Più
sfacciatamente invasivo il lavoro di Giorgio Urgeghe che si riappropria,
a Casa Olla, di una dimensione d'apparenza innocente e giocosa
che riemerge, a intermittenza, nella sua intera produzione.
Dei grandi rotoli di stoffa dipinta e cucita, satura di erba secca,
scendono da una trave del soffitto e creano una scenografia di
forme e colori intensa e ridente, come un bizzarro materasso per
sonni poco tranquilli. Le strutture morbide e colorate, dalle
sequenze intercambiabili, possono essere manipolate a proprio
piacimento, possono assumere cioè le forme e le immagini
che di volta in volta vogliamo attribuirle e possono interferire
nel nostro campo visivo come un gigantesco sistema di neon luminosi
che abbagliano e disorientano le nostre consuetudini percettive.
Questi lunghi cilindri che sembrano volersi appropriare dello
spazio sono strutture elementari di un alfabeto semplificato e
reso materico, una geometria formale concretizzata nella densità
e consistenza dei rotoli che pendono impunemente nel vuoto e si
avvitano sul pavimento come immagine senza forma significante.
Le
qualità del lavoro di Urgeghe sono infatti, prima di tutto,
di natura pittorica e sensoriale in quanto fondono insieme il
cromatismo della tela trattata con colori ad acqua (come le sue
note idropitture) e la flessuosità dei cilindri che sollecitano
sensazioni tattili e sinestesie spiazzanti e, contemporaneamente,
invitano lo spettatore ad un contatto fisico e liberatorio. Si
avvertono subito, di fronte all'opera, le sue molteplici possibilità
combinatorie, secondo eventuali umori e secondo spazi attraversabili
ma, anche, l'imprevedibilità del caso e perciò del
significato estetico che gli si potrebbe attribuire. Si fa strada,
infatti, nel suo lavoro, l'idea, cara a molta scultura contemporanea
(basti pensare a Bernar Venet), del mucchio, dell'ingombro, che,
negando la tradizionale verticalità della scultura, si
aggroviglia su se stesso sottostando all'ineluttabile legge della
gravità. Se l'opera, dunque, non ha un ordine statico,
necessariamente si definisce sul piano dinamico e si pone come
"opera aperta", nel senso cioè che si tratta
di un'istintiva e inconscia manipolazione della realtà
stessa.
Al
di là dell'apparenza, rimane fondamentale comunque, nella
ricerca di Urgeghe, la manualità domestica, quella lirica
artigianalità che comporta pazienza e tempi d'attesa, quel
fare e disfare, comporre e scomporre, di cui quest'opera appare
come la più compiuta metafora. La pittura si fa così
azione, comportamento deliberato a insidiare dubbi e sconcerto,
a porsi a bella posta come irritante e irriverente verso ogni
acquisita certezza: il suo lavoro infatti si pone, ormai da alcuni
anni, al di là di ogni probabile registro, fuori da ogni
possibilità di controllo e facile comprensione, portando
con sé una trasgressione implicita, una volontà
provocatoria che trasforma le sue opere in oggetti parlanti di
un mondo che non piace e non appaga. Non sono dunque, quelli di
Urgeghe, oggetti autoreferenziali, anzi, in loro si annida una
certa perversità, un gusto dissacratorio che può
prendere l'aspetto della brutalità infantile (come nel
ciclo dedicato ad Adalberto Tricca) o, come in questo caso, dell'aleatorietà
della forma, della fisicità instabile, creata e negata
allo stesso tempo. Su questo terreno Urgeghe incontra tanta parte
della cultura americana del secondo '900, per cui l'artista è
"assillato dalla contraddizione della propria esistenza di
artista in una società per cui l'arte non può avere
alcun significato". Le operazioni di Urgeghe, non c'è
dubbio, non riescono a nascondere, al di là dell'aspetto
giocoso e giullaresco, quel disagio del sociale che si trascinano,
volenti o no, appresso.
Così, sia che si muova sul piano del grottesco o del repellente,
sia che tenti la via della figuratività o dell'astrazione,
ciò che rimane incancellabile è, in ogni caso, l'assurdo
del quotidiano.