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ATTRAVERSAMENTI 2001
una generazione di mezzo
Casa Olla [Quartu S.E.], 19 maggio, 26 giugno 2001

 
     
 
GIORGIO URGEGHE

Più sfacciatamente invasivo il lavoro di Giorgio Urgeghe che si riappropria, a Casa Olla, di una dimensione d'apparenza innocente e giocosa che riemerge, a intermittenza, nella sua intera produzione.
Dei grandi rotoli di stoffa dipinta e cucita, satura di erba secca, scendono da una trave del soffitto e creano una scenografia di forme e colori intensa e ridente, come un bizzarro materasso per sonni poco tranquilli. Le strutture morbide e colorate, dalle sequenze intercambiabili, possono essere manipolate a proprio piacimento, possono assumere cioè le forme e le immagini che di volta in volta vogliamo attribuirle e possono interferire nel nostro campo visivo come un gigantesco sistema di neon luminosi che abbagliano e disorientano le nostre consuetudini percettive.
Questi lunghi cilindri che sembrano volersi appropriare dello spazio sono strutture elementari di un alfabeto semplificato e reso materico, una geometria formale concretizzata nella densità e consistenza dei rotoli che pendono impunemente nel vuoto e si avvitano sul pavimento come immagine senza forma significante.
Le qualità del lavoro di Urgeghe sono infatti, prima di tutto, di natura pittorica e sensoriale in quanto fondono insieme il cromatismo della tela trattata con colori ad acqua (come le sue note idropitture) e la flessuosità dei cilindri che sollecitano sensazioni tattili e sinestesie spiazzanti e, contemporaneamente, invitano lo spettatore ad un contatto fisico e liberatorio. Si avvertono subito, di fronte all'opera, le sue molteplici possibilità combinatorie, secondo eventuali umori e secondo spazi attraversabili ma, anche, l'imprevedibilità del caso e perciò del significato estetico che gli si potrebbe attribuire. Si fa strada, infatti, nel suo lavoro, l'idea, cara a molta scultura contemporanea (basti pensare a Bernar Venet), del mucchio, dell'ingombro, che, negando la tradizionale verticalità della scultura, si aggroviglia su se stesso sottostando all'ineluttabile legge della gravità. Se l'opera, dunque, non ha un ordine statico, necessariamente si definisce sul piano dinamico e si pone come "opera aperta", nel senso cioè che si tratta di un'istintiva e inconscia manipolazione della realtà stessa.

Al di là dell'apparenza, rimane fondamentale comunque, nella ricerca di Urgeghe, la manualità domestica, quella lirica artigianalità che comporta pazienza e tempi d'attesa, quel fare e disfare, comporre e scomporre, di cui quest'opera appare come la più compiuta metafora. La pittura si fa così azione, comportamento deliberato a insidiare dubbi e sconcerto, a porsi a bella posta come irritante e irriverente verso ogni acquisita certezza: il suo lavoro infatti si pone, ormai da alcuni anni, al di là di ogni probabile registro, fuori da ogni possibilità di controllo e facile comprensione, portando con sé una trasgressione implicita, una volontà provocatoria che trasforma le sue opere in oggetti parlanti di un mondo che non piace e non appaga. Non sono dunque, quelli di Urgeghe, oggetti autoreferenziali, anzi, in loro si annida una certa perversità, un gusto dissacratorio che può prendere l'aspetto della brutalità infantile (come nel ciclo dedicato ad Adalberto Tricca) o, come in questo caso, dell'aleatorietà della forma, della fisicità instabile, creata e negata allo stesso tempo. Su questo terreno Urgeghe incontra tanta parte della cultura americana del secondo '900, per cui l'artista è "assillato dalla contraddizione della propria esistenza di artista in una società per cui l'arte non può avere alcun significato". Le operazioni di Urgeghe, non c'è dubbio, non riescono a nascondere, al di là dell'aspetto giocoso e giullaresco, quel disagio del sociale che si trascinano, volenti o no, appresso.
Così, sia che si muova sul piano del grottesco o del repellente, sia che tenti la via della figuratività o dell'astrazione, ciò che rimane incancellabile è, in ogni caso, l'assurdo del quotidiano.