Fontamara

Prima edizione nella traduzione tedesca di Nettie Sutro - Verlag Operchtund Helbling ( Zurigo 1933 ); ristampa della stessa traduzione fuori commercio esclusivamente per i soci della ghilda Universum Bucherei ( Basilea 1934 ).
Prima edizione originale italiana dell'emigrazione ( Nuove edizioni italiane, Parigi-Zurigo 1934 ). Prima edizione italiana in Italia: Roma, Faro, 1947; Milano, Mondadori, << Medusa >>, 1949; ristampe 1951, 1953; 1958, << Narratori italiani >>.      

RACCONTO :

Fontamara, pubblicata a Zurigo, in tedesco, nel 1933, è una delle più clamorose opere di questo secolo. Il romanzo di Ignazio Silone, conosciuto in tutto il mondo, è ignorato in patria per vent’anni.
Narra la storia di un paese della Marsica, scelto come simbolo dell’universo contadino. 
Nel libro vi è la lotta di Silone contro l’ingiustizia e gli abusi del potere istituzionale, fra i "cafoni" e i borghesi e la sua funzione è sia di denuncia per l’oppressione e i soprusi subiti dai contadini abruzzesi, sia di auspicio per la formazione di una coscienza sociale senza rassegnazioni.
Nel racconto, le catastrofi naturali e le ingiustizie diventano così antiche da sembrare un’eredità dei padri e della terra.
Ogni trasformazione tecnologica e sociale del mondo, oltre il confine di quei monti, viene vista dai "cafoni" di Silone come uno spettacolo da osservare.
Fontamara diventa la storia corale degli emarginati, visti nel momento in cui rifiutano la fissità della loro condizione ed entrano in conflitto con la "società degli integrati", ossia quella fascista.
Il portavoce di questa nuova coscienza è il "cafone" Berardo Viola, trascinato nella lotta, per raggiungere la fratellanza evangelica.
La sua morte è il sacrificio necessario per propagare la fede e la giustizia che i Fontamaresi raccolgono per chiedersi insieme "che fare?".
Silone nell’introdurre il romanzo dice che racconterà strani fatti che si svolsero nel corso di un’estate a Fontamara.
Fontamara somiglia a ogni villaggio meridionale,che sia un po’ fuori mano, fuori dalle vie del traffico, quindi un po’ più arretrato e misero degli altri.
Silone ha però dato questo nome a un antico luogo di contadini poveri situato nella Marsica, a settentrione del lago di Fucino, nell’interno di una valle.
Allo stesso modo, i contadini poveri, i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo, eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto identici.
A Fontamara prima veniva la semina, poi l’insolfatura, poi la mietitura e poi la vendemmia e nessuno avrebbe mai pensato che quell’antico modo di vivere potesse cambiare.
La scala sociale non conosce a Fontamara che due pioli: la condizione dei cafoni e, un pochino più su, quella dei piccoli proprietari.
I più fortunati tra i cafoni di Fontamara possiedono un asino o a volte un mulo.
Arrivati all’autunno, dopo aver pagato i debiti dell’anno precedente, essi devono cercare in prestito cibo per non morire di fame nell’inverno.
L’opera racconta che, nel giugno dell’anno precedente a quello della pubblicazione del libro, Fontamara rimase per la prima volta senza illuminazione elettrica, così avvenne nei mesi seguenti, finchè il paese si riabituò al regime del chiaro di luna.
I vecchi di Fontamara sapevano che la luce elettrica e le sigarette erano novità che erano state portate dai piemontesi, e che, poco dopo, gli stessi piemontesi si erano riprese.
La luce elettrica nessuno infatti la pagava, poiché mancava il denaro e il cursore comunale non si era neppure presentato, come ogni anno, con le fatture e gli arretrati, fogli che i Fontamaresi usavano per usi domestici.
L’ultima volta, che il cursore era andato a Fontamara, per poco non vi lasciava la pelle.
La luce quindi in giugno venne tolta e tutto il paese si sconvolse, poiché la miseria stava per diventare sempre più nera.
Intanto gli uomini si radunarono davanti alla cantina del paese e videro arrivare verso di loro un forestiero, il Cav. Pelino, con una bicicletta e pensarono che si trattasse di una nuova tassa.
L’uomo spiegò che non si trattava di nuove tasse, ma servivano solo delle firme da mandare al Governo.
Il Cav. Pelino cercò pretesti per discutere, ma i Fontamaresi non risposero e si burlarono di lui.
Lo straniero partì con la sua bicicletta, urlando che il Governo si sarebbe occupato di loro e che presto avrebbero avuto sue notizie.
I Fontamaresi, però, non fecero caso alle parole del Cav. Pelino, si diedero la buona notte e si avviarono verso casa, mentre Berardo, uno degli amici, continuò il giro del paese.
Il giorno dopo, all’alba, tutta Fontamara fu in subbuglio per un malinteso. All’entrata del paese, sotto una macera di sassi, sgorgava una polla d’acqua, simile a una pozzanghera, dove i Fontamaresi avevano sempre tratto l’acqua per irrigare i campi che erano la magra ricchezza del villaggio.
La mattina del 2 giugno, i cafoni scesero la collina per andare al lavoro e s’incontrarono con un gruppo di cantonieri, arrivati a Fontamara con pale e picconi per deviare l’acqua nei campi del ricco don Carlo Magna.
Subito i cafoni pensarono a una burla, poiché gli abitanti del capoluogo non lasciavano mai passare le occasioni per beffarsi dei Fontamaresi.
Un ragazzo tornò allora in paese ad avvertire gli altri, ma gli uomini erano al lavoro e quindi dovette chiamare le donne. 
Queste si radunarono e quando arrivarono dai cantonieri, questi si spaventarono e scapparono.
Le donne proseguirono, poi, verso il capoluogo, dove arrivarono a metà giornata, stanche e impolverate. Intanto, davanti al municipio, le guardie cominciarono a gridare di non farle entrare, poiché avrebbero solo portato pidocchi. Queste affermazioni fecero scoppiare risate generali e burla verso le povere donne, addirittura anche la fontana del paese si burlò di loro e appena si avvicinavano questa smetteva di far scorrere acqua.
I carabinieri le accompagnarono poi a casa del Podestà appena eletto: era l’impresario che era arrivato nel paese da poco e si era impadronito di ogni affare importante.
Arrivati alla villa, la moglie del podestà disse che suo marito era sul cantiere con gli operai e quindi le donne si diressero là.
Ma, arrivate al cantiere, non lo trovarono e allora decisero di andare da Don Carlo Magna, ma seppero che le sue terre erano anche state acquistate dall’impresario. Camminarono molto e giunsero di nuovo davanti alla casa dell’impresario, dove vi era in corso un ricevimento per la nuova nomina a Podestà e chiesero di essere ascoltate circa l’acqua del ruscello.
Dopo varie discussioni il segretario del comune decise che tre quarti dell’acqua dovessero andare ai Fontamaresi e i rimanenti tre quarti all’impresario.
Nei giorni seguenti i cantonieri ripresero i lavori, mentre nessuno riusciva a capire che proporzione potesse essere quella dei tre quarti e tre quarti.
Questa disputa valse l’onore della visita di Don Abbacchio, il canonico di Fontamara.
Arrivò su una biga tirata da un bel cavallo, che apparteneva all’impresario, e quindi i Fontamaresi capirono che anche il canonico si stava burlando di loro.
Al tempo dell’irrigazione mancavano ancora molte settimane, ma le zuffe e le discussioni per l’acqua erano già iniziate.
Intanto arrivò la decisione di Berardo Viola, cafone rimasto senza terra, di partire e far fortuna in America, poiché ormai si riteneva tradito da tutti.
L’unico a incoraggiarlo a partire era Don Circostanza, antico curato del paese, che pensava che se l’uomo fosse rimasto a Fontamara, sarebbe stato arrestato.
Il giorno della partenza arrivò, ma, a causa di una nuova legge, fu sospesa tutta l’emigrazione e così Berardo rimase a Fontamara come un cane sciolto e sofferente.
Berardo voleva la terra a tutti i costi, gli spettava di diritto come cafone, ma fu destinato a non averne mai.
L’uomo doveva anche sposarsi, ma, non potendo partire, non osava presentarsi alla fidanzata.
Trovò lavoro da bracciante fuori da Fontamara e faticava parecchio, ma un bel giorno Berardo dovette tornare a Fontamara poiché era stata istituita una nuova tessera per andare a Roma, di cui era sprovvisto, poiché era a pagamento.
L’amarezza di Fontamara aumentò con l’arrivo di Innocenzo La Legge che assicurò che non si trattava di una nuova tassa, ma era lì per parlare del Cav. Pelino, che aveva riferito al Governo ogni discorso fatto a Fontamara la sera della sua visita.
Parlò anche dei vari provvedimenti che il governo aveva assunto contro i Fontamaresi e che venivano messi in pratica dal giorno stesso.
Nel paese, intanto, cominciavano le discussioni con Innocenzo La Legge da parte di Berardo e il vecchio Baldissera.
Verso la fine di giugno, si sparse la voce che i rappresentanti dei cafoni della Marsica stavano per essere convocati ad Avezzano per ascoltare le decisioni del nuovo Governo di Roma sulla questione del Fucino, in quell'occasione si doveva discutere sul problema del lago nella Marsica.
Una domenica mattina arrivò a Fontamara un camion che, gratis, portava i cafoni ad Avezzano ed era proprio questa mancata richiesta di pagamento che non piaceva ai Fontamaresi, sotto doveva esserci l’inganno.
Salirono tutti sul camion, portando con sè lo stendardo di San Rocco, ma, a causa di questo, dovettero discutere all’entrata di Avezzano con un gruppo di giovanotti, che volevano fosse loro consegnato lo stendardo.
Consegnarono la bandiera ai carabinieri e furono condotti in una grande piazza e fatti sedere in terra.
Dopo un’ora di attesa, dovettero alzarsi in piedi e gridare inni ai podestà, mentre la piazza fu attraversata da un’automobile, seguita da quattro uomini in bicicletta.
Poi furono fatti risedere, ma poco dopo i carabinieri annunciarono che i cafoni potevano andarsene.
Berardo, non persuaso, andò davanti al portone del palazzo tutto imbandierato e volle parlare con il ministro per levarsi la curiosità di sapere cosa era successo.
Ci furono molte liti con i carabinieri, intervenne infine Don Circostanza, che accompagnò tutti nel palazzo per parlare con l’impiegato del ministero, poichè il ministo era partito.
Seppero che la questione del Fucino era stata risolta, "come" non si sapeva.
I Fontamaresi, usciti dall'ufficio governativo, vennero ancora presi in giro dai cittadini di Avezzano, ma non ebbero più la forza di reagire e lasciarono perdere.
Arrivarono a Fontamara a notte fonda e poco dopo erano di nuovo in piedi per andare a lavorare i campi.
Intanto nel paese arrivarono dei camion con i militi fascisti che fecero rientrare tutte le donne, bambini e anziani in casa, portarono via tutte le armi e si scatenarono su una donna, lasciandola in terra rantolante.
Poco dopo uscirono di nuovo in piazza, mentre tornarono dal lavoro gli uomini che vennero interrogati sul Governo.
Nessuno diede risposte soddisfacenti , ma la fila dei camion andò via.
L’indomani mattina la madre di Berardo cercò suo figlio, che la sera prima non era rincasato.
Il narratore di tutta la vicenda afferma quindi di aver incontrato Berardo dietro al campanile del paese e di avergli comunicato che la madre era in pensiero per lui. Discussero quindi sul problema di Berardo di trovare terra.
Decisero, inoltre, di andare a parlare con Don Circostanza, da cui erano a credito per un reimpianto di viti, per chiedergli consiglio e aiuto per trovare un’occupazione in città per il povero Berardo.
L’avvocato gli promise aiuto, dopo averli ingannati con la discussione sulle nuove leggi in vigore, allo scopo di non ridare il denaro ai cafoni.
Berardo, quando uscì dalla casa di Don Circostanza, tornò a sorridere per la prima volta dopo tanto tempo, credendo alle parole dell’avvocato, che era riuscito ad illuderlo.
Intanto nel paese si stava facendo una colletta per poter far arrivare Don Abbacchio a Fontamara e finalmente poter celebrare la messa.
Vi partecipò anche Berardo, attirato dalla notizia che, durante la messa, ci sarebbe stata la solita predica, che ormai tutti sapevano ma che riusciva sempre ad attirare tutti i cafoni a messa.
Don Abbacchio però ebbe la malaugurata idea di rimproverare i cafoni per il mancato pagamento delle tasse e questo fece scatenare fra i cafoni una discussione generale, dopo di chè Don Abbacchio dovette partire.
Pochi giorni dopo i cantonieri finirono di scavare il nuovo letto per il ruscello e giunse l’ora della spartizione dell’acqua fra i cafoni di Fontamara e l’impresario.
Arrivarono sul posto tutte le autorità seguite dai carabinieri e e arrivarono anche i cafoni, che dovevano nominare un capo fra gli anziani, che guardasse l’operazione e riferisse agli altri.
Purtroppo i Fontamaresi videro che il livello dell’acqua, che avrebbero potuto utilizzare, scendeva sempre di più e capirono che sotto vi era l’inganno.
Don Circostanza, per non far scatenare i cafoni, intervenne e avanzò una proposta: l’acqua sarebbe tornata ai Fontamaresi dopo dieci lustri, ma nessuno dei cafoni poteva sapere quanti mesi o anni fossero.
Alla spartizione dell’acqua era mancato Berardo e questo i Fontamaresi lo considerarono un tradimento, senza sapere che ormai l’uomo pensava solo più ad emigrare e far fortuna in America.
Il figlio del narratore e Berardodecisero così di partire l’indomani.
Partirono la mattina presto e Berardo era di cattivo umore.
Raggiunsero Fossa per prendere il treno per Roma, ma furono raggiunti dalla notizia che uno dei cafoni di Fontamara era stato impiccato al campanile.
I due partirono lo stesso con l’autorizzazione di Don Abbacchio e a Roma soggiornarono in una locanda indicata sempre dal curato.
L’indomani si presentarono all’ufficio, che doveva mandarli a lavorare in bonifica, ma seppero che ci voleva una tessera speciale per poter lavorare.
Pagarono dunque questa nuova "tassa" e furono iscritti presso l’ufficio di collocamento, ma questo non bastò, dovevano tornare al loro paese e portare la domanda di lavoro.
Stanchi, ormai, di viaggiare avanti e indietro, si consultarono con un avvocato che era ospite presso la locanda, dove loro soggiornavano.
L’avvocato chiese tutto il denaro che i due cafoni avevano con loro e inoltre spedì un telegramma a Fontamara per chiedere di mandare a Roma tutto ciò che il padre di Berardo, ormai morto da anni, potesse mandare, così gli avrebbe trovato lavoro.
L’uomo, quando seppe che il padre di Berardo era morto da anni e che quindi non poteva mandargli niente, si infuriò e andò dai due cafoni.
I poveri uomini, ormai senza soldi, avevano fame e stavano tutto il giorno nella loro camera della locanda a fissare il soffitto, sperando di essere chiamati a lavorare.
Pochi giorni dopo, arrivò una lettera per Berardo che portava la notizia che a Fontamara gli era morto qualcuno.
Furono inoltre mandati via dalla locanda e l’avvocato non li aiutò nella ricerca del lavoro, poiché da Fontamara non era arrivato niente di quanto richiesto dal telegramma da lui spedito al padre di Berardo.
I due erano deboli per la fame e di tanto in tanto credevano di cadere per terra, quindi uscirono dalla locanda senza discutere.
A pochi passi da lì incontrarono un giovanotto, che avevano conosciuto ad Avezzano e che offrì loro da mangiare. Intanto a Roma vi era la caccia al Solito Sconosciuto, un uomo che "metteva in pericolo l’ordine pubblico" con la fabbricazione e la diffusione della stampa clandestina, con cui denunciava gli scandali e incitava gli operai a scioperare e i cittadini a disubbidire. Dietro a lui corsero molti poliziotti, ma l’uomo era rimasto imprendibile. I militi entrarono nell’osteria dove vi erano i cafoni e controllarono i loro documenti, stavano per uscire, quando videro un pacco abbandonato in terra. I carabinieri presero allora Berardo e il figlio del narratore e li portarono in prigione. I due cafoni pensarono di essere stati scambiati per ladri e così cercarono di parlare con il commissario. Dopo alcuni giorni di attesa si costituì dicendo che il Solito Sconosciuto era lui e che il pacco trovato era suo e che conteneva stampa clandestina. A tutti sembrava strano che un cafone potesse essere i Solito Sconosciuto e così venne più volte interrogato, come avvenne per il figlio del narratore e per l’amico di Avezzano. Quest’ultimo fu liberato, mentre per i due cafoni le pene furono molto crude. Quando Berardo seppe che l’Avezzanese era uscito, decise di parlare e dire cosa gli aveva confessato il giovane, ma quando seppe dal commissario, tramite i giornali, che Elvira, la sua fidanzata, era morta, decise di non parlare più. Nella notte Berardo fu ucciso nella sua cella, ma i poliziotti dissero all’amico che si era ucciso, impiccandosi. I carabinieri dopo avergli fatto firmare numerosi fogli, lasciarono libero il figlio del narratore che tornò a Fontamara. Intanto i cafoni avevano gièà appreso le ultime notizie dal Solito Sconosciuto, l’unica che continuava a fare domande e a disperarsi fu la mamma di Berardo. I Fontamaresi decisero di scrivere allora un giornale con gli appunti lasciati dallo Solito Sconosciuto e fu intitolato "Che fare?". Bisognava trovare chi andasse a distribuirlo nel paese e anche al di fuori di Fontamara e questo compito fu dato all’autore ed a altri cafoni, che partirono presto e raggiunsero i vari paesi indicati, ma mentre si apprestavano a ritornare a Fontamara udirono degli spari. Era la guerra a Fontamara, chi aveva potuto era scappato, gli altri erano morti, da come raccontava un fontamarese incontrato per strada. Il narratore, il figlio e i pochi cafoni con loro si salvarono nascondendosi nei campi. Non ebbero più notizie di nessuno, nè del paese, loro vissero all’estero grazie all’aiuto del Solito Sconosciuto, ma non poterono restarci. Dopo tante pene, lutti, ingiustizie, odio, i cafoni superstiti si chiedono sempre 
"Che fare?". La storia dei fontamaresi vuol essere la denuncia dolorosa e forte di una miseria e di un sopruso sofferti dai poveri cafoni marsicani e in genere dai meridionali sottoil fascismo . 
Di questo movimento è evidenziato l'aspetto violento e beffardo, che sfrutta abbondantemente per estendersi e radicarsi .
Dal racconto esce l'immagine di un'umanità primitiva e rozza ma capace di virtù eroiche.
Vi è anche l'aspetto religioso della vicenda: nel saper ritrovare la coerenza con se stessi e nell'aprirsi alla realtà degli altri.
L'ambiente, la Marsica, è sempre presente, come un quadro amaro, ritratto in linee dure, che è parte integrante della vita dei fontamaresi. Un tema importante di questo romanzo è l'ironia, con cui Silone esprime la contrapposizione tra l'ingenuità dei cafoni e la falsità degli altri, la paura di essere presi in giro da parte dei primi e l'intenzione di ingannare da parte dei secondi.
Si sottolinea, anche, l'enormità dei provvedimenti che arrivano dall'alto, che assumono l'aspetto di beffe. 

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