Come
nei racconti di Raymond Carver, nelle foto di interni di Giulia
Sale non succede assolutamente nulla. Non sono gli eventi ad essere
importanti ma gli ambienti domestici, familiari, picccolo-borghesi,
dove si consuma un'esistenza anonima e banale; ogni storia è
simile a mille altre storie, ogni stanza è uguale a tante
altre infinite stanze. Ma se lo sguardo di Carver è cinico,
spietato, freddo documentatore dell'America d'oggi, quello di
Giulia Sale è tenero, carico di affettività, accondiscendente,
e i suoi interni si fanno sorprendentemente dolci. Fra tanta arte
cattiva, sprezzante, disgustosa, così come dilaga nelle
gallerie contemporanee, le visioni rassicuranti di Giulia Sale
acquistano il sapore di una pausa, di uno zucchero non stucchevole
né caramelloso, che riconcilia con la vita. Proviamo ad
entrare dentro queste stanze così silenziose, dall'atmosfera
sospesa, nel vuoto di ogni ambiente da cui manca la presenza umana
ma i cui segni sono presenti in ogni angolo della camera da letto
dai vecchi consunti mobili dozzinali o nel salotto buono con i
divani in pelle e i vasi di cristallo. La cucina-soggiorno dell'arredo
ricercato, moderno e funzionale, il tinello con i mobili d'epoca,
la stanza spoglia dal letto gigantesco, l'angolo in penombra dove
la brezza del crepuscolo smuove le pesanti tende: dalle gozzaniane
buone cose di pessimo gusto all'ordine in forme del modesto designer
contemporaneo. Un archivio di luoghi, un repertorio di situazioni,
una serie di scatti ci consegnano brandelli di vita altrui. Questi
scenari non preparati, non manipolati, colti sul loro accadere,
sorpresi in una versione attuale da neorealismo, rendono sospetta
la loro semplicità. Questo frugare in casa d'altri, rivelando
l'intimità degli sconosciuti abitatori, intrufolandosi
in luoghi apparentemente insignificanti, sembra avere l'unico
intento di una ricognizione nell'ordinario, nella familiarità
domestica.
Ogni
scatto fissa l'ambiente in un'angolazione diversa e la prospettiva
scelta rivela, accentua o dissipa gli indizi di un'assenza solo
temporanea. E ogni scatto colora gli interni solitari di una tonalità
dominante - dal rosa, all'ocra al seppia al grigio fumo - che
dilaga sulle cose, assecondando le luminosità diffuse,
ricalcando le oscurità di angoli indistinti, trasfigurando
in ogni caso la placida tranquillità. Le immagini così
ottenute sono affidate a piccoli formati che sono stati dispersi
nei grandi ambienti di Casa Olla per essere ritrovati, quasi per
caso, da altrettanti sconosciuti visitatori. Queste cartoline
piene di atmosfere colorate hanno creato una continua, piacevole
sorpresa, un gioco emozionante di scatole cinesi. Ordinate sulla
parete appena perdono del gusto sottilmente ironico ma sicuramente
fissano l'intento narrativo da cui sono ispirate. Ciò che
si avverte, prepotente, a guardarle in sequenza è, in prima
istanza, un forte sentimento di perdita, una sorta di abbandono,
qualcosa che sfugge e che niente sembra poter restituire. D'altra
parte Giulia Sale ci ha già condotto su questa strada con
precedenti lavori, come i bellissimi plotter di Nuoro (Divieto
di sosta) e, a Casa Olla, ritorna con una poetica d'interni, dove
si consuma, tra nostalgia e malinconico sentimento del tempo,
un breve inventario dell'esistenza umana, propria e altrui.
Se
ora proviamo a spingere la metafora dolciaria all'estremo potremmo
arrivare alle madeleines, ai biscotti che la zia premurosa offre
a Marcel adulto e il sapore della focaccina inzuppata nella tazza
di thé scatena il meccanismo della memoria involontaria.
È come in quel gioco in cui i giapponesi si divertono a
immergere in una scodella di porcellana piena d'acqua dei pezzetti
di carta fino allora indistinti che, appena immersi, si distendono,
prendono contorno, si colorano, si differenziano, diventano fiori,
case, figure umane consistenti e riconoscibili così ora
tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann,
e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le
loro casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto
questo che vien prendendo forma e solidità, è sorto,
città e giardini dalla mia tazza di thé.
Le
stanze dolci di Giulia Sale sono come altrettante tazze di thé
dove spuntano ricordi, risuonano voci, evocano fantasmi e si riconoscono
oggetti, suppellettili, affetti. Dentro quelle stanze ci siamo
già stati, le abbiamo abitate, appartengono al nostro vissuto,
quello vero e quello immaginario, quello che abbiamo toccato con
mano e quello che abbiamo introiettato dalla letteratura o dalla
poesia. Non importa da dove ci provengano quelle immagini, sono
nostre, sono come le proustiane intermittenze del cuore che, per
un'analogia neanche così sicura, fanno risorgere, rivelandocelo
a pieno un frammento del nostro tempo perduto.