Il " Caso Silone " 

 

Nella nostra letteratura contemporanea esiste un « caso Silone » allo stesso modo nel quale esiste o è esistito un « caso Svevo », un « caso Tomasi di Lampedusa »? E' la domanda che ci si pone ogni volta, almeno, che uno scrittore, per anni vissuto nell'ombra, nel silenzio della critica, lontano dal mondo letterario, emerge e si impone a un pubblico più vasto, è sistemato nei parametri della critica, è accolto nelle collane dei grandi editori. In questo senso il « caso Silone » si esaurisce con l'immediato dopoguerra; con la Liberazione, infatti, i suoi romanzi, caduta l'interdizione della censura fascista per  il loro contenuto di protesta civile e sociale, incominciano a circolare nel nostro paese, e lo scrittore si inserisce nel panorama generale della nostra letteratura militante. Prima d'allora il nome di Ignazio Silone, uno dei pochissimi, se non l'unico, narratore veramente antifascista, che proponesse con una impostazione tutta sua particolare, in termini polemici, i problemi di una tragica realtà politica e sociale dell'Italia contemporanea e delle ragioni storiche dello stato di sottosviluppo, di avvilimento, di costante inferiorità civile e morale del mondo contadino di alcune zone del nostro Mezzogiorno, il nome di Ignazio Silone, dicevamo, era conosciuto soltanto all'estero, dove i suoi libri ottenevano successi non troppo consueti per uno scrittore italiano. Per tutto il ventennio fascista, la posizione politica di Silone del regime, e per giunta appartenente a quella schiera di emigrati politici che escludevano ogni possibilità di compromesso con i dirigenti del regime stesso e con le stesse classi dirigenti italiane che bene o male lo sostenevano. Non soltanto era proibita ogni diffusione della sua opera, ma era vietato alla stessa critica di occuparsene, così come era vietata, ovviamente, la circolazione nel paese dei suoi libri. Si conoscevano, è vero, il suo nome e la sua vicenda, ma soltanto di riflesso, e ben poche copie di Fontamara o del Seme sotto la neve o di Pane e vino circolavano in quegli anni, anche clandestinamente, in Italia. Ricordiamo di aver letto, forse un anno prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, Fontamara nella traduzione francese e in un esemplare introdotto clandestinamente, che veniva passato in gran segreto - e non senza circospezione - da amico ad amico, quasi come un documento politico compromettente. Esso anzi alimentò la nostra tematica, in privatissime discussioni letterarie, nelle quali si tentava di trovare una via per uscire dall'impasse del calligrafismo e della prosa d'arte e di ritrovare un nesso operante tra la letteratura e la realtà italiana.
La Liberazione faceva naturalmente cadere ogni proibizione, ma nel tempo stesso toglieva all'opera dello scrittore in esilio, ormai rientrato in Italia, quel certo alone di mistero e di attesa che la lontananza e l'esilio stesso accrescevano. Subito dopo la Liberazione Silone fu letto quasi con avidità da una parte del pubblico italiano, la parte che, all'indomani della caduta del fascismo, sentì più perentorio il bisogno di una verità non formale, non artefatta, non resa forzatamente ottimistica, non ricalcata sugli schemi predisposti dall'ideologia di un partito politico. Tuttavia la critica fu sostanzialmente reticente o, se non altro, riluttante ad inserire la narrativa di questo scrittore nella dialettica della nostra cultura letteraria militante. Il « caso Silone », in altre parole, rimase confinato in una sorta di limbo, nel limbo di una letteratura tipicamente irregolare e pressoché d'occasione, quasi ai margini di un giornalismo a sfondo sociale, se non altro come espressione quasi secondaria di una vocazione o di una battaglia politica.
Emilio Cecchi, parlando proprio del « caso Silone », scriveva nel 1952, in una nota ristampata nel volume Di giorno in giorno (Milano, Garzanti, 1954): « Dopo dieci anni la nostra critica nei suoi riguardi, è ancora perplessa e reticente. D'un suo influsso su altri romanzieri, italiani o di fuorivia, non c'è da parlare nemmeno. La sproporzione tra la fama e il successo all'estero e la riservatezza dell'accoglienza in patria, ha finito col costituire un vero problema critico; ed è la prima cosa che si presenta alla mente di tutti coloro che si occupano di lui e della sua letteratura ». 
Se nell'opinione straniera il fuoruscito Silone, autore di Fontamara,
aveva finito - aggiunge il Cecchi - con l'apparire press'a poco l'unico nostro scrittore « che avesse prodotto qualche cosa di vitale sotto il fascismo » (e ventidue traduzioni di Fontamara e dodici di Pane e vino documentavano ampiamente tale opinione), è anche vero che una quantità di notevoli romanzieri nuovi o meno nuovi, Tecchi, Moravia, Brancati, Vittorini, Pratolini, ai quali potremmo aggiungere anche i nomi di Alvaro, Bernari, Bilenchi, Bigiaretti, Benedetti, Delfini, « erano apparsi od avevano finito di formarsi in Italia ... in vario modo giudicati dai lettori e dalla critica ». Per giunta, « il fatto che Silone arrivava dall'estero, con tutti i crismi della democrazia internazionale, sembrava essere di per sé sufficiente ad imporlo in un paese con le larghe disponibilità di pacchianeria che ha il nostro. Questa volta invece non fu così; e sulla bilancia dei valori narrativi, non si ebbe a osservare nessuna oscillazione ». Secondo Cecchi, si sarebbe   tacitamente stabilito tra lo scrittore, la critica (timorosa di peccare di cattivo gusto se avesse fatto il viso d'allarme ad uno che rientrava dall'esilio) e il pubblico, « una specie di rispettoso 'modus vivendi'; in cui né Pane e vino né Il seme sotto la neve valsero successivamente a immettere un po' di calore». Escludendo che l'essersi tenuto appartato, lo scrittore stesso, dalla letteratura, a causa dei suoi impegni politici, potesse avere influito su questa freddezza e su questa reticenza, il Cecchi si domandava se la ragione di un tale disinteresse della critica (esclusa un'assurda congiura del silenzio) non fosse in « qualcosa di intrinseco all'opera », che, almeno fino a qualche tempo avrebbe impedito « un incontro più convinto tra Silone e quella parte, pur limitata, del pubblico italiano, che non legge per ammazzare il tempo, ed ha una certa capacità di chiarire a se stessa le proprie intenzioni».
Recensendo successivamente il romanzo Una manciata di more, che         giudicava « il libro più impegnativo e studiato di Silone » sino a quel tempo, il Cecchi annotava che, « strettamente dal punto di vista dell'invenzione e coordinazione dei fatti, e per la competenza delle cose trattate, il neorealismo nostrano (Pavese e Vittorini qui non c'entrano) non ha dato molto di meglio ». Il difficile incontro di Silone col pubblico era forse nel « risalto più crudamente pittoresco » di altre opere, nelle quali l'intento caricaturale
« puntava tutto in una sola direzione », con un « naturale riflesso del bozzettismo paesano; ed agli stranieri non dovette parer vero di sentirsi spiegare il fascismo l'antifascismo in termini di folclore >>.
In altre parole, un sospetto di naturalismo, superato dalla narrativa più recente degli Alvaro, dei Pavese, dei Vittorini ecc., teneva lontano dai libri di Silone critica e pubblico italiani. E, annota nello stesso scritto che « la vera nota di SiIone è nel suo sentimento di profonda e virile pietà per gli umiliati e offesi.        
In una sorta di laico evangelismo; che dove più liberamente respira e si fa sentire di dentro la macchina del racconto, porta come un'eco di religiosità popolare ». Il Cecchi tuttavia non tralasciava di ricordare anche « una qualche convenzionalità della scrittura ... nella qualità d'una scrittura paziente, solida, che espone piuttosto che realizzare, che presenta il proprio oggetto invece d'immedesimarvisi ». Non si tratta   - precisava - d'ornamenti, eleganze, raffinatezze, che nessuno desidera: « Alludo alla povertà d'interna vibrazione ». Il Cecchi citava inoltre un articolo letto molti anni
prima su una rivista inglese, « Horizon », sulla letteratura tra le due guerre, nel quale si osservava che libri come quelli di Koestler, Silone e altri, erano d'effetto più sicuro leggendoli tradotti, anziché nella loro lingua: « Proprio perché allora meno si percepisce quella mancanza di vibrazione interna >>.
Tutto qui, dunque, il «caso Silone? Esso si ridurrebbe a una sorta di mancato adeguamento dello scrittore abruzzese alle linee di sviluppo che la critica italiana dettava per la nostra narrativa. Silone, in altre parole, rientrava in Italia con opere che erano riuscite a suscitare il favore degli stranieri solo a causa del loro contenuto e delle buone traduzioni; e tuttavia, oggi, come ieri, non ci sembra di poter aderire a questa limitazione.

 

Critica al romanzo " Una manciata di more " :

Nonostante l'ostinato perdurare di certi silenzi, la critica fu costretta a riflettere davanti a Una manciata di more. A dare il « la » fu Emilio Cecchi che, avendo in precedenza contestato - pubblicamente e non senza un certo imbarazzo - la tesi di una congiura del mondo letterario italiano ai danni dì Silone, indica al colleghi, nella lettura di questo libro, l'occasione per recuperare il tempo perduto e tentare, quindi, un primo discorso sistematico sulla sua opera e la sua presenza. Fu lo stesso Cecchi ad avanzare proposte e indicazioni in tal senso (riscotendo fin troppo rispettosi consensi), come quella riguardante l'inserimento della narrativa siloniana nel quadro del neorealismo italiano degli anni '40; ma, ripetiamo, buona parte degli interventi che gli faranno eco, presenterà a prima vista il vistoso limite di riferirsi quasi esclusivamente a questo libro, il quale, proprio perché veramente « il più studiato » rimane il meno adatto per offrire una visione fedele ed esauriente dell'intera produzione siloniana. Se, infatti, il taglio sapiente dei personaggi, la misura dosata dei dialoghi ed il respiro lirico nella descrizione di caratteri ed ambienti garantiscono di una scrittura più sorvegliata ed esperta la notevole diminuzione di quella carica narrativa e di quella spontaneità che caratterizzavano le prove precedenti non consente l'impostazione dì confronti e di misure di giudizio che si rendono in questa circostanza quanto mai indispensabili. Lo stesso processo di maturazione di quel « laico evangelismo » di cui parla felicemente Cecchi a proposito della crisi di Rocco De Donatis risulta incomprensibile o poco convincente, se non si tiene conto di quelle che sono le sue radici più lontane, identificabili nel travaglio interiore di Pietro Spina molto più approfondito anche se sotto alcuni aspetti meno coerente.