MAGISTRATURA INDIPENDENTE

 

La crisi tra politica e magistratura

1)      Premessa

2)      Le ragioni fisiologiche di una crisi

3)      Le ragioni contingenti che accentuano la crisi

4)      L’accusa di politicizzazione della magistratura

5)      L’accusa di corporativismo della magistratura

 

Le riforme del processo penale

1)      Errori del passato e necessità di riforme

2)      Le proposte sbagliate

3)      Il pubblico ministero

4)      Il processo penale: riforme “di sistema”

5)      Il processo penale: riforme “non di sistema”

 

La riforma dell’ordinamento giudiziario

1)      La situazione attuale

2)      Separazione delle funzioni e delle carriere

3)      La carriera dei magistrati

4)      La valutazione dei magistrati

5)      La formazione dei magistrati

6)      La retribuzione dei magistrati

 

Il processo civile e le esigenze di riforma

1)      L’efficienza del processo civile

2)      L’istituzione dell’ufficio del giudice

3)      Le prospettive di riforma

4)      Il nuovo diritto processuale societario

5)      La preparazione della causa

6)      La necessità di riduzione del carico processuale e di maggiore rapidità della procedura

7)      Ulteriori interventi di riforma

8)      Il regime delle impugnazioni

 

 

La giustizia minorile e della famiglia

1)      Le riforme proposte

2)      Le riforme necessarie

 

 

 

La crisi tra politica e magistratura

 

1) Premessa  - La “questione giustizia” è purtroppo al centro dell’attenzione da molti, troppi anni, con toni sempre più accesi, con spunti sempre più polemici, con soluzioni adottate o prospettate troppo spesso inadeguate rispetto alle effettive esigenze da perseguire.

  Le ragioni di ciò sono in parte fisiologiche, poiché derivanti direttamente da come la Costituzione ha delineato il rapporto tra il mondo della politica e delle istituzioni da essa orientate da un lato, e il mondo della magistratura dall’altro; ma in parte sono patologiche, causate da una situazione politica contingente che attualmente appare condizionare non solo il dibattito, ma anche le decisioni concrete in termini di mutamenti e riforme riguardanti sotto ogni aspetto l’amministrazione della giustizia.

 

2) Le ragioni fisiologiche di una crisi - Le ragioni fisiologiche cui si è fatto riferimento discendono, come detto, direttamente dalla Costituzione repubblicana, che ha voluto garantire l’effettività della nascente democrazia, all’indomani della caduta di un regime autoritario, con la previsione di un ampio livello di autonomia e indipendenza dei magistrati, che assicurasse  la massima libertà da interferenze esterne a tutti coloro che, sia nelle vesti di giudici che di promotori dell’azione penale, fossero chiamati ad amministrare giustizia, senza l’inserimento di alcuno dei livelli di mediazione tra istituzioni che, in diverse forme (che variano dal controllo sul pubblico ministero, al coinvolgimento di assemblee parlamentari o di rappresentanze del potere esecutivo nella nomina e nello sviluppo della carriera dei giudici), erano e sono tuttora presenti in altri sistemi.

  Ciò ha consentito alla magistratura italiana, con le normali evoluzioni derivanti dal trascorrere del tempo e dal mutare dei costumi, di garantire a tutti i cittadini quantomeno equanimità e imparzialità nelle decisioni, pur attraverso momenti epocali di cambiamenti economici e sociali, di scontri generazionali e di lotte politiche violente; nei tribunali i giudici sono stati chiamati, di volta in volta, a decidere controversie su questioni economiche, sui rapporti tra lavoratori e datori di lavoro, sui diritti di minoranze e delle categorie più deboli, ad affermare la supremazia dello Stato di diritto  rispetto alle pretese di contropoteri di stampo eversivo, e in ognuna di queste occasioni l’autonomia dell’intera categoria e di ogni singolo appartenente ad essa ha contribuito ad ottenere (ovviamente come linea finale di tendenza, indipendentemente dalla giustezza o meno delle decisioni relative alle singole controversie) l’affermazione di principi di diritto del tutto compatibili con un ordinamento democratico.

  La magistratura, pertanto, non ha tradito la fiducia in essa riposta dai padri costituenti.

  Essa, peraltro, per esercitare effettivamente, come effettivamente ha fatto, il ruolo di garanzia affidatole dalla Costituzione ha dovuto pagare un “prezzo”, che è stato l’isolamento rispetto alle altre istituzioni, isolamento che l’ha lasciata sola dinanzi ai propri compiti e alle proprie responsabilità, senza la possibilità di condividerle con nessuno.

  Conseguenza negativa di ciò è stata, ad esempio, ed è la facile consuetudine ad additare all’opinione pubblica i giudici e i pubblici ministeri come responsabili di alcune disfunzioni della giustizia, anche quando con evidenza appaia che altrove debbano ricercarsene le vere cause; è il caso, addirittura clamoroso, dell’attuale stato negativo del processo penale, a giudizio di tutti i più autorevoli studiosi del settore dovuto invece all’introduzione di un nuovo tipo di procedura parzialmente mutuata da esperienze altrui, da noi realizzata in maniera irrazionale e farraginosa.

  Ulteriore, e gravissimo, “prezzo” per la sua indipendenza la magistratura l’ha pagato e lo paga quotidianamente dovendo sopportare accuse gravissime di parzialità e politicizzazione da parte di uomini politici coinvolti direttamente o indirettamente in vicende giudiziarie, accuse che sono divenute sempre più aspre negli ultimi anni come conseguenza indiretta del mutamento del sistema elettorale politico con il passaggio dal c.d. “proporzionale” al “maggioritario”, che ha prodotto, come contraltare della maggiore governabilità del Paese da esso derivante, una molto più accesa conflittualità tra le parti contrapposte.  In questo nuovo assetto istituzionale anche il ruolo della magistratura, isolata come sempre,  è utilizzato dalle parti contrapposte in una logica di lotta senza quartiere, nella quale ogni processo capace anche solo di sfiorare interessi di referenti politici, o comunque politicamente sfruttabili agli occhi dell’opinione pubblica, è diventato occasione di accuse e strumentalizzazioni nei confronti della controparte, che devono necessariamente passare, per raggiungere il bersaglio, attraverso accuse e strumentalizzazioni nei confronti dei magistrati, additati come “armi” utilizzate dagli avversari. 

  Tutto quanto finora ricordato descrive l’odierna situazione nella quale, poichè la magistratura non può condividere con nessuno le proprie responsabilità in quanto autonoma e indipendente, strutturalmente scollegata da tutte le altre istituzioni tranne che per profili del tutto marginali, nessuno avverte remore nel farla apparire responsabile di disfunzioni che non sono ad essa addebitabili, o comunque lo sono solo in minima parte; essa, nel contempo, sempre perché autonoma e indipendente, ha il diritto e insieme il dovere di intervenire in ogni caso in cui ciò sia necessario, senza freni preventivi attivabili da nessuno e anche in settori e contingenze che possano contrastare con interessi politici, e così si espone inevitabilmente ad accuse interessate di parzialità e politicizzazione impropria.

 

3) Le ragioni contingenti che accentuano la crisi - Ma, come si è detto, ad accentuare la situazione di crisi tra politica e magistratura e a trascinarla all’odierno livello di conflitto senza precedenti ha concorso anche un avvenimento assolutamente contingente, che tutto lascia pensare abbia condizionato e stia condizionando negativamente il cammino delle riforme che comunque sono necessarie per migliorare l’attuale livello di efficienza dell’amministrazione della giustizia.

  Non è un mistero per nessuno, e d’altronde è stato più volte pubblicamente dichiarato anche da importanti esponenti della maggioranza politica oggi al governo nel nostro Paese, che gran parte dell’azione riformista sulla giustizia è oggi condizionata dal processo penale che, insieme con altri, vede coinvolto l’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri. Certamente le vicende di quel processo hanno determinato l’introduzione dell’ipotesi di legittimo sospetto fra le cause di remissione ad altra sede del processo, che costituisce, se non l’unica, la principale riforma al processo penale che è stata introdotta dalla legislatura in corso; e non può onestamente mettersi in dubbio che la medesima situazione sia, almeno indirettamente, all’origine di altre riforme per il momento soltanto progettate, anche in materia di ordinamento giudiziario.

  Non interessa certo qui il merito di quella vicenda processuale, alla quale è necessario fare riferimento nel contesto del presente discorso esclusivamente per la sua oggettiva incidenza su di esso, e negli stretti limiti necessari per la comprensione di quanto è accaduto e sta accadendo.

  Mantenendosi entro tali limiti, la prima osservazione da fare è che in realtà è comprensibile che un presidente del consiglio rappresenti o comunque si prefiguri preoccupazioni per i riflessi negativi che, sul funzionamento delle istituzioni e sulla collocazione e l’immagine anche a livello internazionale del Paese, possano derivare dalla sua condizione di imputato. E comprensibile è anche che chi si trovi in una situazione così scomoda, e abbia vinto regolari elezioni politiche nonostante che quella situazione fosse a tutti nota, ritenga che il processo a suo carico, proprio in virtù di quella elezione, non sia più solo un problema giudiziario, ma costituisca anche un problema politico. Alla luce di tutto ciò egualmente ragionevole, e democraticamente accettabile, è che, se si vuole, si affronti questo problema, ormai divenuto politico, con gli strumenti della politica, apertamente e chiaramente. Tali strumenti sono l’autorizzazione a procedere, l’amnistia, la sospensione dei processi fino alla scadenza dei mandati e ogni altra soluzione equivalente, che costituiscono decisioni di valenza prettamente politica in virtù della chiara assunzione di responsabilità che comportano, con tutte le conseguenze discendenti (dalle critiche dell’opposizione al giudizio degli elettori), come contraltare al risultato che oggettivamente sono idonei ad ottenere.

  E’ invece accaduto che si sia pensato di affrontare e risolvere  questo problema politico con altri mezzi, e in particolare,  per la parte che qui interessa, facendo in modo che esso potesse impropriamente influenzare l’attività complessiva di riforma della giustizia, che ovviamente deve essere invece volta a soddisfare diverse e ben più generali esigenze.

  E’ assolutamente necessario, a questo punto, che la contingenza in questione cessi di condizionare più o meno apertamente il dibattito e l’azione politica sulle riforme da realizzare, e che sia finalmente abbandonata una strategia oltretutto vana rispetto ai fini perseguiti, come vano sarebbe ogni ulteriore sforzo improntato allo stesso metodo. Se anche, ad esempio,  si dovessero separare i pubblici ministeri dal resto dell’ordine giudiziario, relegandoli in un ruolo e una carriera dai margini ambigui ed esclusivamente autoreferenziali, e se anche si dovesse infarcire il processo penale di mille altri ostacoli e trabocchetti, lastricandolo di nuove nullità e inutilizzabilità, è facile prevedere che tutto ciò non risolverebbe ancora alcun problema politico, ma avrebbe l’unico effetto di rovinare ulteriormente  il già disastrato sistema giudiziario.

 

4) L’accusa di politicizzazione della magistratura - Al fine di condurre un’analisi della situazione completa e credibile, non è possibile sottrarsi ad una doverosa valutazione anche circa eventuali comportamenti della magistratura che, nel quadro della situazione finora descritta, possano aver contribuito ad accentuare i problemi di relazione con il mondo politico.

  Fra le varie accuse rivolte all’ordine giudiziario, la più ricorrente è quella di politicizzazione, come già ricordato, ed è quindi doveroso riflettere innanzitutto attentamente su tutti i profili ad essa connessi.

  L’accusa di politicizzazione, e quindi di sviamento dall’onesto e normale esercizio delle funzioni giudiziarie per fini e interessi politici di parte, è la più grave che si possa rivolgere a un magistrato individualmente e all’ordine giudiziario nella sua generalità, proprio perché la sua affermazione nega in radice l’essenza stessa della giurisdizione, che è l’imparzialità, ed è idonea a minare la fiducia della collettività circa la capacità dello Stato di tutelare i diritti fondamentali, individuali e collettivi.

   Ma proprio per ciò, per l’estrema gravità che essa sottende, è anche un’accusa che non può essere lanciata a cuor leggero, ma deve essere accuratamente e definitivamente vagliata e dimostrata, prima di porla a base di un conflitto istituzionale; ciò che non è mai accaduto, perché, al di là delle declamazioni, in realtà mai è stata finora dimostrata in nessun caso una volontà di persecuzione politicamente orientata realizzata attraverso una qualsivoglia attività giudiziaria, ed anzi, nella prima occasione in cui sarebbe stato possibile dimostrare qualcosa di infinitamente meno grave quale il semplice legittimo sospetto che ciò potesse accadere in una sede giudiziaria, l’assunto è stato escluso dal più autorevole e insospettabile tra tutti i giudici, ovverosia dalle sezioni unite della Corte di Cassazione con la recente decisione, a tutti nota.

  I magistrati, pertanto, hanno buon titolo per respingere con sdegno ogni accusa di strumentalizzazione della funzione per motivi politici che sia a loro rivolta, ma il discorso, per essere il più onesto e approfondito possibile, non può limitarsi a ciò perché, dopo aver escluso responsabilità concrete individuali,  deve essere anche esteso ad una riflessione su eventuali errori di immagine che possano aver da un lato ingenerato equivoci, dall’altro aver facilitato strumentalizzazioni.

  In quest’ottica, di mera forma che prescinde da qualsiasi profilo di concretezza sottostante, qualche errore e responsabilità per la verità è invece ravvisabile, talvolta sul piano individuale ma più spesso sul piano dell’azione di gruppi associativi organizzati, fra i quali alcuni, pur costituiti da magistrati a cui nulla possa rimproverarsi sul piano della correttezza individuale e professionale, si sono esposti ad alimentare illazioni di parzialità e ad agevolare maliziose strumentalizzazioni già con la semplice adesione dichiarata a precise ideologie politiche, e talvolta con l’attuazione di comportamenti scomposti ed esagerati, quali l’esaltazione di leaders politici, il collateralismo diffuso, l’utilizzo di toni ed immagini estreme nella manifestazione delle proprie critiche, l’intervento in dibattiti su temi estranei alla giustizia.

  Perché non possano insorgere dubbi su ciò che si vuol dire, è necessario ricordare che il magistrato deve avere il massimo della credibilità possibile agli occhi di tutti i cittadini, perché a tutti i cittadini, indifferentemente, egli può essere chiamato a prestare il suo servizio, che è un servizio ingrato perché normalmente scontenta qualcuno, che sia l’imputato condannato o la parte soccombente in un giudizio civile; e non sembra, in verità, azzardato pensare che il magistrato in partenza più affidabile agli occhi di tutti i cittadini che potrebbero essere sottoposti al suo giudizio, specie in tempi di conflittualità politica così accesa come oggi,  sia quello che nessuno sa per chi vota il giorno delle elezioni politiche. Costui, si badi bene, non è il magistrato con la testa vuota, che non abbia idee politiche, ma è il magistrato che le coltiva con il riserbo necessario a far sì che esse non possano alterare in alcun modo la sua immagine di imparzialità.

  Non tutti i magistrati, e non tutti i gruppi associativi, hanno sempre coltivato le proprie idee politiche in modo tale che esse non potessero in alcun modo alterare la loro immagine di imparzialità; e le conseguenze negative che da ciò sono derivate, dagli equivoci in buona fede alle illazioni maliziose, sono purtroppo ricadute sulle spalle di tutti.

 

5) L’accusa di corporativismo della magistratura - Un’altra accusa ricorrente rivolta alla magistratura è quella di corporativismo, inteso come rifiuto preconcetto ad accettare ipotesi di riforme per il timore di veder così pregiudicate presunte posizioni di privilegio o particolari benefici di categoria.

  Seppur non si nega che nel passato una qual certa tendenza conservatrice possa talvolta aver influenzato atteggiamenti e valutazioni di tutta o di parte della magistratura dinanzi alla possibilità di mutamenti del tessuto normativo, specie ordinamentale, oggi tale accusa è da un lato destituita di fondamento, così come dimostrato dalle più recenti vicende della dialettica tra mondo politico e mondo giudiziario in materia di riforme della giustizia, e dall’altro è viziata in radice dalla circostanza che essa è spesso formulata con riferimento concreto a prospettive di modifica inaccettabili perché foriere di nuove e ulteriori disfunzioni, se non addirittura di una contrazione sensibile del livello di indipendenza dei magistrati.

  Basti pensare, per quel che riguarda la disponibilità ad accettare cambiamenti ed anzi a contribuire a determinarli, al serrato confronto che, ad esempio, è stato condotto nella primavera del 2002 dalla Giunta Esecutiva Centrale dell’A.N.M. con il Ministro della Giustizia, nel corso del quale la stessa Giunta ha prospettato l’opportunità di numerose modifiche e miglioramenti da apportare all’ordinamento giudiziario vigente, in alternativa a proposte iniziali contenute in un disegno di legge governativo che non potevano che suscitare una strenua opposizione a causa della loro inidoneità a migliorare l’esistente e, quel che è peggio, della loro propensione invece a limitare il livello di autonomia dei magistrati, soprattutto spostando in parte il baricentro dell’autogoverno dal CSM ad altre autorità improprie rispetto a tale compito, quali la Corte di Cassazione o addirittura direttamente l’Esecutivo.

  Respinta l’accusa di corporativismo, è invece necessario riflettere con grande attenzione all’attuale situazione, la cui gravità si è accentuata via via nel corso degli ultimi mesi, che suscita un’eccezionale apprensione a causa della sempre più concreta prospettata introduzione di riforme assolutamente deleterie per il ruolo dei magistrati e, soprattutto, per l’efficienza generale della giustizia; riforme che prefigurano una sostanziale separazione tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti da realizzare mediante la separazione delle carriere o tramite un’esasperazione dei criteri di separazione delle funzioni, il collegato ridimensionamento dei compiti del pubblico ministero a vantaggio della polizia giudiziaria, ed infine, come appare evidente dal contenuto del c.d. “maxiemendamento” presentato dal Governo nel mese di marzo al noto disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, lo svuotamento sostanziale dei compiti e dei poteri del C.S.M. realizzato principalmente attraverso la scelta di affidare le valutazioni più importanti per la carriera dei magistrati a commissioni esterne di concorso, che dovrebbero oltretutto adeguarsi a metri di giudizio basati principalmente  su dati teorici e non sul concreto “vissuto” del magistrato.

  Il tenore di proposte innovative simili, che a giudizio del comune sentire della magistratura nulla di positivo possono apportare e che, secondo evidenti previsioni, non possono che essere foriere invece sul piano generale di un’accentuata burocratizzazione della magistratura, e su un piano specifico di una contrazione dei livelli attuali di autonomia effettiva del pubblico ministero e del mutamento delle condizioni che attualmente assicurano che il carattere di assoluta imparzialità del giudizio sia proprio anche del momento ad esso propedeutico dell’esercizio dell’azione penale, rende ancor più difficile il rapporto tra la magistratura associata ed il mondo della politica, e in particolare dei settori di essa che propugnano soluzioni del genere, che purtroppo si identificano proprio in quelli più incidenti sul piano istituzionale, ovverosia nel Governo e nella maggioranza parlamentare che lo sostiene.

  A fronte di ciò, infatti, la magistratura associata ha l’obbligo di impegnarsi in una critica obiettiva ma ferma, senza risparmio di argomenti volti a dimostrare l’inconsistenza funzionale delle modifiche proposte, ma anche con l’impegno di ricercare, se possibile, soluzioni diverse che possano risolvere i problemi reali che ostacolano la migliore amministrazione della giustizia.

 Nel far ciò è opportuno mantenere un alto profilo istituzionale e, se si riesce, evitare errori di strategia che possano nuocere al conseguimento degli obiettivi perseguiti.

  Sotto il primo aspetto, si vuole qui ribadirlo a chiare lettere, il più alto profilo istituzionale possibile è quello che rende più credibile anche nei confronti dell’opinione pubblica meno informata, e, in ultima analisi, più “redditizia” l’azione di politica giudiziaria intrapresa, e deve essere ispirato agli esempi di compostezza e insieme di chiarezza che non sono mai mancati, e fortunatamente continuano a non mancare, da parte delle istituzioni di garanzia alle quali è doveroso per ogni magistrato fare riferimento, ovverosia il Consiglio Superiore della Magistratura e, prima ancora, il Capo dello Stato, supremo garante delle istituzioni e, non a caso, presidente dello stesso C.S.M.; da entrambi sono infatti venuti, anche negli ultimi tempi, opportuni e frequenti richiami all’importanza dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, senza differenziazioni tra essa, nel quadro delle garanzie di libertà dei cittadini previste dalla Costituzione.

 Sotto il secondo aspetto, è necessario modulare la politica da attuare secondo le esigenze del momento, si potrebbe dire da valutare minuto per minuto, soprattutto evitando errori che possano avere effetti controproducenti rispetto al fine perseguito, ad esempio dei quali può probabilmente portarsi la mancata sospensione dello sciopero dei magistrati già proclamato e la sua celebrazione nel giugno 2002, in quel momento intempestiva perché avvenuta  nonostante l’avviso contrario del Capo dello Stato e proprio contestualmente alle uniche manifestazioni concrete di disponibilità effettiva al confronto con i magistrati pervenute nel corso dell’attuale legislatura dal Governo, che avevano portato all’accoglimento di buona parte delle osservazioni critiche e delle proposte alternative dell’A.N.M. sul tema dell’ordinamento giudiziario; tale decisione ( le cui prevedibili conseguenze negative avevano allora indotto Magistratura Indipendente ad uscire dalla Giunta Esecutiva Centrale) ha infatti consentito al Governo di tornare agevolmente sui suoi passi, giustificando all’opinione pubblica l’abbandono della strada del dialogo con l’insensibilità ad esso manifestata dalla magistratura, e di formulare nuove proposte di riforma sullo stesso tema che, come riconosciuto dall’intero Comitato Direttivo Centrale con il documento approvato il 22 marzo 2003, sono estremamente peggiorative non solo di quelle che erano seguite al confronto con l’A.N.M., ma addirittura di quelle contenute nel progetto di riforma originario.

 Sotto il profilo concretamente operativo, infine, si è già detto che è indispensabile porre in essere ogni sforzo possibile in chiave propositiva per indicare soluzioni efficaci ai problemi effettivi, con serietà e senza pregiudizi, come è sempre necessario quando occorra ricercare nuove strade per rimuovere problemi altrimenti insolubili;  in quest’ottica il presente documento (che, in un doveroso intento di collaborazione costruttiva, sarà fatto pervenire a tutte le istituzioni competenti e ai responsabili politici di tutti gli orientamenti) nel prosieguo cercherà di analizzare, ovviamente in estrema sintesi e senza pretese di esaustività, i maggiori problemi che  oggi gravano sulla giustizia, proponendo motivatamente per essi talune soluzioni.  

 Magistratura Indipendente,  nel momento in cui si permette di chiedere il sostegno dei colleghi in occasione delle imminenti elezioni per il Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati, dichiara che conformerà il proprio impegno ai principi e ai metodi enunciati.


 

 

Le riforme del processo penale

 

1) Errori del passato e necessità di riforme - Il punto di maggiore crisi dell’amministrazione della giustizia è oggi toccato nel settore del processo penale, che è stato caratterizzato dalla “rivoluzione” intervenuta nel 1988, allorché il nuovo codice di procedura penale ha sostituito il modello accusatorio, di derivazione anglosassone, al tradizionale rito di impostazione inquisitoria, o continentale.

  Il nuovo processo, accanto alla positiva accentuazione in chiave garantista del livello di effettività del contraddittorio tra parte pubblica e difesa (che è stato poi integrato dalla modifica dell’articolo 111 della Costituzione), ha però comportato tutta una serie di gravi problemi che sono alla base delle disfunzioni che ogni giorno sono facilmente constatabili.

 In via di estrema semplificazione, al riguardo è possibile dire che la causa principale di ciò è ravvisabile nella circostanza che il nuovo sistema, parzialmente mutuato da esperienze altrui, è stato da noi realizzato in maniera irrazionale e farraginosa già sul piano tecnico, ma soprattutto senza l’adeguata  comprensione dei problemi che sarebbero derivati dalla mancanza, nel nostro Paese, dei presupposti che lo rendono funzionale alle realtà politiche e sociali nelle quali da secoli si è affermato.

  Non si è compreso, in particolare, che il modello processuale accusatorio è retto fondamentalmente da un alto livello di consenso e di fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, al quale è consentito, ad esempio, di gestire l’amministrazione della giustizia per il tramite di suoi funzionari (tali sono, in effetti, i pubblici ministeri nei Paesi che lo adottano), con ampia discrezionalità di scelte e di strategie (prima fra tutte quella sull’opportunità o meno di esercizio dell’azione penale), senza il timore che esse siano condizionate da interessi illeciti o di parte; non si è considerato, ancora, che quel sistema si è nel tempo efficacemente affermato soltanto nei Paesi le cui popolazioni siano tradizionalmente educate al pragmatismo e alla concretezza, che comportano l’attribuzione di un determinante rilievo ( invece del tutto ignoto nella nostra comune coscienza sociale) al valore del rapporto tra costi e benefici.

  E’ stato, pertanto, introdotto il metodo di formazione della prova più complicato e più lungo possibile, senza prevedere alcuno degli accorgimenti che ne costituiscono presupposto essenziale di funzionalità, nemmeno quelli che, a differenza della discrezionalità dell’azione penale, non sono influenzati dal livello di fiducia tra Stato e cittadini; non si è, ad esempio, abolito il secondo grado di merito, non si è affermata l’esecutività della sentenza di primo grado, non si è garantita l’efficacia della pena, non si è razionalmente definito il ruolo e il valore delle dichiarazioni dell’imputato, non sono stati riconosciuti al giudice penetranti poteri di direzione del dibattimento idonei a scoraggiare tattiche dilatorie, non si è attuata una depenalizzazione veramente significativa, non si è, in sostanza, fatto nulla di veramente efficace per assicurare la deflazione “a monte” dei dibattimenti, essendo venuta a mancare, evidentemente, la consapevolezza dell’impossibilità materiale di gestirne un numero che non fosse estremamente ridotto.

  Il risultato immediato è stata una congestione dei tribunali affollati da una gran massa di processi, con il conseguente incremento oltre il ragionevole dei tempi  per la loro definizione: una grave disfunzione, che ha oggi raggiunto e probabilmente superato un livello di guardia accettabile, e che rende ormai estremamente difficile il pur doveroso compito di individuare rimedi efficaci.

 

2) Le proposte sbagliate - A tale proposito si osserva innanzitutto che praticamente tutte le proposte di modifica finora ufficialmente presentate o comunque prospettate appaiono orientate in direzione sbagliata, poiché insistono sempre sulla presunta necessità di ampliare i livelli del contraddittorio tra le parti del processo, che invece è ormai più che sufficientemente garantito alla luce delle modifiche apportate dagli ultimi interventi normativi in materia, e in particolare dalla legge 7 dicembre 2000, n. 397 sulle investigazioni difensive, e dalla legge 1 marzo 2001, n.63 attuativa dei principi del giusto processo; e infatti, a ben vedere, nelle varie attuali proposte che hanno già costituito ampio oggetto di dibattito ( fra cui emerge soprattutto il testo coordinato elaborato dal comitato ristretto della commissione giustizia della Camera, noto con il nome del relatore on.le Pittelli), non è individuabile alcuna disposizione rivolta a migliorare l’attuale livello di contraddittorio tra le parti, inteso (come deve essere) nel senso di arricchimento dei momenti di dialettica fra di esse, ma sono invece presenti tutta una serie di disposizioni che, sotto vari aspetti, sono idonee a dilatare ancor più i tempi del processo senza apportare ad esso alcun beneficio.

  In realtà le possibili conseguenze dell’erronea convinzione della necessità di dover ancora realizzare pienamente l’applicazione del principio del contraddittorio sono ancor più preoccupanti perché, constatata l’impossibilità di intervenire in tal senso sulle regole processuali (già pienamente attuative del principio anzidetto), l’attenzione delle idee di riforma si sta spostando dal piano del rito a quello dell’ordinamento più in generale, con riferimento sia alla posizione del pubblico ministero all’interno dell’ordine giudiziario, sia ai poteri concreti da attribuirgli nel rapporto con la polizia giudiziaria.

  Sotto il primo aspetto è maturata in molti l’idea che per ottenere un effettivo contraddittorio sia necessario separare la carriera dei pubblici ministeri da quella dei magistrati giudicanti, idea profondamente errata per tutte le ragioni che saranno di seguito esposte in sede di analisi degli interventi di modifica dell’ordinamento giudiziario.

  Analoghi argomenti sono evidentemente validi anche ad escludere che possa positivamente valutarsi la prospettiva di contrarre i poteri del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari a favore di quelli della polizia giudiziaria, soluzione che davvero non si comprende quale vantaggio pratico potrebbe apportare, mentre è palese che da essa discenderebbe una riduzione delle garanzie dei cittadini di essere sottoposti non solo ad un giudizio, ma anche ad indagini (dalle quali si deve sempre ricordare che possono derivare anche  situazioni profondamente incidenti sulla libertà personale) fin dall’inizio ispirate nel miglior modo possibile ai principi di garanzia e di imparzialità propri dell’attività giudiziaria.

 

3) Il pubblico ministero - Con riferimento al pubblico ministero, pertanto, davvero non può che esprimersi il rammarico che il dibattito che lo riguarda sia stato così male orientato, in una prospettiva che ha portato a pensare a soluzioni inutili, e addirittura dannose rispetto alle reali esigenze, e a non considerare quantomeno con la stessa attenzione ipotesi di intervento diverse che, invece, potrebbero migliorare l’efficacia dell’attività degli organi di procura nell’esercizio dei compiti, inquirenti e requirenti, loro attribuiti, con conseguenti benefici anche in termini di riduzione dei tempi del processo.

  Sotto questo aspetto, ad esempio, un primo intervento estremamente opportuno sarebbe quello di ampliare anche all’area dei delitti in materia di terrorismo e di eversione la competenza della Direzione Nazionale Antimafia, la cui costituzione nacque dalla riconosciuta esigenza di completare l’organizzazione giudiziaria inquirente con un ufficio, avente attribuzioni di portata generale a livello nazionale,  che potesse favorire il miglior svolgimento delle funzioni degli uffici competenti territorialmente, soprattutto mediante un’attività di collegamento investigativo tra essi, altamente specializzata, relativamente alle ipotesi criminose organizzative di stampo mafioso.

  L’esperienza dimostra che la nuova struttura ha ottenuto risultati positivi sia sul piano dell’efficienza generale, in considerazione della maggior diffusione di più complete conoscenze utili alle indagini, messe a disposizione di tutte le autorità inquirenti presenti sul territorio, sia sul piano più specifico del risparmio dei tempi dei singoli procedimenti grazie ai buoni risultati dell’attività di coordinamento tra plurimi uffici territorialmente competenti, che ha consentito molte volte di prevenire ed evitare l’insorgere di contrasti tra pubblici ministeri, risparmiando i tempi e l’attività necessaria per risolverli.

  Si è trattato, pertanto, di un buon esempio di organizzazione giudiziaria strutturata dal legislatore secondo criteri di specializzazione e potenzialità funzionale specificamente mirati ed adeguati al compito  da svolgere. Analogo schema organizzativo dovrebbe essere quindi opportunamente applicato anche con riferimento a situazioni caratterizzate da problematiche simili, quali si ravvisano oggi chiaramente per le indagini giudiziarie relative al fenomeno criminale organizzato di stampo terroristico ed eversivo, anch’esso connotato dall’ampiezza dell’area operativa delle organizzazioni criminali, dai loro ricorrenti collegamenti internazionali, dalla pluralità di uffici giudiziari inquirenti territorialmente competenti, e dall’attuale difficoltà di un efficace coordinamento tra essi.

  Un ulteriore settore, a cavallo tra il processo penale e l’ordinamento giudiziario, nel quale sarebbe opportuno intervenire è quello delle misure idonee ad assicurare un miglior coordinamento organizzativo tra uffici giudiziari giudicanti e uffici del pubblico ministero per la fissazione dei ruoli d’udienza, che costituisce un presupposto operativo imprescindibile per consentire lo svolgimento ottimale delle funzioni requirenti.

  Già l’articolo 3 delle norme di attuazione del codice di procedura penale aveva stabilito che “i titolari degli uffici del pubblico ministero curano che, ove possibile, alla trattazione del procedimento provvedano, per tutte le fasi del relativo grado, il magistrato o i magistrati originariamente designati”, disposizione che testimonia un’intuizione rimarchevole del legislatore dell’epoca che, superando la logica formale imperniata  sull’assunto tradizionale circa la “impersonalità” dell’ufficio della Procura della Repubblica,  prese atto e dette rilievo all’importanza particolare che, nel modello processuale accusatorio, assume la continuità nella gestione del procedimento da parte di un’unica persona (o comunque di un unico coordinamento, seppur costituito da più persone) svolgente le funzioni di pubblico ministero; un’unica persona che imposti dall’inizio le indagini, operi le scelte investigative, sciolga i nodi interpretativi relativi alle norme rilevanti, assuma le decisioni circa l’esercizio dell’azione penale e conduca, coerentemente ad esse, le attività processuali in senso stretto, con evidenti vantaggi sia in termini qualitativi dell’azione giudiziaria, per la maggiore efficacia di una più responsabile e consapevole strategia, sia in termini che potrebbero definirsi di “economia funzionale”, grazie al risparmio di tempo dovuto all’esclusione di duplicazioni nello studio di uno stesso fascicolo processuale.

  Ciò nonostante l’art. 3 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale non ha quasi mai trovato applicazione proprio per difetto dei presupposti di coordinamento organizzativo.

  Il problema fondamentale, infatti, è costituito dalla circostanza che, essendo il processo un’attività relazionale in ogni sua fase, svolta da più soggetti con il concorso essenziale di tutti, tale previsione è insufficiente a conseguire lo scopo  poiché rivolta soltanto ad uno dei responsabili organizzativi, e precisamente al titolare dell’ufficio del pubblico ministero, che da solo non è in grado di determinare le condizioni perché lo stesso magistrato originariamente designato possa seguire il procedimento per tutte le fasi del relativo grado; a tal fine, infatti, è indispensabile il concorso fattivo anche dei responsabili degli uffici giudicanti dinanzi ai quali il pubblico ministero si trovi ad operare, che non è invece previsto da alcuna disposizione di legge.

  A tutt’oggi il coordinamento descritto risulta previsto solo da una circolare del C.S.M. del 1999,  ma non in molte sedi esso è divenuto davvero effettivo, così da far ritenere opportuno che trovi finalmente una dettagliata e razionale disciplina in una futura norma di legge, che ne assicuri la cogenza in tutte le sedi giudiziarie.

  Dalla previsione dell’art. 3 delle disposizioni di attuazione del c.p.p. può trarsi spunto, in realtà, per una più approfondita riflessione sull’indiscutibile efficacia di un più generale criterio organizzativo di  “unicità” e “continuità” nell’esercizio delle funzioni di pubblico ministero nel medesimo procedimento, che trova per il momento l’unica sua altra applicazione normativa nell’art. 570, terzo comma, c.p.p., in base al quale il pubblico ministero che abbia presentato le conclusioni nel giudizio di primo grado, nell’atto d’appello può chiedere di partecipare anche al giudizio di secondo grado in qualità di sostituto del procuratore generale presso la Corte d’Appello.

  Il buon risultato che tale previsione ho sortito nelle sedi giudiziarie ove ha trovato una più diffusa applicazione conferma la bontà del principio organizzativo ricordato, e suggerisce di estenderne, con opportuna riforma normativa, l’applicazione anche all’ipotesi in cui appellante non sia stato il pubblico ministero.

  Infine, specie qualora le ipotesi di impugnazione nel merito fossero considerevolmente ridotte in base alle ragioni di opportunità che saranno di seguito spiegate, a ben vedere potrebbe addirittura pensarsi ad una ridefinizione degli ambiti di competenza territoriale e funzionale degli uffici di procura, che, sulla base delle loro peculiarità, superi la logica della simmetria tra essi e gli uffici giudicanti territorialmente competenti, prevedendo invece un unico ufficio del pubblico ministero che svolga le sue funzioni, in ogni stato e grado del procedimento di merito, all’interno di un territorio ricompreso nei confini del medesimo distretto di Corte d’Appello. Il primo vantaggio di tale soluzione sarebbe proprio costituito dall’applicazione più ampia e agevole del principio della continuità nell’esercizio delle funzioni di pubblico ministero, dall’inizio alla fine di tutte le fasi e gradi del giudizio di merito;  si avrebbe, inoltre, grazie anche all’ampia possibilità di avvalersi delle attuali professionalità preposte agli uffici direttivi e semidirettivi inquirenti, l’ulteriore beneficio di escludere in radice la possibilità del verificarsi di situazioni di contrasto tra p.m. all’interno dell’intero distretto, e si realizzerebbero economie nell’utilizzazione delle forze a disposizione, probabilmente ottenendo anche una distribuzione più equa e razionale del carico di lavoro tra tutti i magistrati.

 

4) Il processo penale: riforme “di sistema” - Nel tentativo di trovare rimedi efficaci all’attuale inefficienza del processo penale alla luce delle cause di essa che sono state già ricordate, in via di sommaria approssimazione si possono distinguere due diversi livelli di interventi, i primi di “sistema” volti ad eliminare gli squilibri causati dalla natura ibrida di quello oggi risultante dalla commistione di regole accusatorie con garanzie inquisitorie,  i secondi più limitati diretti ad accelerare i tempi con la semplificazione di alcuni passaggi della procedura, ovvero a rimuovere ingiustificati ostacoli procedurali all’accertamento della verità.

  Di seguito sono indicati gli interventi “di sistema” che appaiono meritevoli di particolare attenzione:

-         il sistema delle “impugnazioni”, nel processo accusatorio basato sul contraddittorio nella formazione della prova e sull’oralità, è logicamente in larga misura incompatibile con un appello cartolare sul merito della causa, come invece è rimasto nella generalità dei casi nel nostro ordinamento. Ne discende che, sulla base proprio dei principi accusatori, il giudizio di appello nel merito, solo cartolare, non garantisce fisiologicamente un risultato migliore (ovverosia, una decisione verosimilmente più giusta) rispetto al giudizio di primo grado. Esso si salva da un giudizio di assoluta incongruenza sistematica soltanto perchè, comunque, le prove cartolari valutate dal giudice d’appello documentano attività svoltesi in contraddittorio nel processo di primo grado, ma tale circostanza può consentire al più di escludere profili di incostituzionalità per violazione dell’art. 111, ma non anche di individuare nell’istituto vantaggi tali da compensarne i costi, in termini di tempo e di strutture impegnate. E’ pertanto necessario ridisegnare i limiti del giudizio di appello, ad esempio consentendolo solo in caso di necessità di rinnovazione del dibattimento per l’assunzione di nuove prove (in questo caso si avrebbe, infatti, l’esigenza di riaprire il contraddittorio per l’assunzione della nuova prova) oppure nel caso di sentenze di primo grado emesse con il rito abbreviato (in questo caso, sul piano sistematico, non vi sarebbe contraddizione tra il giudizio di primo grado e quello di appello perché entrambi verterebbero su prove cartolari, essendo stata legittimamente esclusa la necessità del contraddittorio nella formazione della prova per volontà dello stesso imputato). Così facendo si otterrebbe il duplice risultato di un sistema delle impugnazioni di merito più “economico” nei tempi e più “coerente” con il sistema accusatorio. 

Con riferimento al giudizio di appello, comunque, si deve osservare che in ogni caso, anche indipendentemente dalla ricostruzione dell’istituto come indicato, è opportuno escludere l’attuale possibilità del c.d. “patteggiamento in sede di appello” previsto dal quarto comma dell’art. 599, che da un lato disincentiva l’accesso al rito abbreviato perché comunque lascia all’imputato ampio margine di speranza di ottenere alla fine un’eguale riduzione di pena pur non avendo rinunciato al contraddittorio sulla formazione della prova, e dall’altro può ottenere effetti paradossali di duplicazione della riduzione di pena nei casi in cui sia applicato a condanne inflitte in sede di giudizio abbreviato;  

-         tutti i sistemi processuali accusatori richiedono un’imponente deflazione “a monte” del numero dei dibattimenti che, specie laddove non sia realizzabile con la discrezionalità dell’azione penale, non può ottenersi che con la definizione anticipata del processo, incentivata da benefici compensativi della rinuncia al contraddittorio nella formazione della prova. In tale ottica, pertanto, appare ragionevole favorire il più possibile non solo la celebrazione dei processi con un rito più veloce dell’ordinario (come è il giudizio abbreviato), ma anche direttamente la “non celebrazione” dei processi quando essi siano inutili. Ciò già avviene, nel nostro sistema, con il c.d. “patteggiamento”, ovverosia l’applicazione della pena su richiesta delle parti prima che il dibattimento abbia luogo, che è attualmente sottoposto a limiti di pena che non avrebbero, in linea di principio, ragion d’essere plausibile, se non fosse che la sentenza così pronunciata comporta per l’imputato, oltre al ragionevole beneficio in termini di pena, ulteriori benefici invece eccessivi qualora la sentenza stessa si riferisca a fatti particolarmente gravi e, soprattutto, forieri di danni per le persone offese. In un quadro di razionalizzazione generale, pertanto, anche alla luce di quanto adottato nei sistemi accusatori di più lunga tradizione, all’attuale patteggiamento sarebbe opportuno sostituire una sentenza di condanna conseguente esclusivamente a dichiarazione di colpevolezza dell’imputato, possibile con riferimento a qualsiasi tipo di reato, alla quale consegua una congrua riduzione di pena, ma non anche, e comunque non tutti,  gli altri benefici di cui all’art. 445, soprattutto la non efficacia  della sentenza nei giudizi civili (mentre gli altri benefici oggi previsti potrebbero essere mantenuti per i reati meno gravi):   

-         la caratteristica qualificante del sistema accusatorio è costituita dalla formazione della prova nel contraddittorio delle parti, evidentemente incompatibile con il processo celebrato “in contumacia”, ovverosia non in presenza dell’imputato. E’ pertanto opportuno pensare ad un’ipotesi di sospensione dei processi nei confronti degli imputati contumaci perché  irreperibili, ovverosia coloro che non sono mai stati raggiunti sostanzialmente dalla notizia del processo nei loro confronti, sia pur notificata regolarmente con le procedure che ne assicurano oggi la conoscenza legale, perché tale processo realizza un contraddittorio insufficiente con il solo difensore d’ufficio dell’imputato. Sono moltissimi i processi celebrati nei confronti di irreperibili, molti dei quali (specie gli stranieri irregolarmente presenti sul nostro territorio) non sono mai raggiunti nemmeno in sede esecutiva, e quindi tale sospensione avrebbe anche il beneficio di risparmiare tempo evitando definitivamente un certo numero di processi inutili.

Discorso diverso, ovviamente, va fatto per coloro che invece abbiano avuto un’effettiva conoscenza del processo a loro carico, e per loro scelta abbiano deciso di non prendervi parte. In questo caso è, sostanzialmente, a loro addebitabile la circostanza che la formazione della prova non avvenga in un contraddittorio che abbia anche in concreto la loro presenza, e certamente da tale scelta non possono ricavare il beneficio di alcuna sospensione del processo;

-         nei normali sistemi accusatori all’imputato è riconosciuto il diritto di difendersi con la verità o con il silenzio, ma non anche con la menzogna, perché in realtà il contraddittorio nella formazione della prova è scelto criticamente dall’ordinamento perché considerato il mezzo più efficace per accertare la verità dei fatti,  e non acriticamente solo per fornire un’arma ulteriore di difesa all’imputato, innocente o colpevole che sia. Ne discende che la ricerca della verità, fine ultimo del contraddittorio, è in realtà esaltata nel sistema accusatorio, e tale finalità non può essere inquinata impunemente nemmeno dall’imputato, al quale è già garantito il sistema di formazione della prova ritenuto più  idoneo ad accertare la verità, e quindi ad evitare che egli possa subire le conseguenze di un errore giudiziario. Ne consegue che l’imputato è libero di non rispondere alle domande, ma non è libero di mentire, cosicché nel processo, qualora egli decida di non difendersi con il silenzio, è obbligato a dire la verità, al pari dei normali dichiaranti-testimoni.

Nel nostro sistema, invece, il legislatore ha consentito all’imputato anche di difendersi mentendo, così adottando una scelta in dispregio della finalità della ricerca della verità, per mitigare gli effetti perversi della quale si è poi escogitato un complicatissimo meccanismo per imporgli, per qualche verso, di dire la verità almeno con riferimento alle dichiarazioni relative a fatti altrui. La previsione congiunta degli articoli 64, 197 e 197 bis appare come un palese esempio di soluzione di compromesso, farraginosa e inefficace, potenzialmente foriera di confusione di ruoli e di equivoci processuali. Sarebbe pertanto opportuno, in un quadro di razionalizzazione di sistema, rivedere le scelte assunte dal legislatore circa l’attribuzione del diritto alla menzogna all’imputato, che in verità non appare aderente ad alcun canone costituzionale prescritto.

 

5) Il processo penale: riforme “non di sistema” - Le osservazioni che seguono riguardano, invece, possibili miglioramenti che si riferiscono ad aspetti processuali normalmente indifferenti al sistema fondamentale prescelto, che potrebbero consentire risparmi anche consistenti sui tempi globali necessari per pervenire ad una sentenza definitiva, ovvero favorire un miglior funzionamento generale del processo:

-         il primo nucleo di interventi semplificativi riguarda le regole di notifica degli atti giudiziari, attività che attualmente comporta probabilmente il maggior onere in termini sia di tempi che di costi, davvero eccezionali. Ogni semplificazione, evidentemente, non può andare a discapito della certezza della conoscenza dell’atto da parte del destinatario, ma deve invece eliminare passaggi superflui o comunque strumentalmente utilizzabili a soli fini dilatori.

L’innovazione principale dovrebbe riguardare l’elezione di domicilio automatica presso il difensore di fiducia, che, per essere stato scelto dall’imputato, è soggetto assolutamente idoneo a rapportarsi con lui in termini di particolare affidabilità in vista delle esigenze del processo. L’elevato livello del ruolo professionale degli avvocati consente agevolmente all’ordinamento di riferirsi a loro come ad interlocutori privilegiati per quanto riguarda incombenze direttamente funzionali al miglior esito del processo, che è sempre maggiormente garantito dalla più assidua e consapevole partecipazione di tutti i suoi protagonisti. Nel contempo la certezza logistica del riferimento al difensore di fiducia permette di ottenere notevoli risparmi di tempo e di energie per l’attività di notifica e, valore aggiunto a tutto ciò, impedisce in radice qualsiasi strategia che persegua obiettivi meramente dilatori. Ad ogni buon conto potrebbe essere opportuna una norma di chiusura che, a fini di certezza della notificazione, rimetta in termini il destinatario qualora egli dimostri di non averne avuto conoscenza non per sua colpa.

Oltre a ciò, a fini di semplificazione, occorre valorizzare quanto più possibile i moderni mezzi della tecnica, individuando in ogni caso chiari e semplici criteri di attestazione della certezza delle notifiche; occorre chiarire i termini di validità e sufficienza delle notifiche al difensore qualora l’imputato ne abbia nominati due, situazione che comporta frequenti contestazioni; occorre eliminare ogni residua ipotesi di notificazione ulteriore per gli imputati che scelgano la strada della contumacia, dovendosi costoro ad ogni fine considerare rappresentati dal difensore.

Un altro incombente che produce considerevoli ritardi è la notifica alle parti delle impugnazioni, che può arrivare a richiedere nei processi con imputati liberi anche più di un anno, ed aggravia pesantemente il lavoro delle cancellerie. Sarebbe opportuno e non lesivo di alcuna garanzia difensiva sostanziale, in un sistema che ha già previsto di regola l’abolizione dell’avviso di deposito della sentenza e ha reintrodotto la possibilità di impugnare anche per il difensore d’ufficio del contumace, porre a carico della parte l’onere di verificare se l’appello sia stato presentato alla scadenza del termine per ciò previsto. Sarebbe così possibile trasmettere gli atti al giudice dell’impugnazione non appena trascorsi i termini per la presentazione dell’appello incidentale;

-         parallelo al tema delle notifiche è quello del deposito di atti, incombenza anch’essa volta ad instaurare una corretta dialettica processuale, che comporta però tempi e costi notevoli, ed è quindi opportuno che non sia estesa a situazioni per le quali possa risultare sostanzialmente ingiustificata. In particolare si segnala l’onerosità dell’avviso e conseguente deposito degli atti a disposizione dell’indagato all’esito delle indagini preliminari, previsto dall’art. 415 bis, che da più parti è considerato superfluo perché duplicativo di incombenze che sono poi ripetute nell’udienza preliminare, o comunque nella fase degli atti preliminari al dibattimento. Una proposta di snellimento razionale, a tale proposito, potrebbe essere quella di prevedere che, con l’informazione di garanzia, l’indagato sia avvisato della facoltà di chiedere il deposito degli atti all’esito delle indagini, che così perderebbe il carattere di generalità che oggi lo contraddistingue e permarrebbe soltanto come obbligo da adempiere su richiesta  di chi ad esso ritenga di avere interesse;

-         in materia di decreto penale si riscontra che spesso l’opposizione è proposta al solo fine di ottenere il beneficio della sospensione condizionale. A fini di semplificazione occorrerebbe prevedere che, qualora ciò avvenga, il giudice possa procedere d’ufficio, senza alcuna fissazione d’udienza, previa acquisizione del parere del pubblico ministero. Sarebbe anche utile prevedere che la pena eventualmente inflitta all’esito del giudizio di opposizione non possa essere inferiore a quella applicata con il decreto penale, al fine di scoraggiare impugnazioni nella sostanza meramente dilatorie, apparentemente finalizzate ad ottenere minime diminuzioni di pena;

-         anche la disciplina delle intercettazioni telefoniche potrebbe essere semplificata, ad esempio stabilendo che la trascrizione delle conversazioni ad opera del perito nominato dal giudice, che costituisce oggi l’unico modo per rendere utilizzabili le operazioni, debba aversi invece soltanto su richiesta motivata del difensore, al quale siano poste a disposizione le registrazioni per l’ascolto. In tal modo il difensore potrebbe verificare, direttamente o con l’ausilio di un suo consulente, la corrispondenza tra il contenuto delle registrazioni e la trascrizione che ne abbia già fatto la polizia giudiziaria, e solo quando quest’ultima non risultasse fedele o sotto qualsiasi aspetto affidabile potrebbe chiedere una nuova trascrizione peritale, mentre in caso contrario sarebbe utilizzabile la trascrizione operata dalla polizia giudiziaria. E’ evidente il risparmio di tempo e di costi che da ciò deriverebbe, senza ridurre in alcun modo le garanzie della difesa.

Ancora in tema di intercettazioni telefoniche, opportuno sarebbe chiarire inequivocabilmente che l’indisponibilità attuale di tutte le postazioni presenti presso la procura della repubblica è condizione sufficiente per consentire le operazioni anche in locali diversi, a meno che, preso atto che in realtà la garanzia prevista dalla norma appare più declamatoria che sostanziale, non si ritenga opportuno eliminare del tutto tale vincolo restrittivo;

-         il sistema dell’applicazione delle misure cautelari incentrato sulla decisione di un giudice monocratico seguita dall’eventuale riesame di un giudice collegiale ha mostrato in molte occasioni limiti notevoli, evidenziati soprattutto dal frequente ribaltamento di decisioni anche basate sugli stessi elementi che, vertendo in materia di libertà personale, non possono che provocare sconcerto e perplessità sulla credibilità del sistema. Sarebbe probabilmente opportuno pensare a meccanismi processuali, già presenti in altri sistemi, che consentano fin dall’inizio l’applicazione della misura al giudice collegiale, la cui maggiore affidabilità fisiologica renderebbe evidentemente superflua la successiva fase del riesame, così risparmiando probabilmente anche in termini di attività giudiziarie complessive. A tal fine, peraltro, dovrebbe verificarsi la possibilità di garantire una forma di contraddittorio preventivo rispetto alla decisione del giudice collegiale, ad esempio mediante la possibilità di un fermo dell’indagato per il tempo strettamente necessario a sottoporlo al giudizio del giudice, nel rispetto dei termini previsti dall’art. 13 della Costituzione; nei casi più complessi, quando la mole degli atti d’indagine fosse particolarmente ingente, il p.m. potrebbe trasmettere al giudice la sua richiesta anche in congruo anticipo rispetto all’esecuzione del fermo, così da consentire al giudice stesso di affrontare la decisione opportunamente informato;

-         il sistema attuale prevede che, qualora per qualsiasi ragione cambi il collegio giudicante, sia sufficiente la richiesta di una delle parti perché si proceda necessariamente alla rinnovazione di prove già assunte in un regolare contraddittorio dinanzi al giudice, come in precedenza costituito. Se è pur vero che in linea di principio il contraddittorio contempla preferibilmente anche l’oralità e l’immediatezza della formazione della prova dinanzi al giudice chiamato a decidere, è pur vero che questo specifico profilo non appare coperto dalla riserva costituzionale di cui all’art. 111, tanto che è considerata costituzionalmente legittima la decisione basata su prove anche assunte da altro giudice purchè in contraddittorio tra le parti, come avviene normalmente per la sentenza d’appello che non sia stata preceduta dalla rinnovazione del dibattimento, ovvero per la sentenza di primo grado basata su prove assunte in sede di incidente probatorio. Ciò premesso, si deve osservare che il criterio della ripetibilità delle prove a semplice richiesta di una delle parti, nelle ipotesi di cambiamento del giudice, può portare ad irragionevoli dilatazioni dei tempi del processo, non giustificate dai benefici che se ne ricavino in termini di sistema. Sembra necessario, pertanto, in queste situazioni introdurre il diverso, e più equilibrato, principio della ripetibilità della prova non su richiesta delle parti, che non ne hanno normalmente interesse avendo partecipato al contraddittorio avvenuto al momento della formazione di essa, ma su decisione del nuovo giudice, che a ben vedere è il vero destinatario della garanzia nel caso di specie, il quale potrà decidere la rinnovazione soltanto quando riterrà, per qualche ragione, opportuno che le prove formate dal giudice così come precedentemente costituito siano rinnovate dinanzi a lui;

-         l’attuale procedura è stata infarcita di previsioni di inutilizzabilità, che costituisce la causa più radicale di invalidità di atti processuali, in occasione di interventi di inserimento di discipline particolari relative a specifiche situazioni che possono verificarsi nel corso del procedimento. Ciò è accaduto, ad esempio, con l’introduzione di nuove norme in materia di collaboratori della giustizia e di rogatorie internazionali. Caratteristica comune a queste previsioni di inutilizzabilità è la loro asistematicità, poiché nessuna di esse concerne situazioni in cui la prova sia stata assunta al di fuori di ogni possibilità di verifica e in condizioni tali da inquinarne irrimediabilmente la genuinità, così come è invece canone caratteristico  della categoria, alla luce del quale gli atti tradizionalmente inutilizzabili sono infatti gli scritti anonimi, le fonti confidenziali e le prove vietate dalla legge.

E’ opportuno, in un quadro di riconduzione a razionalità del sistema, eliminare queste spurie ipotesi di inutilizzabilità, che contrastano con l’esigenza di accertamento della verità  e comportano spesso spreco di tempi e di attività, riconducendo le situazioni sottostanti  all’ambito loro proprio di valutazione di attendibilità o, a seconda dei casi, ad altre diverse e meno gravi categorie di invalidità degli atti processuali, quali le nullità dei diversi tipi.

Senza pretesa di esaustività, si segnalano i casi più evidenti costituiti dall’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia o come conseguenza della violazione di taluni divieti di comunicazione, anche senza avere alcuna prova che da tale violazione possa essere derivato un inquinamento delle dichiarazioni, o addirittura soltanto perché rese oltre i centoottanta giorni dall’inizio della collaborazione, in questo caso considerando il decorrere del tempo elemento di per sé così inquinante da comportare la “morte sul nascere” dell’efficacia delle dichiarazioni, senza possibilità di prova contraria. Altre ipotesi simili sono contemplate nella nuova disciplina sulle rogatorie all’estero, che ha modificato l’articolo 729 c.p.p. introducendo tre tipi di inutilizzabilità ricollegate a violazioni formali che nulla hanno a che vedere con situazioni di patologica inaffidabilità originaria della prova, tra le quali si segnala per la sua paradossalità l’inutilizzabilità delle dichiarazioni aventi ad oggetto il contenuto  di atti dichiarati inutilizzabili per le violazioni formali anzidette, che siano state assunte successivamente proprio per porre rimedio all’inutilizzabilità anzidetta;

-         la disciplina del patrocinio a spese dello Stato, essendo incentrata essenzialmente sull’autodichiarazione del richiedente, comporta un onere economico enorme senza garantire veramente che ad essa accedano soltanto coloro che davvero ne abbiano bisogno. E’ opportuno, pertanto, rivedere la filosofia complessiva che la ispira e riscontrare l’efficacia delle soluzioni normative adottate. A tale proposito si segnala come particolarmente disfunzionale l’attuale rinuncia ad acquisire il parere del pubblico ministero presso il giudice procedente, che invece è il soggetto maggiormente informato sulla plausibile veridicità delle dichiarazioni di sostanziale indigenza che provengano soprattutto da soggetti pregiudicati, spesso anche per gravi reati commessi a scopo di lucro. Irragionevole è anche la previsione di nullità assoluta conseguente alla mancata decisione entro dieci giorni dall’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che sembrerebbe travolgere, incomprensibilmente, anche le attività svolte comunque con l’assistenza del difensore dopo detto termine. In un quadro più radicale occorrerebbe forse interrogarsi in generale sulla congruità dell’attuale sistema legale di compenso agli avvocati difensori (uno studio recente di un ricercatore dell’ISAE, Daniela Marchesi, “Litiganti, avvocati e magistrati” pubblicato per Il Mulino nei mesi scorsi, sembrerebbe dimostrare che esso tende a incentivare la lunghezza dei processi collegando il livello del compenso al numero di udienze partecipate) e, con riferimento in particolare al patrocinio a spese dello Stato, prendendo anche spunto da esperienze maturate in altri Paesi pur di sicura esperienza democratica, sarebbe anche opportuno verificare se l’attuale meccanismo, eccezionalmente oneroso per le casse dello Stato, sia l’unico possibile, ovvero se non possano mutuarsi istituti già altrove sperimentati con successo, quali un ufficio del difensore pubblico per gli imputati non abbienti.

 


La riforma dell’ordinamento giudiziario

 

1) La situazione attuale -  Il tema della riforma dell’ordinamento giudiziario è stato al centro dell’interesse e del dibattito politico dall’inizio della legislatura in corso, ma in realtà anche in questo caso l’impostazione che comunemente gli è stata data appare errata e,  per certi versi, ingiusta in quanto è stato presentato all’opinione pubblica come una vera e propria “emergenza”, da affrontare prioritariamente per risolvere i problemi della giustizia, laddove così non è perché le disfunzioni principali oggi riscontrabili risiedono in ben altro, e principalmente nella farraginosità delle norme di procedura, specie penale, sulle quali ci si è in precedenza soffermati, che nulla hanno a che fare con le regole che disciplinano la carriera e lo status dei magistrati, e nella cronica carenza di mezzi e strutture che anche oggi, lungi dall’essere rimossa, appare addirittura accentuata.

In realtà, a ben vedere, occorre innanzitutto sottolineare che l’attuale ordinamento giudiziario è impostato su cardini fondamentali assolutamente apprezzabili e conformi ai canoni costituzionali, incentrati sul riconoscimento del valore dell’indipendenza della magistratura e della pari dignità delle funzioni (che del primo è in realtà un sostanziale corollario) come principi essenziali, e sulla valorizzazione del C.S.M., in quanto organo anch’esso autonomo e indipendente, come garante della concreta applicazione di essi.

Da tutto ciò è derivata, nel corso degli anni, una positiva “tenuta” istituzionale della magistratura sotto ogni profilo, compreso quello di una diffusa professionalità invece troppo spesso negata, pur fra innumerevoli difficoltà di ordine normativo e strutturale che hanno costituito la vera causa delle disfunzioni dell’amministrazione della giustizia che invece, con operazione resa agevole dalla situazione dei rapporti tra politica e magistratura cui si è già fatto riferimento, sono state addebitate a responsabilità di giudici e di pubblici ministeri, nonché del loro organo di autogoverno.

Non si intende negare, ovviamente, la possibilità di migliorare la disciplina e le regole vigenti anche in materia di ordinamento giudiziario; ciò che si intende, e fermamente, negare è che la situazione al riguardo sia tale da richiedere una vera e propria “rivoluzione” nei principi e nelle applicazioni concrete oggi vigenti, così come emerge invece dal noto disegno di legge governativo in materia e, soprattutto, dal recente c.d. “maxiemendamento” ad esso, che costituisce una netta inversione di tendenza rispetto al contenuto di alcuni emendamenti che il ministro della giustizia aveva presentato dopo il serrato confronto con l’A.N.M. svoltosi lo scorso anno, e propone soluzioni assolutamente inadeguate e foriere, in prospettiva, di ulteriori inefficienze.

 

2) Separazione delle funzioni o delle carriere - Il primo punto da affrontare è quello della separazione delle funzioni o delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, con riferimento al quale è necessario considerare in maniera ragionevole e libera da pregiudizi alcuni profili che non sempre hanno avuto il necessario approfondimento.

Il primo aspetto da chiarire è quello della differenza delle attitudini che occorrono per svolgere l’una o l’altra funzione, che costituisce oggetto di affermazioni abitualmente troppo nette rispetto alla realtà della situazione. E’ infatti facile constatare che, a fronte della ripetuta declamata affermazione che si tratterebbe di “lavori diversi” per i quali sarebbero necessarie persone dalle differenti caratteristiche e dalla differente professionalità, non si mai sentito specificare quali siano in concreto tali differenze attitudinali. Lo stesso “maxiemendamento”, nel prevedere un concorso di accesso sostanzialmente diverso per chi intenda cominciare a svolgere l’una o l’altra funzione, basato su prove d’esame diversificate, non fornisce la minima indicazione su quali dovrebbero essere le prove specifiche esclusive dell’uno o dell’altro concorso, ed eguale omissione si riscontra, nel medesimo testo, con riferimento all’esame che è previsto per il passaggio dall’una all’altra funzione nel corso della carriera del magistrato.

Tutto ciò non è senza ragione perché ad un’analisi appena un po’ più approfondita diventa estremamente difficile individuare differenze significative tra i due ideali profili professionali, mentre si evidenziano facilmente i moltissimi punti di contatto tra l’esercizio delle due funzioni; comuni, infatti, sono le finalità e i valori sottesi ad esse, improntati al carattere di imparzialità e all’affermazione della verità sostanziale, così come comune è l’estrazione culturale e l’esperienza professionale richiesta indifferentemente a coloro che intendano iniziare la carriera di magistrato, e comuni sono gli strumenti giuridici e le cognizioni culturali necessari per svolgere sia il ruolo di giudice che quello di pubblico ministero.

Anche a spostare il tema su profili meno generali è davvero difficile in teoria enucleare caratteristiche particolari ed esclusive dell’uno e dell’altro ruolo; è certo, infatti, che sul piano caratteriale non è possibile affermare che l’equilibrio, ad esempio, serve più al giudice che al pubblico ministero, perché è evidente che anche l’esercizio dell’azione penale, le scelte incidenti sulla libertà personale o la funzione di richiesta di pene detentive anche gravissime  devono essere guidate dal massimo di equilibrio possibile, così come non è possibile pensare, ad esempio, che l’approfondimento di tematiche tecnico – probatorie (balistiche, medico legali e simili) sia prerogativa soprattutto del pubblico ministero e non anche del giudice, che in ultima analisi è invece proprio colui che deve valutare e decidere sull’affidabilità e il significato della prova.

La vanità dello sforzo di enucleare differenze attitudinali significative tra i due ruoli è, infine, ancor più clamorosamente dimostrata dalla incoerenza dei possibili strumenti valutativi di esse che sono stati ipotizzati, poiché, ad esempio, non è certo con un esame, scritto e orale, che sarà mai possibile accertare l’intuito investigativo o la capacità di direzione della polizia giudiziaria, che sono gli strumenti normali del lavoro del pubblico ministero, ovvero la capacità di confrontarsi in camera di consiglio e la disponibilità ad ascoltare le diverse ragioni, che costituiscono il metodo ordinario di lavoro del giudice.

In conclusione, seppur anche in questo caso non si intenda negare che talune caratteristiche personali possano talvolta favorire il miglior esercizio dell’una o dell’altra funzione, appare comunque da escludere da un lato che le attitudini necessarie per lo svolgimento di esse non risiedano su basi in larghissima parte comuni e giustifichino quindi una netta separazione tra coloro che le esercitano, già in sede di reclutamento iniziale che in un momento più avanzato della carriera del magistrato, e dall’altro che, anche individuate talune differenze attitudinali, esse possano essere evidenziate da un esame, scritto e orale, così come oggi viene proposto.    

Il secondo aspetto che merita un’attenta puntualizzazione è costituito dal presunto rapporto necessario tra sistema processuale accusatorio e separazione delle carriere, che è spesso affermato senza riserve, e che invece non ha certo il rilievo decisivo che gli si vuole attribuire.

Il processo accusatorio è contraddistinto dal vedere due parti contrapposte dinanzi a un giudice, che deve decidere quale abbia ragione, e al fine di garantire il più efficace accertamento della verità il metodo adottato è quello della formazione della prova nel contraddittorio tra loro, che avviene riconoscendo in dibattimento eguali poteri all’una e all’altra parte. Alla realizzazione ideale di questo schema, che certamente è garantita dalle vigenti norme processuali come già si è osservato, è del tutto ininfluente già sul piano formale la circostanza che una o entrambe le parti siano svolte da liberi professionisti o da pubblici dipendenti,  e che questi ultimi, sul piano amministrativo-burocratico, appartengano allo stesso ruolo a cui appartengono anche i magistrati giudicanti, ovvero ad un ruolo diverso. A chi poi intenda spostare il discorso dal piano formale al piano sostanziale, ritenendo in questa diversa ottica che la comunanza di ruolo e la frequenza di osmosi delle stesse persone dall’una all’altra funzione possono psicologicamente meglio predisporre i giudici nei confronti delle tesi sostenute dalla parte che appartenga alla sua stessa carriera amministrativa piuttosto che alla controparte, può agevolmente rispondersi che rispetto a ciò è comunque indifferente il tipo di sistema processuale scelto, perché il medesimo inconveniente potrebbe egualmente verificarsi con riferimento anche ad un sistema non accusatorio, come era quello in uso nel nostro Paese prima del 1989, allorché comunque, sia pur con un diverso metodo di formazione della prova, si confrontavano nel giudizio le tesi contrapposte del difensore e del pubblico ministero.

Poste queste premesse logiche, non trova quindi decisivo fondamento neanche la tesi che il sistema accusatorio richieda necessariamente la separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente, separazione che è in effetti presente nei sistemi giudiziari anglosassoni, ma per la diversa ragione che la discrezionalità dell’azione penale e l’attribuzione della gestione di essa al potere esecutivo postula fisiologicamente che le persone a ciò materialmente addette facciano riferimento a rami dell’amministrazione pubblica diversi rispetto a quello a cui appartengono i giudici.

Sgombrato il campo dalle argomentazioni principali abitualmente poste a sostegno della tesi della separazione delle carriere, che in realtà non sembrano reggere ad un serio approfondimento, è sufficiente qualche più breve osservazione per rendere conto delle ragioni che consigliano, invece, il permanere dell’attuale unicità di carriera amministrativa.

 Il presupposto principale di essa consiste nella circostanza che il pubblico ministero, a differenza del difensore, condivide con il giudice l’atteggiamento mentale e la finalità del processo, costituiti dall’accertamento della verità dei fatti, ovviamente ottenuto mediante il rispetto delle regole per la formazione della prova; ciò distingue il pubblico ministero nettamente dalle parti private, che con lui condividono soltanto il metodo, ovverosia il rispetto delle regole processuali, ma non anche la finalità, costituita invece dal prevalere dell’interesse di parte.

Ciò, di per se, potrebbe essere ancora non decisivo, in quanto dimostrerebbe soltanto la non incompatibilità dell’unicità di carriera, ma non anche la sua opportunità, che invece emerge da altre considerazioni.

La principale di esse è che l’attuale sistema è quello che maggiormente garantisce la possibilità di avere un pubblico ministero che, anche nell’attività investigativa, di ricerca e di valutazione delle prove, sia normalmente portato a ragionare come un giudice, e quindi con la stessa obiettività e imparzialità del giudice, essendo nato ed essendosi  formato professionalmente con i giudici, spesso essendo stato lui stesso giudice prima di essere pubblico ministero, o con la prospettiva di poterlo diventare facilmente in futuro; è l’osmosi ordinaria fra i due ruoli ciò che garantisce il permanere in tutti i magistrati, indifferentemente, di quel comune sentire che viene abitualmente riassunto con l’espressione “cultura della giurisdizione”, che indica semplicemente la propensione, quale che sia il ruolo svolto, alla ricerca della verità e non all’affermazione di un interesse di parte.

 Deve anche osservarsi che la creazione, in alternativa, di un ruolo di pubblici ministeri sostanzialmente chiuso all’osmosi con quello dei magistrati giudicanti, confinerebbe i primi all’interno di un circuito solo autoreferenziale, nel quale potrebbero più facilmente di oggi prevalere atteggiamenti mentali e comportamenti concreti meno conformi ai valori dell’obiettiva e attenta valutazione delle prove anche ai fini delle decisioni da assumere nel corso delle indagini preliminari o in occasione dell’esercizio delle funzioni requirenti; concreto, in altri termini, sarebbe il pericolo del diffondersi e del prevalere del modello peggiore di pubblico ministero, fortunatamente oggi solo marginale, propenso a confondere la teoria dell’investigazione con quella della prova, e incapace di valutare con il necessario senso critico la portata di eventuali elementi di accusa valorizzati dalle parti private o dalla polizia giudiziaria.

 In conclusione, l’unico intervento di modifica dell’ordinamento giudiziario che appare opportuno in tema di rapporto tra le funzioni di giudice e quelle di pubblico ministero sembra essere l’istituzione di una forma ragionevole di incompatibilità logistica a svolgere l’una successivamente all’altra nella medesima sede, che nel disegno di legge di riforma è individuata nell’incompatibilità distrettuale, che in realtà appare esagerata e il più delle volte inutilmente punitiva per i magistrati, non derivandone alcun beneficio concreto nel sistema.

 Infatti già cambiando tribunale, e quindi operando la diversa scelta dell’incompatibilità circondariale, sono rimossi tutti gli inconvenienti che si tende ad evitare: in un altro tribunale sono diversi i giudici, i pubblici ministeri e gli avvocati, sono diverse le autorità civili locali ed è diverso l’ambiente sociale, e quindi non vi è di regola alcun pericolo di interferenze e lesioni d’immagine.

 Addirittura sul piano delle distanze territoriali è del tutto casuale che un tribunale sia più vicino ad un altro del medesimo distretto ovvero ad altro del distretto viciniore: ciò è la conferma del fatto che la scelta del criterio dell’incompatibilità distrettuale non è supportata da alcuna ragione più valida dell’alternativa scelta dell’incompatibilità circondariale, ad eccezione che per alcune funzioni particolari per le quali l’incompatibilità distrettuale potrebbe invece apparire opportuna. Sono, tali funzioni, tutte quelle che riverberano effetti della loro competenza sugli uffici giudiziari dell’intero distretto, e quindi, ad esempio, le funzioni di giudice d’appello e di pubblico ministero dinanzi alla corte d’appello, e quelle di procuratore della repubblica dell’ufficio situato nel capoluogo del distretto (quest’ultimo in virtù del ruolo di responsabile della Direzione Distrettuale Antimafia, che ha competenza distrettuale).

 La soluzione ideale, pertanto, potrebbe consistere nell’incompatibilità distrettuale per le sole funzioni che in qualche modo la giustifichino, e nell’incompatibilità circondariale per tutte le altre.

 

3) La carriera dei magistrati - Lo sviluppo giuridico della carriera dei magistrati, così come oggi è delineato dall’ordinamento giudiziario, presenta in effetti alcuni caratteri anacronistici che dovrebbero essere modificati per recuperare maggior razionalità ed efficacia.

In particolare ormai superata e priva di coerente giustificazione è l’attribuzione, solo nominale, di qualifiche astratte per i magistrati, che suscitano confusione perchè in realtà sottendono esclusivamente un giudizio di idoneità a ricoprire in futuro determinate funzioni.

Sarebbe quindi opportuno, per eliminare ogni equivoco ed anche per rimarcare l’indipendenza tra le funzioni esercitate in concreto ed il livello retributivo riconosciuto al magistrato (applicazione necessaria del principio di pari dignità delle funzioni), eliminare le qualifiche astratte e riconoscere al magistrato, nell’ambito di una sola qualifica perdurante per tutta la carriera, scatti retributivi periodici non automatici, ma vincolati ad una valutazione positiva del C.S.M. circa il merito dell’attività da lui svolta nel periodo antecedente, consentendogli la possibilità di accesso concreto alle funzioni di grado superiore decorso un numero predeterminato di anni di servizio.

 In tal modo, oltre alla rimozione delle facile ironie e delle possibili confusioni e strumentalizzazioni che oggi spesso si riferiscono all’attuale situazione, sarebbe possibile aumentare il numero delle valutazioni di ogni magistrato nel corso della carriera ricollegandole allo scadere del periodo per ottenere il nuovo scatto di anzianità (ad esempio ogni tre o quattro anni), si sottrarrebbero i momenti di valutazione all’iniziativa del magistrato (che oggi, oltre ai pochissimi previsti per i passaggi di qualifica, sono attivati soltanto se egli ritenga di chiedere il trasferimento ad altro ufficio), e si eliminerebbe ogni profilo di automaticità tra il semplice scorrere del tempo e l’aumento di retribuzione, che sarebbe invece chiaramente ed ineludibilmente ricollegato al risultato positivo della valutazione.

 

4) La valutazione dei magistrati - I criteri concreti di valutazione della professionalità dei magistrati costituiscono l’oggetto forse principale del “maxiemendamento” al disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, che risolve l’annoso problema sostanzialmente con un’unica soluzione, costituita dall’esame, generalmente scritto e orale, che il magistrato dovrebbe superare dinanzi ad una commissione esterna al C.S.M., sia pur da esso nominata, al fine di ottenere il trasferimento a funzioni di grado superiore, ovvero a funzioni direttive, ed anche, come già si è ricordato,  per ottenere il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa.

L’esame teorico, come metro di valutazione della professionalità di magistrati già in carriera da anni, con alle spalle centinaia di sentenze scritte, di provvedimenti assunti, di indagini svolte o di requisitorie presentate, è il  metodo peggiore di valutazione che si possa adottare, perché nulla riflette del passato del magistrato e nulla garantisce circa il suo futuro; esso, infatti, in virtù dell’astrattezza che lo contraddistingue, può essere accettato come unico metro di valutazione possibile solo per chi si appresti ad iniziare una carriera e non abbia quindi fino a quel momento potuto fornire prove concrete di sé che possano costituire strumenti utili di giudizio, ma è estremamente incoerente per la valutazione di chi invece prove simili ne abbia fornite in quantità e per molto tempo, e può risultare negativo per gli interessi generali  (oltre che ingiusto per l’interesse particolare dell’esaminando) perché, in virtù della sua intrinseca aleatorietà, può ribaltare gli esatti giudizi che dovrebbero invece trarsi dal “vissuto” professionale dei magistrati eventualmente in concorso tra loro per l’attribuzione di determinate funzioni.

Le considerazioni appena espresse, insieme con gli ulteriori argomenti che ormai da tempo hanno fatto abbandonare il metodo dell’esame teorico come strumento di valutazione e di concorso per magistrati già in carriera (che vanno dalla spinta al conformismo interpretativo della legge fino alla ricerca di uffici “comodi” che consentano di studiare più che di lavorare), inducono ad abbandonare subito tale soluzione per ricercarne altre più adeguate in tema di valutazione della professionalità dei magistrati, con la precisazione che anche in questo settore dell’ordinamento giudiziario è doveroso considerare che la situazione esistente, sia pur suscettibile di miglioramenti, non è così negativa da giustificare modifiche rivoluzionarie, come spesso viene invece sostenuto. 

In realtà, obiettivamente ragionando, le attuali regole in materia di valutazione dei magistrati elaborate dal C.S.M., che sostanzialmente hanno portata generale sia per i giudizi finalizzati alla progressione in carriera pura e semplice, sia per l’espletamento delle procedure concorsuali per i trasferimenti ai diversi uffici, contemplano praticamente tutti i parametri attendibili e tutte le più plausibili fonti di informazione; è certo possibile ancora migliorarle ( ad esempio elaborando dei criteri di valutazione statistica più uniformi e ponderati degli attuali, prevedendo corsi di formazione sempre più approfonditi per la preparazione alle diverse funzioni, e consentendo con le dovute garanzie l’acquisizione di ogni fonte informativa utile), ma, realisticamente, ciò che può davvero migliorare la situazione in maniera determinante è soltanto l’espletamento in modo sempre più attento, scrupoloso e, se necessario, coraggioso del compito di valutazione da parte di tutti i soggetti caso per caso chiamati a prendere parte alla procedura progressiva di giudizio, a partire dal dirigente dell’ufficio, per continuare con il Consiglio Giudiziario competente ed infine con lo stesso C.S.M..  

Con riferimento all’organo di autogoverno occorre oggi osservare che è proprio il suo ruolo che verrebbe drasticamente intaccato dal complesso delle soluzioni contenute nel ”maxiemendamento” che, in un colpo solo, lo priverebbero praticamente di ogni compito sostanziale, in particolare escludendo la sua competenza (trasferita alle commissioni di concorso)  in tema di trasferimento alle funzioni di grado superiore, assegnazione di incarichi direttivi e passaggio dalla funzione giudicante e requirente e viceversa, sottraendogli (come si vedrà in seguito) il compito di tirocinio e formazione dei nuovi magistrati e di aggiornamento di quelli già in servizio, ed escludendo la sua competenza per i trasferimenti d’ufficio determinati da incompatibilità ambientale.

Il Consiglio Superiore della Magistratura è organo di rilevanza costituzionale autonomo e indipendente da ogni potere dello Stato, pluralisticamente composto anche con una rilevante presenza di componenti scelti dal Parlamento,  e soprattutto presieduto dalla più alta carica dello Stato, il Presidente della Repubblica, garante delle istituzioni democratiche. E’ quindi il C.S.M., proprio per la sua natura e composizione, anche indipendentemente dal ruolo che formalmente gli è attribuito dalla Costituzione a questo riguardo, il più legittimato a gestire la carriera dei magistrati, ben più di qualsiasi commissione, comunque costituita, e di qualsiasi altro organismo parallelo a cui si voglia pensare.

Naturalmente, anche in questo caso non si intende sostenere che il C.S.M. sia organismo ideale, immune da difetti e non perfettibile (si pensi solo al sistema elettorale della componente togata, modificato da una delle poche leggi in materia di giustizia approvate dall’attuale legislatura, che ha abbandonato il metodo proporzionale dichiarando l’intento di “smantellare” così il potere delle correnti, ed invece paradossalmente esaltando l’influenza tra l’altro solo di alcune di esse, quelle maggioritarie e comunque più organizzate). Ciò che si vuole sostenere è che, pur con i suoi difetti, nessuno ha ancora individuato nulla di meglio del Consiglio Superiore della Magistratura per assicurare ad ogni magistrato la  libertà da preoccupazioni di illecite  interferenze sulla sua carriera, e consentirgli di assumere le sue decisioni anche nei confronti dei c.d. “potenti” senza doversi preoccupare delle ripercussioni che potrebbero derivarne per il suo futuro professionale.

 

5) La formazione dei magistrati -  Il tirocinio e la formazione dei nuovi magistrati, nonché l’aggiornamento di quelli già in servizio, è compito oggi svolto in modo apprezzabile dal C.S.M. che, nel silenzio della legge e nella carenza assoluta di mezzi e strutture apposite, si è assunto tale oneroso incarico ormai da anni con risultati davvero apprezzabili.

Il testo originario del disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario prevedeva l’incomprensibile attribuzione di tale compito alla  Corte di Cassazione, soluzione che era stata abbandonata dallo stesso Ministro della Giustizia che, in sede di primi emendamenti conseguenti al confronto con l’A.N.M. dello scorso anno, aveva modificato la proposta prevedendo una scuola di formazione autonoma.

Questa impostazione, in linea di principio, può risultare accettabile e non è mai stata esclusa dall’A.N.M., ma a determinate condizioni che richiederebbero consistenti modifiche del testo proposto sotto vari aspetti.

In primo luogo occorrerebbe recuperare al C.S.M., nella sua qualità di organo di autogoverno della magistratura, un ruolo più incisivo, sia in fase di formazione del comitato direttivo della scuola, sia in sede di redazione dei piani di studio e dei programmi concreti operativi.

In secondo luogo criticabile appare l’impostazione generale che sembra improntare tale profilo del disegno di riforma, poiché la previsione dello sviluppo della formazione mediante corsi  di due mesi da ripetere non prima di tre anni, finalizzati ad ottenere una sorta di attestazione di idoneità necessariamente preliminare alla partecipazione ai tanti concorsi previsti per i diversi tipi di trasferimento, snatura completamente il suo ruolo, trasformando la formazione da momento di affinamento e diffusione di cultura giuridica e di esperienza giudiziaria in una sorta di “fabbrica di diplomi”, col rischio evidente di degradarla ad uno dei tanti momenti burocratici che integrano quella vera e propria “corsa ad ostacoli” che diventerebbe lo sviluppo della carriera dei magistrati, in base al complesso delle nuove soluzioni proposte.

Infine, ed è novità del “maxiemendamento”, certamente mal coordinata con gli istituti già vigenti risulta la costruzione della nuova struttura didattica nella parte in cui prevede la partecipazione ai corsi anche di aspiranti avvocati, oltre che di aspiranti uditori giudiziari.

In prospettiva futura, oltre alle osservazioni già svolte, al fine di migliorare ancora il già soddisfacente livello attuale della formazione e dell’aggiornamento dei magistrati occorrerebbe rendere obbligatoria per tutti i magistrati la partecipazione ai corsi, mirando sempre più la loro struttura all’esercizio delle diverse e particolari funzioni, ad esempio quelle direttive, fornendo agli aspiranti ad esse o a coloro che già le esercitino soprattutto  gli strumenti di conoscenza necessari di più difficile acquisizione individuale.

 

6) La retribuzione dei magistrati -  Alcune osservazioni merita anche la questione relativa alla retribuzione dei magistrati che, pur non rientrando propriamente nella materia dell’ordinamento giudiziario, ha ormai assunto e sempre più va assumendo connotati che la ricollegano strettamente ai temi dell’indipendenza della magistratura  e dell’efficienza dell’attività giudiziaria.

E’ risaputo, infatti, e non necessita di alcuna dimostrazione positiva che le retribuzioni della magistratura ordinaria hanno sempre più perso valore effettivo nel corso degli anni, senza che si sia a ciò posto rimedio, ed anzi dando l’impressione in ogni occasione di voler adottare soluzioni addirittura punitive sotto ogni profilo; ultimo esempio, di questi giorni, è addirittura la contestazione ad opera del Ministero dell’Economia delle modalità di calcolo già in passate accolte per determinare la percentuale di adeguamento automatico rapportato all’aumento delle retribuzioni di alcune categorie di dipendenti dello Stato, per ripiegare su altre modalità di calcolo più favorevoli per l’erario.

A ciò si aggiunga che si è ingiustificatamente accentuato il divario retributivo tra la magistratura ordinaria e le magistrature amministrative, che reca ormai un segno negativo inaccettabile per i magistrati ordinari, penalizzati forse dal numero, forse dall’atteggiamento di sfiducia apparso manifesto nei loro confronti da larga parte del mondo politico.

Non è questa la sede per addentrarsi in disquisizioni tecnico – contabili e in complessi calcoli comparativi, ma è invece questa la sede per qualche opportuna puntualizzazione di metodo e di principio.

L’elevato livello della retribuzione di una categoria professionale è indice del suo prestigio e della considerazione di cui gode, e pertanto deprimere il livello retributivo dei magistrati è indice sicuro della volontà di deprimere il prestigio della categoria professionale e la considerazione di cui deve godere, anche agli occhi della pubblica opinione.

L’elevato livello della retribuzione di una categoria professionale, in quanto fondamentale incentivo a farne parte per i migliori esperti del settore, è indice della volontà di mantenerne elevato il livello qualitativo, e quindi deprimere tale livello è indice sicuro della volontà di deprimere la qualità professionale della categoria nel suo complesso.

L’elevato livello generale della retribuzione di una categoria professionale stimola l’orgoglio e l’impegno di tutti coloro che vi appartengono, indifferentemente, ben più di qualsiasi premio particolare e contingente riservato a pochi e particolari ruoli o posizioni, e quindi costituisce l’incentivo ideale per favorire il miglior livello medio professionale, senza alimentare i germi del “carrierismo”, inteso nella sua più deleteria accezione.

 E’ necessario, in conclusione,  in questo settore che si ponga mano rapidamente innanzitutto ad interventi perequativi della retribuzione dei magistrati ordinari rispetto a quella delle altre magistrature,  e quindi che si proceda ad un opportuno adeguamento generale che consenta alla magistratura di ottenere il livello retributivo effettivo consono al ruolo svolto e alla considerazione della quale è necessario che essa goda.

       


Il processo civile e le esigenze di riforma

 

1) L’efficienza del processo civile  - Alla base della crisi del processo civile, unanimemente avvertita, vi è soprattutto una situazione di inefficienza del sistema processuale, che si traduce in una durata dei giudizi eccessiva e inadeguata rispetto all’esigenza di fornire tempestiva risposta alla complessiva domanda di giustizia.

Il tema dell’efficienza del processo è però strettamente collegato a quello della professionalità del giudice e della qualità della elaborazione giurisprudenziale.  La capacità professionale del giudice deve infatti coniugarsi con la tempestività dei provvedimenti, ma l’efficienza del sistema processuale deve essere valutata in un contesto che tenga adeguatamente conto  delle capacità tecnico-professionali che la magistratura è in grado di esprimere.

Non è sufficiente che il giudice faccia presto, ma è necessario che decida tempestivamente e correttamente, perché una decisione tempestiva, ma sbagliata è sintomo d’inefficienza al pari di una sentenza esatta, ma tardiva e perché sul terreno dell’esercizio della giurisdizione, della composizione dei conflitti individuali e sociali, della tutela dei deboli, del controllo sull’agire dei gruppi di potere, non ci si può accontentare del meno peggio, ma si deve poter pretendere il meglio.

 

2) L’istituzione dell’ufficio del giudice  - La professionalità è però anche alla base della responsabilità che la magistratura deve assumere di fronte alla società civile in relazione al proprio operato. Infatti, in tanto ciascun magistrato e la magistratura nel suo complesso possono farsi carico del risultato del proprio agire, in termini di efficienza del processo e di qualità della giurisprudenza, in quanto dispongano istituzionalmente di strumenti per sempre meglio affinare le qualità professionali dei singoli e si possano avvalere di utili risorse di collaborazione e di adeguate strutture di supporto.

Ecco perché si impone oggi il rilancio del tema dell’istituzione dell’ufficio del giudice e della complessiva dignità della funzione del magistrato, anche nei suoi aspetti materiali e di apparenza, argomenti su cui solo oggi si torna a riflettere con attenzione e con preoccupazione, ma che la magistratura associata, almeno in alcune sue componenti, ha per troppo tempo sottovalutato.

Non si tratta di riconoscere ai giudici un prestigio meramente formale o di attribuire loro ingiuste situazioni di privilegio, ma di far fronte al disagio reale di una categoria, che avverte la sensazione di operare in un contesto di incomprensione e di isolamento e tocca con mano, quotidianamente, l’attuale inadeguatezza del proprio concreto agire di fronte all’esigenza di giustizia nel nostro paese.

 

3) Le prospettive di riforma - Il processo civile è oggetto attualmente di un ampio progetto riformatore, solo parzialmente attuato, che si articola su tre direttrici fondamentali:

a)      l’emanazione del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, recante definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in  materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’art. 12 della legge delega per la riforma del diritto societario, 3 ottobre 2001, n. 366;

b)      la predisposizione, da parte di apposita commissione ministeriale, di  un articolato di legge delega per un ampio e organico riesame della vigente normativa processuale civile, volto a realizzare la razionalizzazione e l’effettiva accelerazione delle procedure, nonché ad introdurre una disciplina più moderna e funzionale del processo, anche con riguardo all’esecuzione e all’adozione di forme alternative di definizione delle controversie;

c)      la predisposizione di un disegno di legge recante “Modifiche urgenti al codice di procedura civile” approvato dal Consiglio dei ministri nella seduta del 21 dicembre 2001, attualmente in discussione al Senato previa unificazione con progetti di legge già pendenti, avente ad oggetto la modifica di specifiche disposizioni del codice di procedura civile e l’introduzione di nuove norme in ordine a taluni particolari istituti.

 

4) Il nuovo diritto processuale societario - Il decreto legislativo 5/2003 contiene un testo normativo caratterizzato, secondo quanto ci avverte la relazione ministeriale illustrativa, da spiccata autonomia funzionale e basato su di una normativa autosufficiente, soltanto residualmente integrabile con la normativa generale del codice di rito, del quale il decreto delegato presuppone di regola le disposizioni generali del libro primo e quelle del processo di esecuzione (v. art.1, 4° comma), riformulando invece la disciplina del processo di cognizione  (libro II) e di alcuni procedimenti speciali (libro IV).  Inoltre la disciplina contenuta nel decreto delegato si caratterizza per una peculiare connotazione oggettiva in ordine alla natura delle cause sottoposte alla speciale procedura, riguardanti le controversie societarie, i rapporti in materia di intermediazione mobiliare, investimento e strumenti finanziari e quelli in materia creditizia, quando si tratti di controversia promossa da una banca nei confronti di altra banca ovvero da o contro associazioni rappresentative di consumatori e camere di commercio. 

L’altra connotazione peculiare è la composizione collegiale dell’organo giudicante  (il tribunale) eccezion fatta per le controversie in materia creditizia e bancaria.

 

5) La preparazione della causa - Particolari considerazioni merita la disciplina della fase preparatoria del processo, prevista sempre dal decreto legislativo 5/2003 e che con le stesse modalità sembra ispirare l’articolato di legge delega per la riforma organica della vigente normativa processuale civile.

E’ opportuno tener presente la filosofia di fondo che ispira, sotto tale peculiare profilo, la riforma.

Premesso che l’obiettivo perseguito è quello di porre rimedio all’eccessiva durata del processo, all’eccesso di formalismo, all’inadeguata effettività delle pronunce, la riforma delineata è incentrata sulla rivisitazione critica del ruolo del giudice nel processo civile, che si ritiene essere attualmente gravato da incombenti meramente ordinatori ed impegnato in udienze inutili, destinate ad allungare e irrigidire i tempi del processo.

Si è pensato così di razionalizzare la dinamica del processo, attraverso la delega alle parti dell’attività istruttoria e l’intervento del giudice nella fase decisoria, oltre che su specifiche istanze istruttorie formulate in relazione al materiale documentale avanzato.

La fase preparatoria del processo viene quindi collocata fuori dall’udienza e affidata alla trattazione scritta delle parti mediante scambio di atti e repliche, con esclusione della collaborazione del giudice nella definizione dell’oggetto del giudizio.

La soluzione proposta non convince.

Nel processo civile è necessario che il giudice sia vigile e protagonista nella sua funzione di controllo e di indirizzo, a garanzia del rispetto delle regole processuali nei confronti di tutte le parti. L’esito della causa civile, infatti, dipende in buona parte dalle modalità di impostazione della domanda e dell’attività istruttoria.

I tempi lunghi del processo non nascono dalla necessità del giudice di svolgere l’istruttoria, ma dalla necessità di svolgerla, troppo frequentemente, su prove inutili o sproporzionate rispetto alle finalità perseguite, su domande prima facie inammissibili e infondate, su ingiustificate richieste di misure cautelari, con le quali spesso si accompagna la proposizione della domanda secondo il rito ordinario.

Tutto questo avviene perché il controllo del giudice sulla formazione degli atti processuali non può concretamente operare, a causa dello stato di disordine e di confusione in cui, per prassi, si svolgono le udienze istruttorie e per la mancanza di validi e preparati collaboratori che affianchino il giudice nella conduzione delle udienze, nella gestione dei fascicoli e nell’attività di studio, ricerca e documentazione, necessaria per una consapevole trattazione della causa.

La razionalizzazione del processo, attuata attraverso la collocazione della fase preparatoria fuori dall’udienza, difficilmente potrà risolvere il problema dell’efficienza della giustizia civile.

Rimane insoluto, infatti, il problema del divario numerico tra sopravvenienze e processi definiti, che costituisce invece la fondamentale causa della crisi della giustizia civile.

C’è il rischio che la riforma, così concepita, finisca per far gravare sui giudici una mole di fascicoli processuali spesso ingovernabili, per la presenza - inevitabile in ragione del più ampio esercizio del diritto di difesa e dei poteri di tutela degli interessi delle parti - di domande inutili o strumentali, sulle quali si sarà sviluppata un’attività istruttoria non sempre necessaria e adeguata, in relazione alle quali il giudice dovrà comunque motivatamente pronunciarsi, intervenendo su di un corpo di atti e documenti processuali a lui estraneo, per la cui conoscenza e comprensione avrà inevitabilmente necessità di tempo. Il rallentamento del flusso processuale, la cui causa oggi si individua nello svolgimento dell’attività istruttoria, si verificherà, una prima volta, nel momento in cui dovrà emesso il decreto di fissazione dell’udienza e poi in quello della  decisione, se il giudice, come sembra, continuerà a restare solo nel suo rapportarsi alle carte processuali, senza strumenti adeguati e senza collaborazione.

 

6) La necessità di riduzione del carico processuale e di maggiore rapidità della procedura  - Sono necessari invece strumenti di deflazione del carico processuale, attraverso il potenziamento dei modelli alternativi di risoluzione precontenziosa delle controversie e l’aumento della competenza per valore del giudice di pace, e di attenuazione,  almeno in alcuni modelli di rito processuale, del principio dispositivo, che attribuisce alle parti il potere di modulare secondo le loro personali esigenze i tempi della dialettica processuale e priva il giudice di poteri d’intervento di ufficio, anche in ordine alla possibilità di preliminare e immediata valutazione della fondatezza della domanda, in un contesto, comunque di maggiore rapidità e minor formalismo nella comunicazione degli atti processuali.

La strada da seguire e da potenziare è quella delineata, sotto altri aspetti, dallo stesso decreto legislativo 5/2003, che presenta alcune positive innovazioni, quali:

1)      la semplificazione delle comunicazioni processuali tra difensori, o tra ufficio di cancelleria e difensori;

2)      la pronuncia della decisione attraverso la sentenza con motivazione immediata;

3)      la previsione di un procedimento sommario di cognizione limitatamente alle  cause aventi ad oggetto pagamenti di denaro o consegna di cose determinate, che può sfociare in una pronuncia di condanna immediatamente esecutiva, che tuttavia, se non impugnata, non acquista efficacia di giudicato;

4)      la regolamentazione di un procedimento cautelare ante causam non seguito necessariamente dal giudizio di merito e la previsione di un procedimento cautelare in corso di causa, suscettibile di trasformarsi, su impulso di ufficio del giudice designato, in un giudizio di cognizione ordinario abbreviato;

5)      la disciplina di un procedimento di conciliazione stragiudiziale, davanti a organismi  iscritti in un  apposito registro tenuto presso il Ministero della giustizia.

 Si tratta di innovazioni che possono essere introdotte nel sistema processuale generale attualmente vigente, in funzione di una trattazione della causa più efficiente e rapida.

 

7) Ulteriori interventi di riforma - Nella stessa direzione si pone, sotto molti aspetti, il disegno di legge recante modifiche urgenti al codice di procedura civile e attualmente in discussione alla Camera, la cui dichiarata finalità è quella, in attesa di una complessiva riforma, di superare formalismi e rigidità attualmente esistenti e di rimuovere ostacoli all’efficienza del processo.

Vanno positivamente apprezzati in particolari gli interventi in materia di:

a)      aumento della competenza del giudice di pace;

b)      potenziamento della funzione definitoria della controversie attribuita alle  ordinanze ex artt. 186 ter e 186 quater c.p.c.;

c)      semplificazione del sistema di notificazione da eseguirsi alle persone giuridiche;

d)      semplificazione delle modalità di intimazione dei testi;

e)      adeguamento del limite di valore per l’ammissibilità della prova testimoniale;

f)        potenziamento del regime di responsabilità ex art. 96 c.p.c.;

g)      valutazione, ai fini del regime delle spese e della responsabilità aggravata, del  comportamento della parte che non abbia agevolato la conciliazione della lite;

h)      regolamentazione del potere inibitorio del giudice di appello in funzione non solo  del periculum in mora, ma anche del fumus boni iuris.

Suscitano perplessità, invece, l’introduzione dell’obbligo di specifica motivazione sulla compensazione delle spese, che finirebbe per costituire motivo di incremento delle impugnazioni anche per controversie sostanzialmente definite nel merito, e il potenziamento delle procedure di definizione arbitrale, che sono di elevato costo per gli utenti e la cui concreta utilizzabilità è subordinata a limitazioni e condizionamenti di tipo  economico.

 

8) Il regime delle impugnazioni - Anche l’attuale regime delle impugnazioni costituisce un ostacolo alla complessiva efficienza del processo civile.

In una valutazione di economicità dei risultati da conseguire, si può dubitare della convenienza di assicurare, anche per controversie di modesto valore, il doppio grado di giudizio di merito.

Il termine lungo di impugnazione ha una durata eccessiva e non più adeguata alle esigenze di speditezza e di ragionevole durata del processo.

Il ricorso per cassazione deve essere caratterizzato per il rigoroso rispetto dei presupposti del giudizio di legittimità per violazione di legge e per motivazione mancante o meramente apparente, in un contesto di rivalutazione della funzione nomofilattica, che può essere favorita dalla previsione dell’obbligatoria formulazione nel ricorso, a pena di inammissibilità, di un quesito di diritto  e del vincolo delle sezioni semplici al precedente fissato dalle sezioni unite, fatta salva la possibilità di reinvestire della questione le stesse sezioni unite con ordinanza motivata, che dia conto del dissenso del collegio rispetto al precedente che si ritiene di non applicare.

E’ necessario altresì, anche in funzione di riduzione del carico delle sopravvenienze, stabilire normativamente specifiche ipotesi di limitazione del sindacato sulla motivazione in fatto, impedendo che il giudizio di legittimità si risolva in un riesame del merito della controversia.

Non sembra recepire tale esigenza la previsione, contenuta nello schema di articolato di legge delega, di limitare “ai fatti controversi” la deducibilità del vizio di motivazione, previsione che non è sufficiente per escludere il pericolo che il processo di legittimità si trasformi un giudizio di merito di terzo grado. 

 


 

La giustizia minorile e della famiglia

 

1) Le proposte di riforma - Come è noto, il 7 marzo u.s. il Consiglio dei Ministri ha approvato le proposte di modifica al testo unificato in discussione alla commissione Giustizia della Camera dei Deputati, concernente “Misure urgenti e delega al Governo in materia di diritto di famiglia e dei minori”.

Si tratta di un ennesimo tentativo di riforma in un settore nel quale fino ad oggi non si è riusciti a intervenire in maniera organica, eccezion fatta per il ristretto ambito dell’adozione con la legge n.149/2001, peraltro non ancora entrata in vigore nella parte procedimentale per mancanza di norme di coordinamento, ma ancor più per motivi finanziari connessi alle spese rilevanti che comporterebbe il patrocinio a spese dello Stato nei vari procedimenti riguardanti persone per lo più non abbienti.

In effetti in tema di diritto minorile e della famiglia esistono due rilevanti disfunzioni, cui occorrerebbe metter riparo: quella della mancanza totale di norme procedimentali nelle procedure attinenti alla potestà genitoriale, e quella della ripartizione delle competenze fra Tribunale per i Minorenni, Tribunale ordinario e giudice tutelare.

Purtroppo anche in questo settore il giudizio da dare alle proposte di riforma avanzate è negativo, poiché nessuna di esse va incontro alle esigenze effettive appena ricordate, per seguire invece altri orientamenti assolutamente discutibili in punto di principio, ed anche stavolta ulteriormente disfunzionali.

Abbandonato, infatti, l’originario progetto che prevedeva la soppressione delle competenze civili dei Tribunali per i Minorenni, previa abolizione in seno ad essi della componente privata, si vorrebbero adesso creare – al posto degli stessi tribunali – apposite sezioni specializzate con competenze sia civili che penali “presso tutti i tribunali ove risulti possibile”, disponendo l’itinerarietà dei collegi per le sedi in cui non siano istituite le sezioni specializzate.

Una simile proposta,  per essere operativa, richiederebbe innanzitutto, al posto degli attuali 180 giudici previsti in organico nei 28 tribunali minorili oggi esistenti in Italia, non meno di 500 giudici specializzati in problemi di famiglia, ai quali, peraltro, potrebbero essere devoluti, sia pure “con adeguata motivazione” e sia pure “in casi eccezionali”, anche altri affari civili; ed è facile arguire, data la precarietà e le difficoltà in cui si dibattono ai nostri giorni, specie nelle sedi periferiche, i vari uffici giudiziari, che l’eccezionalità finirebbe per divenire la regola.

Vieppiù problematica appare l’istituzione di una “sezione provinciale itinerante”, che si rivela veramente fuor di luogo allorchè la necessità di economie deve spingere necessariamente a sacrificare i campanilismi locali per accentrare le funzioni nella sede giudiziaria in cui sia possibile svolgerle con il massimo risultato accompagnato dal minor dispendio di energie.

Ed invero, se si vogliono realizzare economie, è indispensabile concentrare la materia minorile e della famiglia in sede distrettuale, allargando le competenze dei tribunali minorili, che hanno dimostrato notevole efficienza pur nella ristrettezza dei mezzi e delle risorse, sia finanziarie che umane.

Ancora più critica appare, nel disegno di legge, la situazione per quanto attiene ai magistrati del pubblico ministero, per i quali ci si limita ad affermare che “le attribuzioni loro conferite dalla legge nelle materie di competenza delle sezioni specializzate sono esercitate da magistrati assegnati all’ufficio specializzato per la famiglia e per i minori costituito presso la procura della repubblica presso i tribunali dove sono istituite le sezioni, cui peraltro “potrà essere devoluta anche altra attività giudiziaria, purchè ciò non comporti ritardo nella trattazione delle controversie previste dalla legge “de qua”.

Il che è particolarmente grave, specie alla luce delle nuove importanti incombenze attribuite da ultimo al pubblico ministero minorile, specificatamente in materia di adozioni; in tal modo, infatti,  l’unico referente per i magistrati del pubblico ministero che dovranno trattare questa delicata materia diverrebbe il procuratore della repubblica presso il tribunale, il quale, preso dalla miriade di problemi attinenti magari a fenomeni di criminalità organizzata o quant’altro, ben poco tempo avrebbe da dedicare a quelli, normalmente sottovalutati, relativi alla giustizia minorile.

E che dire poi della situazione logistica e contingente concernente il reperimento di nuovi locali e ancor più del personale ausiliario e di cancelleria indispensabile per far funzionare la miriade di nuove sezioni istituende?

Il tutto tenendo conto del già ricordato taglio delle spese, che già ora crea non poche difficoltà in un settore in cui diviene sempre più arduo far intervenire quei Servizi socio-sanitari, che sono alla base della politica per il recupero del minore deviante.

Anche il drastico ridimensionamento del ruolo dei magistrati onorari – i c.d. “esperti” – non è condivisibile poichè otterrebbe il risultato di vanificare quella “cultura del minore” che è sempre più oggetto dell’attenzione di psicologi, psichiatri infantili, pedagogisti e così via, dimenticando che compito del giudice minorile deve essere non solo e non tanto quello di accertare un fatto storico, quanto ancor più quello di interpretare comportamenti e situazioni connesse alla funzione genitoriale, alla luce di una pluralità di variazioni ambientali, sociali ed educative che richiedono inevitabilmente diverse competenze.

Infine, al di là dell’impossibilità di reperire in tempi brevi un così alto numero di magistrati quale quello sopra richiamato e dalla difficoltà di superare gli ostacoli di tipo logistico già menzionati, si otterrebbe con una riforma siffatta il deleterio effetto di rallentare il meccanismo in un settore in cui le decisioni non possono ovviamente giungere nei tempi biblici che caratterizzano gli altri uffici giudiziari, essendo un fatto incontestabile e facilmente documentabile che oggi, nel desolato panorama di una giustizia “lumaca”, gli uffici giudiziari minorili sono gli unici capaci di emettere i provvedimenti, siano essi penali o civili, in tempo reale.

Sotto tale profilo è addirittura superfluo sottolineare come sia indispensabile, per predisporre i necessari interventi volti a prevenire altre azioni delittuose, pervenire in tempi brevissimi – come oggi avviene – ad una valutazione della situazione che ha portato il minore a delinquere.

 

2) Le riforme necessarie – In via generale, la prima osservazione da fare è che una riforma davvero efficace per risolvere i problemi della giustizia minorile dovrebbe essere impostata verso lo sviluppo di un compiuto sistema di servizi socio –educativi, reso invece assai più difficoltoso in seguito al massiccio taglio delle spese, che non consente addirittura di poter fare più ricorso alle comunità educative, indispensabili per il recupero e la salvaguardia di tanti soggetti a rischio.

Sul piano del merito, si è già anticipato quali siano i veri problemi da affrontare, costituiti dalla mancanza delle necessarie regole di procedura nel settore civile e dall’attuale frammentazione delle competenze giudiziarie che riguardano sotto qualsiasi aspetto la vita del minore e della famiglia.

Di fondamentale importanza è il primo di siffatti problemi, specie alla luce della rimodulazione dell’articolo 111 della Costituzione e della immediata applicabilità nel diritto interno della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, affermata con una recente sentenza della Suprema Corte che ha posto in luce l’anomalia dell’assenza di qualsivoglia disposizione che garantisca l’applicazione dei principi del giusto processo nei procedimenti di volontaria giurisdizione e contenziosi dinanzi al Tribunale per i Minorenni.

Fino ad oggi i giudici minorili hanno tentato di porre rimedio a questa situazione “inventando”, senza peraltro seguire una linea comune, un rito che garantisca il diritto della difesa e del contraddittorio.

A tale problema viene data una risposta assolutamente insoddisfacente nel terzo dei diversi disegni di legge governativi, attraverso una delega generica contenuta nell’articolo 15 bis, laddove una vera e propria riforma procedurale sarebbe stata – e sarebbe – immediatamente realizzabile in sede parlamentare senza alcun aggravio di spesa per lo Stato.

Per quanto riguarda la razionalizzazione delle competenze oggi frazionate fra tribunale ordinario, giudice tutelare e tribunale per i minorenni, si può solo dire che esse molto più opportunamente potrebbero essere concentrate sotto quest’ultimo organo, previo assorbimento della materia delle separazioni, dei divorzi e delle tutele; il tutto con un minimo incremento di organico, sia dei magistrati che del personale di cancelleria già impiegato dai tribunali ordinari, e oltretutto con l’ulteriore vantaggio dell’assenza di qualsivoglia aggravio sul bilancio dello Stato .