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LE INDAGINI DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA. 

 

            Il terrorismo italiano delle c.d. nuove Brigate rosse affonda le sue radici nel passato, anche se si propone con logiche e strategie adeguate ai mutati scenari politici, economici e sociali.

              Il fenomeno evidenzia chiare connessioni con l’eversione degli anni ’70: basti pensare all’influenza che gli irriducibili ancora in carcere esercitano sui nuovi militanti ed alla copiosa documentazione che presenta ampie analogie con quella degli anni di piombo. 

            I comunicati di rivendicazione degli omicidi D’Antona e Biagi richiamano le linee programmatiche dell’ala militare delle Brigate rosse. 

L’analisi dei documenti ha consentito di indirizzare le indagini verso quei soggetti già evidenziatisi nell’ambito delle inchieste sui Nuclei Comunisti Combattenti e verso quei militanti che, nel rendersi irreperibili, avevano fatto ipotizzare un loro coinvolgimento nelle azioni omicidiarie rivendicate dalle Brigate rosse, anche in considerazione della loro forte determinazione a non rinunciare alla propria identità politica.

              La drammatica sparatoria di Arezzo del 1° marzo scorso ha dimostrato la fondatezza dell’intuizione investigativa nei confronti di Mario Galesi e Nadia Lioce, sulla base della quale la Procura della Repubblica di Roma aveva fin dall’ottobre del 2002 richiesto ed ottenuto i provvedimenti cautelari. 

D’altra parte già in precedenza erano stati individuati e arrestati latitanti di spicco delle BR, come Paolo Persichetti, Leonardo Bertulazzi e Nicola Bortone, quest’ultimo dichiaratosi militante rivoluzionario. 

            L’azione di contrasto si avvale oltre che dei tradizionali strumenti informativi ed investigativi, anche degli istituti introdotti con la normativa antiterrorismo dell’autunno del 2001, con riferimento, in particolare, alle intercettazioni preventive ed alla attività sottocopertura. 

            Le indagini sono nella quasi generalità contrassegnate da percorsi tecnici ben collaudati specialmente per quanto  riguarda l’analisi dei flussi di traffico telefonico. Infatti, come è ampiamente noto, con il supporto di software informatici si riesce ad analizzare un numero indefinito di dati telefonici e quindi ad esaltare quelli ricorrenti.  

Questi dati ricorrenti, sulla base di processi deduttivi logici e di processi investigativi, consentono di incentrare l’attenzione su determinate utenze. 

Vorrei soffermarmi su alcuni casi di positive operazioni basate sui flussi di traffico telefonico. 

            Il primo è l’arresto del latitante brigatista rosso Nicola Bortone, avvenuto in Svizzera nel marzo dello scorso anno. 

            Già arrestato in Francia nel settembre 1989 per associazione  per delinquere e detenzione di armi e munizioni, nell’ambito di una operazione che aveva disarticolato in Italia l’ala militarista delle Brigate rosse, il Bortone fu condannato dal Tribunale di Parigi alla pena di 3 anni di reclusione con obbligo di soggiorno per i successivi anni 3. Rimesso in libertà nell’ottobre del 1992, fece perdere le proprie tracce. 

            All’indomani dell’omicidio del professor D’Antona, commesso nel maggio 1999 e rivendicato dalle Brigate rosse – Partito Comunista Combattente, le indagini furono subito indirizzate anche verso i latitanti “storici” dell’organizzazione. 

            In tale ambito, nell’autunno del 2001 furono attivati, su decreto dell’A.G. di Roma, servizi investigativi diretti al rintraccio del Bortone e di altri militanti da tempo irreperibili.  

            In particolare, per quanto riguarda il Bortone, furono avviate numerose intercettazioni telefoniche a carico dei familiari e di altri soggetti contigui al latitante che non dettero, però, risultati positivi. Successivamente, nel corso di perquisizioni domiciliari di alcuni familiari, residenti nel casertano, furono sequestrate alcune fotografie che raffiguravano il Bortone (riconoscibile nonostante gli anni passati) con una donna e due bambini ripresi in alcune località lacustri. Nella ragionevole supposizione che si trattasse di località straniere, fu chiesta la collaborazione delle polizie francese e svizzera e dopo non poca fatica si raggiunse la quasi certezza che la località delle fotografie fosse Zurigo. Fu allora richiesto alla Svizzera tutto il flusso del traffico telefonico degli ultimi tre anni da Zurigo in entrata nelle località del casertano ove dimoravano i familiari. Il complesso dei dati, benché enorme, fu monitorato e furono estrapolate le telefonate ricorrenti verso lo stesso numero contattato più volte da cabine telefoniche pubbliche di Zurigo. Furono altresì anche individuate le telefonate c.d. gemelle, ossia quelle pervenute allo stesso numero a breve distanza di tempo: la prima di brevissima durata, di una decina di secondi (verosimilmente per fissare l’appuntamento); quella successiva molto più lunga (alcuni minuti). Fu allora (siamo nel gennaio 2002) messo sotto intercettazione il numero ricorrente e avendo nel frattempo accertato che le telefonate provenivano da telefoni pubblici differenti, sebbene concentrati in una zona sufficientemente definita (in proposito furono individuate 11 postazioni telefoniche), la Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione acquisì l’intera mappa della telefonia pubblica di Zurigo, onde predisporre d’intesa con la polizia svizzera, un piano operativo. 

Finalmente, grazie a un piccolo colpo di fortuna, si venne a conoscenza di un appuntamento telefonico fissato per la domenica del 10 marzo dello scorso anno. 

            Con la piena disponibilità e collaborazione della polizia svizzera federale e cantonale, coadiuvata da personale dell’UCIGOS e della Digos di Roma recatosi a Zurigo, vennero piantonate al momento opportuno le 11 postazioni telefoniche precedentemente individuate. 

            All’ora “x” la telefonata avvenne, ma da una postazione diversa da quella piantonata. Grazie alla mappa della telefonia pubblica di cui disponeva l’UCIGOS, venne individuata in poco meno di tre minuti la postazione utilizzata dal Bortone che, ancora fortunatamente, quella volta si stava dilungando nel colloquio col suo interlocutore. 

            Il tempo per un equipaggio già pronto di poliziotti di giungere nel luogo di interesse ed il Bortone fu catturato con la cornetta in mano, ancora il volto incredulo 

            Il Bortone, come si sa, si dichiarò immediatamente militante rivoluzionario e ancora oggi continua a mantenere irriducibilmente le sue posizioni. 

            Altra vicenda che vorrei ricordare è quella dell’utilizzo per la prima volta di una speciale tecnica nell’ambito dell’inchiesta dell’avv. D’Antona, allorché, acquisiti i tabulati dei centralini dei giornali ove erano giunte le telefonate di rivendicazione da parte delle Brigate rosse - PCC, furono individuate le cabine pubbliche delle telefonate in partenza, dove potevano essere utilizzate solo schede prepagate. Con un nuovo e interessante processo tecnico messo in atto dalla Telecom  sfruttando i sistemi programmatici a fini contabili e commerciali, furono individuate due schede telefoniche, utilizzate dai presunti brigatisti. Su queste schede, estrapolate pazientemente tutte le telefonate a cavallo di quelle di interesse, rintracciate e interrogate le varie persone che le avevano fatte, è stato possibile ricostruire un percorso investigativo lungo e tortuoso, ma logico, che ha consentito di mettere da parte numerosi elementi indiziari riferibili a persone definite. 

            La stessa tecnica è stata utilizzata dalla Digos di Roma nell’indagine che ha portato all’individuazione ed all’arresto di tre elementi dei Nuclei Armati per il Comunismo, a cavallo fra l’estate del 2001 e la primavera del 2002, responsabili degli attentati commessi nel 1999 a sedi dei DS (Democratici di sinistra) de La Rustica, di Villa Gordiani e di via Sprovieri nell’ambito della campagna contro l’intervento della NATO nei Balcani e contro la posizione dell’Italia nel contesto bellico di quella zona.

 

            Gli attentati furono tutti rivendicati a nome di differenti sigle con telefonate ad organi di stampa e con volantini di chiara matrice eversiva e di esaltazione degli attentati all’avv. D’Antona, alla sede IAI di via Brunetti e ad una società di lavoro interinale di Ostia.

 

            In queste indagini, una volta individuate le utenze pubbliche dalle quali furono effettuate le telefonate di rivendicazione, è stato acquisito tutto il traffico telefonico originato dalle singole schede prepagate. Seguendo procedure tecniche, accompagnate nella fase di ricostruzione del traffico telefonico da analisi di natura investigativa, è stato possibile individuare i possessori delle diverse schede telefoniche utilizzate per effettuare le telefonate di rivendicazione e, quindi, una serie di soggetti ad essi collegati.

 

            In altre indagini si è fatto uso dell’analisi dei flussi telematici, come in quella concernente la rivendicazione dell’attentato fatto nel giugno 2000 alla sede della CISL di Milano, da parte dei Nuclei Proletari Rivoluzionari. In questo caso sono state sperimentate tecniche di intercettazione parametrica, utilizzando frasi, concetti e linguaggio di macchina (ossia il tipo di strumento utilizzato) all’interno dei flussi di comunicazione transitanti dai provider della rete Internet. Si sono però evidenziate molte perplessità su tali tecniche che tuttavia si ritiene possano riservare in futuro riscontri certi.

 

            D’altra parte sappiano che Internet è divenuto strumento abituale per la diffusione di messaggi eversivi; l’informatica è ormai un modo di organizzarsi e di esprimersi delle formazioni terroristiche, così come l’utilizzo dei “covi“ telematici e, purtroppo, della loro impenetrabilità, come stiamo sperimentando adesso con le indagini in corso.

 

Per quanto concerne le indagini sul terrorismo internazionale, è ancora presto per trarre un bilancio definitivo dell’operazione condotta dalla Digos e dal ROS di Milano, in collaborazione con il Sisde, operazione che ha portato all’arresto di 8 stranieri a Milano, Cremona, Parma e Reggio Emilia poco più di un mese fa, stranieri legati ad organizzazioni che operano sotto l’ombrello di Al Qaeda. Dall’inchiesta, infatti, potrebbero scaturire nuovi importanti sviluppi.

 

            Questi arresti si profilano come i più importanti fra tutti quelli operati finora dal 1995 in poi nel contesto del radicalismo islamico. Le operazioni svolte a partire dalla seconda metà degli anni ’90 – voglio ricordare l’operazione Minareto di Napoli contro elementi del FIS algerino (Fronte islamico di salvezza); l’operazione Sfinge di Milano contro esponenti del Jamaa Al Islamija egiziana; la Shabka di Torino, con l’arresto di algerini del GIA (Gruppo islamico armato); e poi ancora Bologna, Cremona e nuovamente Torino nel 1998 con l’arresto di altre cellule della Jihad islamica egiziana: tutte queste operazioni sono state tutte connotate prevalentemente dalla falsificazione di documenti, di valuta e dal possesso di documentazione concernente la fabbricazione e l’uso di armi ed esplosivi; ossia quelle forme di comportamento costituenti reato che ci fanno sempre portare a considerare come prevalente se non esclusivo il cosiddetto supporto logistico ai combattenti veri (solo nell’operazione di Torino contro la Jihad islamica egiziana si procedette al sequestro di armi).

 

            Nelle operazioni condotte nel 2001 subito prima e dopo l’attacco delle torri gemelle, invece, ci troviamo di fronte ad uno scenario diverso che dà maggiore spessore alle investigazioni; scopriamo, cioè, l’esistenza di reti di reclutamento di combattenti da inviare ai campi di addestramento,per prepararsi alla “chiamata” della guerra santa. Reclutamento che presuppone l’esistenza di un apparato organizzativo situato in più città (finora lo abbiamo scoperto prevalentemente nel Nord Italia e nel Centro-Nord) teso all’individuazione, alla scelta, alla selezione e infine al reclutamento degli elementi più idonei, per lo più già inseriti in contesti lavorativi e familiari. Le intercettazioni ci svelano i criteri per la scelta …. “no quello non è idoneo…., meglio quell’altro”, e chi è chiamato non dice no, forse non ne ha il coraggio anche se volesse, oppure si sente prescelto perché il richiamo è forte e proviene da qualcosa che è al di fuori e al di sopra di coloro stessi che chiamano. Il forte richiamo all’ideologia ed il fanatismo rappresentano dei moltiplicatori di aggregazione dell’integralismo islamico, cosicché le denunce  e gli arresti  non rappresentano di per sé un elemento di deterrenza, come sempre constatiamo nelle indagini antiterrorismo. Ed il sistema ha funzionato: molti, non sappiamo quanti, sono andati in Afganistan nei campi di Derunta e di Khaldun per addestrarsi all’uso delle armi e alle tecniche terroristiche. Dopo  l’addestramento alcuni sono tornati in Italia, per poi ripartire verso i luoghi di combattimento. Altri sono stati inviati a dar man forte ai sostenitori dei Talebani nelle operazioni belliche condotte dalle forze statunitensi all’indomani dell’attentato alle torri di New York.

 

Mentre gli organizzatori ed i reclutatori venivano arrestati dagli inquirenti milanesi, alcuni dei prescelti venivano intercettati e catturati in Afganistan dall’esercito USA e inviati nella base di Guantanamo. Appena sapemmo che laggiù nell’isola di Cuba, fra i prigionieri, v’era anche “qualche italiano”, come ci venne riferito per indicare elementi islamici che avevano risieduto in Italia, ci siamo dati da fare e la Direzione che io dirigo ha avuto il privilegio e la fortuna di essere autorizzata ad una missione speciale a Guantanamo. Due coraggiosi agenti speciali, districandosi fra le mille barriere interposte dai militari USA, hanno vissuto per 20 giorni fra i prigionieri a Guantanamo, intervistandoli e scoprendone ben nove (in gran parte tunisini) che avevano un passato recente in Italia, ove erano stati appunto prescelti per combattere.

 

            Queste realtà ci danno la dimensione del fenomeno che non siamo ancora in grado di quantificare: quanti sono veramente gli stranieri che sono stati reclutati in Italia per combattere nelle file di Al Qaeda?

 

            L’operazione di Milano dei giorni scorsi, come dicevo, ha se possibile uno spessore ancora maggiore: è venuto fuori che gli organizzatori del reclutamento, o meglio i nuovi organizzatori, che nel frattempo avevano preso il posto di quelli arrestati, incuranti del rischio cui andavano incontro, tanto forte è il richiamo, avevano un contatto diretto con i responsabili dei campi di addestramento gestiti dall’organizzazione fondamentalista “Ansar Al Islam”, legata ad Al Qaeda. Tali campi sono situati (erano situati) nella provincia di Soulemaniya, nell’Iraq nord-orientale, da tempo sottratta al controllo del regime di Saddam Hussein e ora restituita, subito dopo l’inizio dell’attività bellica in Iraq, al controllo dei combattenti dell’Unione patriottica del Kurdistan (UPK), i peshmerga.

 

            L’operazione è scattata nel momento in cui gli investigatori della Digos di Milano hanno avuto riscontro dell’imminente intenzione di due degli indagati di abbandonare in tutta fretta l’Italia per sottrarsi al controllo delle forze dell’ordine. Nei confronti dei predetti, un egiziano ed un somalo, e di altri due stranieri di etnia curdo-irakena il GIP del Tribunale di Milano, aderendo alla richiesta formulata dalla Procura della Repubblica di Milano, ha applicato la misura della custodia cautelare in carcere con l’accusa, tra l’altro, di associazione finalizzata al terrorismo internazionale, ai  sensi della nuova legge antiterrorismo dell’autunno del 2001.

 

            Con richiesta della stessa A.G. sono stati poi arrestati dai Carabinieri a Cremona in due distinte fasi, tre tunisini risultati in contatto con i predetti. La contestuale attività di raccordo internazionale operata dall’UCIGOS ha permesso poi di far emergere importanti evidenze investigative circa il ruolo svolto da un marocchino residente a Reggio Emilia, Daki Mohammed, anch’egli arrestato. Infatti la polizia tedesca, il BKA, ha fatto sapere che costui aveva dimorato ad Amburgo ed era stato ivi indagato nell’indagine fatta all’indomani dell’11 settembre 2001 sulla cellula di estremisti islamici di orgine maghrebina e mediorientale guidata dal noto Mohammed Atta, l’algerino ritenuto a capo del commando operativo responsabile dei tragici attentati dell’11 settembre.

 

            Ma c’è di più: è risultata di enorme importanza nell’indagine la circostanza che l’indirizzo di Amburgo del Daki veniva utilizzato dallo yemenita Ramzi   Binalshibh, riconosciuto come responsabile del coordinamento, dei finanziamenti e della logistica per gli attacchi  dell’11 settembre, arrestato lo scorso anno, in agosto, in Pakistan. Nello stesso periodo fu arrestato negli USA il cittadino francese, di origine algerina Zakarias Moussawi, in sicuro contatto con il Ramzi, che secondo le indagini USA avrebbe dovuto integrare il commando degli attentatori.

 

            Certamente le offensive militari e le indagini svolte in numerosi paesi hanno fortemente inciso sulle capacità operative di Al Qaeda, ma non hanno neutralizzato la minaccia promanante dalle organizzazioni islamiche. Le potenzialità offensive si ritiene siano ancora notevoli nonostante la guerra, perché i recenti sanguinosi attentati di Bali (Indonesia) e di Mombasa (Kenia) dimostrano l’esistenza di strategie terroristiche di grosso profilo.

 

            Ma quale è il filo che lega tutte le problematiche del terrorismo islamico?

 

            Forse sono due i fili: uno è strettamente geografico, identificabile con l’Afghanistan, che ha rappresentato il momento centrale per la nascita e la crescita della cultura mujahedin, cioè del combattente islamista che sente l’obbligo di partecipare attivamente alla difesa dei principi dell’Islam e quindi alla difesa dei fratelli aggrediti.

 

            L’altro è temporale: si può infatti ben dire che il 1992 costituisce una data chiave per la comprensione della diffusione del fenomeno islamista nell’ultimo decennio, e ciò per quattro ordini di motivi:

i mujaheddin conquistano Kabul;

in Algeria il Fronte Islamico di Salvezza viene estromesso dalla vittoria alle elezioni;

in Egitto esplode la “guerra santa” del gruppo salafita Jamaa Al Islamiyia;

-           in Yugoslavia inizia la crisi, con la conseguente frammentazione del territorio della confederazione, la nascita di diverse repubbliche autonome e l’emergere del problema della maggioranza musulmana in Bosnia Erzegovina.

 

Finisce la guerra in Afghanistan: che fine fanno i mujaheddin reduci dal conflitto afgano?

 

            Alcuni tornano nei loro paesi d’origine; tantissimi nei paesi del Maghreb, specie l’Algeria ed in Egitto; altri in zone che offrono loro una sorta di rifugio, come il Sudan; altri ancora si spostano in Europa dove, grazie ad una legislazione permissiva in tema di ingresso e di soggiorno, si installano cominciando a diffondere la cultura mujahedin.

 

            In Afghanistan dopo il termine del conflitto, continuano ad essere attive diverse strutture addestrative presso le quali i volontari arabi e maghrebini frequentano un corso basico, più o meno della durata di 6 mesi, in cui, oltre all’indottrinamento teologico nelle scuole coraniche, vengono addestrati all’uso di armi leggere e pesanti, nonché di esplosivi.

 

            E’ la trafila seguita da migliaia e migliaia di combattenti che, finito il corso, ritornano nelle rispettive aree di provenienza o nelle nazioni di appartenenza.

 

            Sempre nel 1992 in Algeria il Fis viene estromesso dal potere dai militari e dal Fronte di Liberazione Nazionale, la formazione politica che aveva guidato la rivolta algerina contro i francesi.

 

            Il Fronte Islamico di Salvezza, con la conquista di numerose amministrazioni locali, era riuscito a coniugare il malessere delle fasce più deboli della popolazione con le aspirazioni della borghesia religiosa. Riuscendo ad unire queste differenti istanze aveva rilanciato il progetto di applicare la legge islamica in Algeria attraverso le elezioni.

 

Fallito il tentativo del FIS di prendere il potere in maniera legale, con l’arresto dei due capi carismatici del FIS (Abassi Madani e Ali Ben Hadji, quest’ultimo ancora detenuto), si genera l’estremizzazione e la nascita di una pluralità di fazioni combattenti che poi si coaguleranno nei G.I.A. (Gruppi Islamici Armati).

 

            Decisivo, nello sviluppo di questa crisi, il ritorno in Algeria di molti mujahedin afgani, protagonisti della conquista di Kabul, che portano con sé la mentalità combattente e la consapevolezza che, come già accaduto in Afghanistan, la Jihad può affermarsi e trionfare ovunque.

 

            I GIA, fino al 1994-1995, hanno sviluppato una attività di bassa intensità sotto il profilo delle atrocità commesse. Solo dal 1995, con l’avvento alla direzione dei GIA di Djamel Zitouni, comincia la politica dei massacri e dell’esportazione della problematica algerina al di là dei confini nazionali e quindi il grande salto: dall’Algeria in Europa, soprattutto in Francia.

 

            Nel 1995 a Parigi vengono messi a segno numerosi attentati perpetrati con ordigni rudimentali che provocano numerose vittime.

 

            Gli islamisti identificano il nemico non solo nelle forze al potere in Algeria, colpevole di aver represso le speranze di affermazione della legge islamica attraverso mezzi legali cancellando i risultati delle elezioni politiche, ma anche nello straniero oppressore, nella Francia: in breve, tutto ciò che è francese e francofono viene attaccato per essere distrutto.

 

            I massacri in Algeria e gli attentati in Francia hanno tolto quel po’ di  consenso che pure i GIA avevano coagulato intorno alla loro lotta, considerata fino a quel momento una reazione quasi legittima all’espropriazione del risultato elettorale.

 

            A Londra, dove si era insediata una delle più popolose colonie islamiste, viene fondata la rivista AL ANSAR (“i partigiani”), che diffonde, condividendone i contenuti, i comunicati dei GIA. La rivista fornisce una giustificazione dottrinale alle azioni del GIA tentando di dare ad essi uno spessore internazionale.

 

            Responsabile di AL ANSAR è il palestinese Abu Qatada, arrestato dagli inglesi lo scorso anno, che per lungo tempo aveva trovato asilo in Inghilterra (come la maggior parte degli islamisti cacciati dalle loro terre) sia per la lunga tradizione libertaria inglese, sia per una sorta di patto non scritto con il quale si salvaguardava il territorio inglese da attentati come quelli portati a temine in Francia.

 

            E’ importante sottolineare che i personaggi che animavano la rivista AL ANSAR, Abu Qatada e Abu Musab Al Siri, li ritroviamo ancora oggi nelle indagini condotte sul terrorismo di matrice fondamentalista islamica.

 

            Questa sorta di copertura politica viene a mancare con i massacri della popolazione civile in Algeria e con gli attentati in Francia, i cui responsabili sono stati individuati e puniti.

 

            Il 1992 è anche l’anno in cui inizia in Egitto l’attività terroristica promanata dal gruppo islamista Jamaa Al Islamiyia, nato in seguito alla dura repressione scaturita nel 1981 dall’assassinio del presidente Sadat e grazie al rientro dall’Afghanistan dei mujaeddin egiziani dopo la riconquista di Kabul. La “guerra” della Jamaa Al Islamiyia durerà diversi anni e culminerà nella strage degli oltre 60 turisti a Luxor nel 1997, dopo l’assassinio al Cairo di numerosi funzionari statali, rappresentanti di organizzazioni straniere e turisti.

 

Sempre nel 1992, infine, in Bosnia si assiste all’accorrere di volontari islamici contro l’aggressore serbo che attacca la comunità musulmana residente in Bosnia Erzegovina.

 

            Il mondo islamico, che fino ad allora aveva per lo più ignorato l’esistenza della Bosnia, reagisce con entusiasmo alla notizia della nascita di uno stato musulmano nel cuore dell’Europa e dà una lettura di tipo confessionale all’aggressione serba e alla pulizia etnica: si tratta di una specie di crociata dettata da motivi esclusivamente religiosi che fa scattare tra i musulmani diverse forme di solidarietà con i correligionari ritrovati nei Balcani.

 

            Inizialmente si tratta di un afflusso che consiste principalmente nella prestazione di aiuti umanitari: prolifera nella ex-Yugoslavia l’attivismo di organizzazioni umanitarie islamiche come l’Islam International Relief Organization (I.I.R.O.) e di altre charities incaricate di portare sostegno alle popolazioni musulmane aggredite dai serbi.

 

            Ben presto, tuttavia, la comunità dei combattenti arabi trasmigrati verso la Bosnia diviene tanto numerosa da imporre al leader bosniaco Alija Izetbegovic il suo inquadramento in una specifica unità militare, la 7^ Brigata mujaeddin, divenuta celebre per le atrocità commesse durante il conflitto.

 

            Il governo bosniaco si trova a dover gestire il problema dei mujaeddin insediatisi sul loro territorio: alcuni di essi vengono fatti sposare con donne bosniache, ad altri viene fornito il passaporto, la cittadinanza bosniaca, la possibilità di cambiare nome.

 

            Nel dicembre del 1995 gli accordi di Dayton mettono fine al conflitto interetnico jugoslavo imponendo, con la regolazione dei confini tra Serbia, Bosnia e Croazia, tutt’oggi in vigore, una pax americana difficile da accettare per la comunità dei combattenti per la Jihad.

 

Ancora una volta si pone il problema dell’esfiltrazione, della diaspora dei mujaeddin, vero e proprio filo che lega tutte le problematiche del terrorismo islamico. Sono problemi attuali che molto verosimilmente la recente guerra in Irak non ha risolto e con i quali dovremo ancora confrontarci.

 

Carlo De Stefano

Direttore centrale della Polizia di Prevenzione