Si
può parlare dei romanzi scritti da Ignazio Silone negli anni
dell’esilio, dopo la sua uscita dal partito comunista, come se essi
fossero soltanto il frutto della delusione, della solitudine. Pensiamo
che la separazione dal partito Comunista sia stata in Silone soltanto
l’occasione di una scoperta, quella di una vocazione che era rimasta
compressa dall’attività politica, ma che in fondo traeva vita dalla
stessa origine: l’appassionata solidarietà di un giovane
intellettuale del Sud italiano per la condizione umana della sua gente
e soprattutto il sentimento profondo di una rivolta dell’uomo in
quanto uomo. L’uscita
dal partito comunista non segnava, infatti, per Silone, come per tanti
altri che si erano trovati nella sua stessa situazione, un fallimento
come uomo e rivoluzionario. La
sua rivolta rimaneva integra, anche se risaliva in primo piano un suo
contenuto religioso, dal quale in ogni modo il passaggio attraverso
l’ideologia aveva espunto le ragioni della fede: la religiosità di
Silone rimane una religiosità laica, immanentistica.
Possiamo
notare nelle sue opere uno svolgersi della propria narrativa; da
“Fontamara” a “Vino e Pane”, a “Il seme sotto la neve”: il
primo romanzo è una narrazione corale, un vilento affresco di vita
popolare nel quale è trasfusa tutta la passione politico-sociale di
Silone, la sua ribellione contro un certo tipo di società costituita. Nei romanzi successivi la sua vicenda personale si trasfonde
nell’uno o nell’altro dei personaggi di primo piano e
principalmente in Pietro Spina, il rivoluzionario di origine borghese,
con una vocazione religiosa che non si smentisce mai, anche se non si
traduce più in una fede, che coinvolga, bene o male, il suo mondo
borghese nella propria vicenda, sia pure con personaggi a volte
emblematici che sono la proiezione di situazioni spirituali e ideali
dello scrittore, o di una sua personale vicenda. Il
popolo contadino è l’unico vero protagonista di “Fontamara”
mentre gli altri successivi romanzi hanno protagonisti e personaggi
che si staccano dal grande sfondo della vita popolare.
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Letteratura
e testimonianza nella narrativa di Silone
Il
problema letterario che pone l'opera di Silone, al di là della
valutazione estetica dell'opera come fatto d'arte, sembra riassumersi
nella determinazione della preponderanza o meno dell'imperativo morale
e civile. In altre parole, fino a che punto il mondo creato dalla
fantasia di Silone abbia soggiaciuto ad una funzione strumentale
rispetto allo scopo etico e politico di denunciare e testimoniare una
condizione dell'uomo e di combattere una battaglia.
Chi
conosce l'opera di Silone, compresa la sua folta attività
pubblicistica, sa che questo scopo è considerato dallo scrittore come
il più nobile e alto, tale da condizionare, religiosamente, non solo
la vita dell'uomo ma anche quelle categorie letterarie che la storia
ci ha tramandato come sovrane. Esiste in realtà, per Silone,
un'azione politica che può esplicarsi anche letterariamente ed è
quella che poggiando su un intrepido sentimento morale sceglie
soprattutto i moduli saggistici dell'indagine e della denuncia, li
isola oppure li cala nella narrativa, profondendo in essi il calore
che normalmente una cultura avvezza per secoli al primato
dell'invenzione e del lirismo riserva a quel frutto ineffabile che è
la poesia.
I romanzi di Silone sono innanzi tutto difficilmente collocabili in
seno alle correnti etterarie tradizionali. La linea in cui meglio
sembra possano innestarsi è quella di Alvaro di Jovine. Ma è anche
evidente che si staccano da ogni retroterra, pur remoto, di
meridionalismo più o meno tinto di colori veristici, o qua e là lo
sfiorano, ma stemperandosi piuttosto in risucchi che sembrano condurre
ad un generico naturalismo ottocentesco. [ ... ] Del resto Silone, con
la perentorietà che lo distingue, fu molto esplicito sulle difficoltà
d'espressione e sulle regole del bello scrivere in un brano, in parte
già citato, di Uscita di sicurezza, che può essere accolto come
basilare dichiarazione di poetica.
Egli parlò non solo della sua «assoluta necessità di testimoniare»
ma anche del «bisogno inderogabile» di liberarsi da una «ossessione»
e «di affermare il senso e i limiti di una dolorosa ma definitiva
rottura». Si tratta, infatti, tutt'assieme, dell'imperativo morale
che guida la sua letteratura e che esilia o supera le soluzioni
formali che la narrativa, per norma intrinseca, richiederebbe.
Nessun «sereno godimento estetico» infatti, quel godimento tutto
romantico della nativa espressione, animata dagli antichi demoni
dell'invenzione e della fantasia, ma la faticosa, ogni momento
recuperata e richiamata, urgenza della «testimonianza», la verità
insomma, storicamente perseguibile, di una condizione umana, di fatti
accaduti, di imperdonabili ingiustizie sempre incombenti. Da cui le
rotture nella narrazione, ricondotta ogni volta all'urgenza di quella
verità, non importa se con mutamenti strutturali, deviazioni
stilistiche o moduli diversi.
Ora possiamo passare ad esaminare più nel dettaglio l’opera di Silone. Moltissimi dei tanti lavori dello scrittore abruzzese meriterebbero di essere esaminati con attenzione,
ma, mi limiterò ad analizzarne solo i principali, omettendo estesi riassunti delle trame delle opere in esame.
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