubbiamente rende più sollecita e più consapevole la decisione in materie nelle quali, come si è già osservato, è costante l’intreccio tra profili tecnici e profili giuridici.

Infine, l’intervento legislativo, nell’ abrogare il vigente sistema del contenzioso sulle acque ripropone un sistema di riparto della giurisdizione sulla base della natura delle situazioni giuridiche soggettive dedotte che, nell’evoluzione normativa, appare recessivo rispetto al riparto per materie (sul quale è fondata la disciplina del contenzioso delle acque), anche per le note difficoltà applicative che si incontrano nell’individuazione in concreto della natura di tali situazioni, difficoltà che alimentano il contenzioso sulla giurisdizione che incide pesantemente sulla durata dei giudizi.

A questo atteggiamento di prudenza che il Consiglio ritiene opportuno seguire, spinge proprio la valutazione dei risultati delle due commissioni di studio istituite nel 1966 (commissione Ferrati) e nel 1989 (commissione Palazzolo), citate nella relazione al disegno di legge.

La commissione Ferrati, che ha presentato due diverse relazioni finali (e quindi distinti articolati), nel 1972 sul contenzioso e nel 1974 sulla disciplina sostanziale delle acque, pur prendendo le mosse dall’ esigenza di adeguamento della disciplina del contenzioso e di snellimento e a aggiornamento delle norme processuali, si è mossa con un’impostazione, per così dire, conservativa, avendo ritenuta “comprovata la persistente attualità dell’esigenza che la cognizione di ogni controversia nella particolare materia sia affidata ad un giudice specializzato, con la partecipazione ai collegi giudicanti di tecnici qualificati ed in secondo luogo . . . (dell’) opportunità della riunione in un unico organo giurisdizionale, pur con differente articolazione dei suoi componenti, della duplice funzione di giudice ordinario e di giudice amministrativo.” (relazione sul contenzioso pag. 4). E anche nella relazione finale del 1974 (pag. 1) la commissione ha ritenuto importante ribadire che “la disciplina giuridica stabilita nel testo unico del 1933 fornisce uno strumento legislativo di già comprovata esperienza tanto nella prassi amministrativa quanto nell’interpretazione giurisprudenziale di circa mezzo secolo” con la conseguenza che “parso opportuno procedere alla riforma mantenendo quella intelaiatura che in buona sostanza ha retto all’ esperienza e si è dimostrata idonea allo scopo per il quale era stata allestita.”

In estrema sintesi, la commissione proponeva un sistema di giurisdizione, che costituiva la replica, a livello di giudice di primo grado, del modello del t.s.a.p. nel senso che diciotto tribunali regionali, presso altrettante corti d’appello (composti dal presidente della corte, da un presidente di sezione, da due consiglieri d’appello, da tre magistrati del t.a.r. e da due funzionari tecnici dell’amministrazione dei lavori pubblici) avrebbero dovuto operare come sezione specializzata della corte d’appello sulle controversie su diritti soggettivi e come giudice amministrativo per le controversie su interessi legittimi; nel primo caso il collegio sarebbe stato composto da due giudici ordinari e un membro tecnico, nel secondo da due giudici ordinari, due magistrati del t.a.r. e un membro tecnico. L’appello avrebbe dovuto proporsi al t.s.a.p., con sede in Roma e con un proprio ufficio di cancelleria, composto da un presidente effettivo e un presidente supplente (da scegliere tra i presidenti di sezione della corte di cassazione), quattro consiglieri di cassazione, quattro consiglieri di Stato e tre tecnici, membri effettivi del consiglio superiore dei lavori pubblici. Il collegio competente a giudicare sugli appelli avverso le sentenze dei t.r.a.p., come giudice ordinario, sarebbe stato composto da tre magistrati ordinari, un consigliere di stato e un tecnico, quello competente sugli appelli avverso le sentenze del t.r.a.p., come giudice amministrativo, avrebbe dovuto essere composto da tre magistrati ordinari, tre consiglieri di Stato e un tecnico. Il ricorso per cassazione contro le sentenze del giudice ordinario avrebbe dovuto ammettersi ai sensi dell’ad. 360 c.p.c., quello contro le sentenze del giudice amministrativo, ai sensi dell’ad. 362.

Anche la commissione Palazzolo si è mossa in un’ottica di conservazione della struttura di un sistema del contenzioso delle acque speciale, separando i problemi della disciplina del contenzioso, da quella del diritto sostanziale. La scelta della commissione è stata quella di imboccare la strada del perseguimento del massimo di unità della giurisdizione possibile, preservando il carattere specialistico dell’intervento giudiziario in materia di acque. A tal fine anzi si è proposto di ampliare la sfera della giurisdizione comprendendo anche le controversie sul risarcimento dei danni da lesione dell’ambiente idrico.

Il progetto prevedeva la creazione di un t.r.a.p. presso ogni corte d’appello, composto dal presidente della corte o da un presidente di sezione, quattro consiglieri d’appello, due giudici del t.a.r., due laureati in ingegneria, nominati su proposta dei consigli giudiziari, sentite le facoltà universitarie di ingegneria e gli ordini professionali. Il t.r.a.p. avrebbe deciso con cinque votanti (tre magistrati ordinari, un magistrato amministrativo e un tecnico) sia in materia di diritti che di interessi legittimi. L’appello avverso le sentenze dei t.r.a.p. si sarebbe dovuto proporre davanti al t.s.a.p., avente sede presso la corte di cassazione, composto da un presidente, con funzioni identiche a quelle di un presidente aggiunto della corte, un presidente supplente, otto consiglieri della corte di cassazione, sei consiglieri di Stato, tre professori universitari, di prima o seconda fascia, in materia di ingegneria idraulica. Il collegio sarebbe stato composto da cinque giudici ordinari, tre consiglieri di Stato e un professore universitario. Il presidente avrebbe potuto essere collocato fuori del ruolo della code di cassazione a sua richiesta.

5. Tirando le fila del discorso il Consiglio ritiene che sia necessario e urgente colmare le lacune createsi a seguito degli interventi della Corte costituzionale sulla composizione del tribunali delle acque. E’ del pari urgente, in considerazione delle gravi e crescenti difficoltà operative della corte di cassazione, l’intervento teso a eliminare la disfunzionalità rappresentata dalla previsione di un presidente del t.s.a.p. a tempo pieno e di un autonomo (e pletorico) ufficio di cancelleria per un organo che ha un carico di lavoro che non giustifica tali soluzioni ordinamentali. L’eliminazione del posto di pianta organica di presidente del t.s.a.p., consentirebbe di prevedere un altro posto di presidente aggiunto, al quale potrebbero essere affidate le funzioni di presidente del t.s.a.p, mentre il riassorbimento di un cospicuo organico di personale amministrativo allevierebbe la cronica carenza di tali figure professionali. Alle esigenze di funzionamento del t.s.a.p. potrebbe provvedersi con la destinazione di personale ammnistrativo della corte, in misura adeguata alle effettive esigenze.

Per quanto riguarda i componenti supplenti del t.s.a.p. è già stato presentato alla Camera dei deputati un progetto di legge da parte dell’on. Pecorella (Atto Camera n. 2786) che propone di nominare un numero pari ai componenti titolari. Su tale proposta può convenirsi.

 Per quanto invece attiene ai componenti tecnici dei t.r.a.p., la soluzione più semplice appare quella proposta dalla commissione Palazzolo sopra illustrata (nomina di laureati in ingegneria su proposta dei consigli giudiziari sentiti gli ordini professionali e le facoltà universitarie).

Un più generale riassetto del sistema del contenzioso e delle norme procedurali potrebbe essere oggetto di separate valutazioni sulle quali dovrebbero influire la considerazione che la giurisdizione specializzata sulle acque ha costituito un’esperienza largamente positiva, apprezzata anche in sede internazionale, avendo offerto adeguata tutela agli interessi pubblici coinvolti nella disciplina delle acque, che costituiscono ancora, e anzi sempre di più, una risorsa essenziale per la vita civile e una componente fondamentale dell’ecosistema."

 

 

                                                                      



[1] Il comma quattro dell’art. 4 del disegno di legge, senza che dalla relazione emerga alcuna speciale giustificazione, prevede che avverso le sentenze del t.s.a.p. è ammesso ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., mentre secondo l’orientamento giurisprudenziale pacificamente seguito attualmente è ammesso solo ricorso ai sensi dell’art. 111 Cost.

[2] I ricorsi iscritti dal 1992 ad oggi sono, rispettivamente, 149, 157, 184, 185, 191, 169, 196, 198, 199, 209 e, fino al 15 settembre u.s., 119. Negli stessi anni le sentenze pubblicate sono state: 128, 124, 72, 105, 93, 101, 123, 135, 144, 129, 115. Attualemnte pendono davanti al t.s.a.p. 552 ricorsi.

[3] Cass. n. 15140/2001, 6093/1982, 5693/1981; CONTE, Tribunali delle acque, voce dell’Enc. del dir., XLV, 58; VACIRCA, Tribunali delle acque pubbliche, voce dell’Enc. giur. Treccani, 8; PRATIS C.M., Tribunale regionale delle acque pubbliche, voce del Nuov.mo Dig. It., Torino 1973, 714; SGROI V., Sistema processuale in materia di acque pubbliche e rinvio alle norme del codice di procedura civile, Giust. civ. 1973, I, 562

[4] PRATIS C.M., Tribunale superiore delle acque pubbliche, voce del Nuov.mo Dig. it., XIX, 722.