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ATTRAVERSAMENTI 2001
una generazione di mezzo
Casa Olla [Quartu S.E.], 19 maggio, 26 giugno 2001

 
     
 
DANILO SINI

Dev'essere tempo di infanzia, momento dedicato ai bambini: mai come ora si è vista tanta attenzione all'universo infantile. Mostre come grandi eventi focalizzano lo sguardo su prospettive storiche e diacroniche (il bambino nell'arte tra otto e novecento) mentre dall'Olanda all'America si susseguono visioni meno edulcorate di un mondo distorto, alterato, persino disgustoso, come quello di Nicky Hoberman o di Hellen van Meene. Anche Danilo Sini attraversa questo terreno e non poteva essere che così: da lui dovevamo aspettarci questa estrema capacità di cogliere il presente, l'attuale, ciò che è di tutti e nessuno ancora lo sa. Le notizie di un'infanzia tradita occupano, ultimamente, l'interesse dei mass - media che non risparmiano immagini e informazioni raccapriccianti. Danilo Sini, in perenne sintonia con il proprio tempo, ne rivela le sue anguste ed oscure pieghe: è l'epoca del mostro, vuoto, sterile, volgare. Io mi limito a renderlo percepibile a chi lo ignora o finge di ignorarlo. Va da se che l'operazione di rispecchiamento di questa realtà non è così limpida o innocente come si potrebbe pensare.

Il percorso che lega il passaggio dai dati del reale alla sua elaborazione estetica è tortuoso, complesso, accidentato e mentre si precisa come creazione, lascia invischiate, per accumulo, tracce mestiche, relitti dell'inconscio, invincibile desiderio ludico. A quel punto l'opera è simbolo, metafora, altro da sé e sfugge al totale controllo del suo ideatore. Tanto più che ognuno, come è noto, può leggerla con gli occhi del proprio vissuto. Ma chi ha voglia di riconoscersi o trovare, nei "cattivibambinipentiti" di Danilo Sini, i segni di un'infanzia a chiunque questa appartenga! Questi sgraziati bambini, accigliati, sbigottiti perché privi di occhi che possano vedere, quasi deformi sull'accentuata fisicità o nella brutale semplificazione dei tratti, alterano qualsiasi criterio di normalità socialmente accettabile. La visione frontale e fortemente ravvicinata sembra a stento contenerli nel campo visivo da cui è eliminata qualsiasi altra presenza che li renda più umani e meno crudelmente descritti. I colori ridotti. A poche gamme, date per larghe zone piatte, il violento contrasto tra figura e sfondo, l'uso del bianco e nero come in una vecchia foto, accrescono l'aspetto visionario dell'immagine che si coglie in tutta la sua enigmatica presenza. Questi bambini che hanno perso l'innocenza e che dovrebbero nutrire un vago senso di colpa per le proprie malefatte rivelano al contrario, la propria diabolica natura che solo per un caso assume l'aspetto infantile ma che, in realtà, è vagamente antropomorfa. Che sia, questa, una maniera per ragionare sulle mostruosità del nostro presente e dal momento che questa non può non generare conflittualità, le immagini che ne derivano prendono un carattere ostile, nemico, minaccioso: l'altra faccia, insomma, di ciò che appare comunemente o di ciò che comunemente è bene pensare.

L'incompatibilità di queste visioni con il senso comune risponde, in definitiva, a quel rovesciamento di significati che è pratica abituale nel lavoro di Danilo Sini e che, con disinvolta e sorprendente capacità, può prendere l'aspetto dell'installazione o del plottage, dalla forma scultorea o, come in questo caso, dell'olio su legno. A non mutare pelle è il nucleo profondo dei suoi interventi che lasciano inalterato l'oggetto del suo credo artistico: inutilità del fare arte. Per lui l'arte è gesto necessario ma paradossalmente inutile: l'opera, dice Sini, nasce nel vuoto e nel vuoto risuona. L'artista, inascoltato profeta, non può sottrarsi al compito di interrogare la realtà di cui è parte, solo che, mutata la prospettiva, vede laddove gli altri guardano soltanto. E ciò che scopre, eticamente, sente il dovere di dirlo anche a costo, ormai certo, dell'incomunicabilità. Se poi nel dirlo, ciò che sente, pone anche una cura minuziosa nella tecnica, e perfino un senso raffinato della qualità pittorica, tra il soggetto rappresentato e la sua pratica operativa si genera una voluta, ricercata incongruenza che crea disagio e insofferenza in chi osserva. Allora, i suoi "cattivibambinipentiti", non sono altro che la proiezione del mondo degli adulti, sono l'occhio grottesco e deformante di chi l'innocenza l'ha persa da tempo, la trasposizione, insomma, della torbida, malata intimità dell'uomo contemporaneo. Come in un racconto di Herry James (Un giro di vite) si perde, anche nel suo lavoro, la certezza di cosa abbiamo sotto gli occhi e non sappiamo se siamo noi a guardare o gli altri che ci guardano. E poi Danilo Sini dovrebbe saperlo, i bambini non si pentono mai!