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UN C.S.M. “NUOVO” A TUTELA DELLA AUTONOMIA

ED INDIPENDENZA DELLA MAGISTRATURA

di Giovanni Mammone

I componenti togati del nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, il 30 giugno ed il 1° luglio, saranno eletti con un sistema elettorale con molte novità. Non solo si ritorna al sistema elettorale maggioritario (dopo che ben sei Consigli erano stati eletti con il proporzionale), ma, per la prima volta, si abbandona la tradizionale distinzione dell’elettorato passivo tra i candidati della giurisdizione di merito e quelli della legittimità e si distinguono i magistrati di merito da eleggere in due collegi, riservati uno ai magistrati giudicanti ed un altro ai magistrati del pubblico ministero.

            Nel presentare la mia candidatura all’elezione dei dieci componenti del collegio dei magistrati giudicanti di merito, intendo soffermarmi sulla “riforma” dell’organo di autogoverno che da tale nuovo sistema e dalla contemporanea riduzione del numero dei suoi componenti elettivi, da trenta a ventiquattro, è implicitamente derivata.

Che si tratti di una vera e propria riforma appare indiscutibile, in quanto è evidente il tentativo del legislatore di incidere sulle modalità di formazione del consenso nell’ambito del Consiglio: i singoli componenti, nelle intenzioni, non dovrebbero trovare la loro naturale aggregazione nell’ambito del Gruppo che ha presentato la lista in cui sono stati eletti, ma dovrebbero essere svincolati dalla logica del collegamento associativo, in quanto la presentazione e la votazione di candidature individuali privilegia la persona del candidato invece che la sua provenienza associativa. La dimensione nazionale dei collegi, inoltre, scioglie i candidati dal limitato ambito territoriale costituito dal distretto di appartenenza e da quelli ad esso collegati e, costringendoli a ricercare consensi ulteriori al di fuori di essi, impone loro una visione dei singoli problemi meno legata alle esigenze di singole aree territoriali.

La riduzione del numero dei componenti segnala, inoltre, la volontà del legislatore di provocare una maggiore concentrazione dei lavori consiliari e, allo stesso tempo, una semplificazione nelle procedure.

Non so dire se il Consiglio che uscirà dalle elezioni del giugno-luglio 2002 subirà conseguenze sul piano dell’aggregazione culturale dei suoi componenti, in quanto appare prematura formulare giudizi sulla reale capacità innovativa del nuovo sistema elettorale. Certamente, però, esso si troverà di fronte a problemi tecnici di adeguamento della sua struttura e del suo sistema di lavoro, che esso dovrà affrontare e risolvere in buona parte in base al proprio potere di autoregolamentazione. Qualunque sarà la soluzione adottata, la nuova impostazione tecnico-organizzativa che il Consiglio vorrà darsi dovrà essere tale da non condizionare o far venire meno la sua capacità di svolgere l’insostituibile funzione di tutela delle prerogative della magistratura e di sostegno della sua autonomia ed indipendenza. In altre parole come non dovrà esserne condizionata l’efficienza della gestione ordinaria, né, tantomeno, la capacità di intervenire a sostegno dell’indipendenza della giurisdizione.

Il Consiglio attua il principio costituzionale dell’autogoverno sia quando amministra lo status giuridico del magistrato o regola la c.d. amministrazione della giurisdizione, sia quando svolge la sua funzione di garantire l’indipendente esercizio della giurisdizione e la sua legittimazione, assumendo – ove necessario – la difesa del prestigio e della credibilità dei singoli magistrati. Quello di autogoverno è un concetto unitario e, pertanto, nessuna di queste funzioni è separabile dalle altre, e neppure è possibile privilegiarne (o comprimerne) qualcuna a sfavore (o a favore) di altre. Quindi, la mancanza di efficienza della gestione ordinaria di una sola delle funzioni consiliari (si pensi a tutti i provvedimenti in materia di stato giuridico dei magistrati, quali, ad esempio, i provvedimenti che riguardano la progressione in carriera) già di per sé comporterebbe un depauperamento della funzione complessiva dell’organo di autogoverno.

E’ questo, a mio avviso, il pericolo strisciante da cui il futuro Consiglio dovrà guardarsi, e cioè che possa formarsi la convinzione che, di fronte ad esigenze oggettive di organizzazione, possano privilegiarsi dei compiti a scapito di altri; verrebbe ad esserne menomata la funzione stessa di autogoverno e, di conseguenza, la stessa proiezione pratica dell’autonomia e dell’indipendenza.

Ma esistono, all’interno della magistratura, le condizioni perché la funzione di autogoverno, seppure in maniera indiretta, possa in qualche modo affievolirsi? A giudicare dal dibattito creatosi proprio sulla riforma del C.S.M. e sul coevo disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, ove l’appunto maggiore che si rivolge al progetto governativo è proprio quello di adottare delle soluzioni (in materia di accesso alla Corte di cassazione, di formazione dei magistrati e di progressione in carriera) che impoveriscono la funzione del Consiglio a tutto vantaggio di quella del Ministro e della Corte di cassazione, la risposta deve essere negativa. L’autonomia e l’indipendenza vengono vissute dai magistrati non come prerogative teoriche, ma quali valori di garanzia dell’esercizio della giurisdizione; con la consapevolezza che essi, se sul piano individuale debbono essere vissuti dai singoli nell’osservanza dei canoni deontologici e secondo fondamentali regole di coerenza professionale, nei confronti della collettività debbono trovare un soggetto istituzionale pronto a riaffermarli ed a sostenerli.

Ecco perché ritengo che il Consiglio Superiore, nuovo per composizione e per assetto, dovrà certo adeguarsi sul piano organizzativo ed operativo alla sua nuova dimensione numerica, ma non potrà cadere in nessuna forma di ridimensionamento istituzionale che renda meno incisivo l’adempimento dei suoi compiti.