Marco Cimarosti - Il Milione, Festival del viaggio, Pisa 2006 [Non legitur] [Home]
 

Presentazione di Non legitur al Festival del viaggio di Pisa

Il 1º dicembre 2006, sono stato invitato a parlare di Non legitur nell'ambito della prima edizione del Festival del viaggio Il Milione.
Con il cortese permesso dell'autrice, ripubblico qui la presentazione di Cecilia Rofena, filosofa del linguaggio e della mente presso il Dipartimento di filosofia dell'Università di Pisa.


Brochure del festival Il Milione 2006

«  Alfabeti che non appartengono alla familiarità della nostra lingua spesso si allontano, in un errore di prospettiva, dalla contemporaneità del presente, e li collochiamo in distanze che da geografiche si fanno anche temporali; essi devono essere restituiti alla simultaneità di culture che si incontrano e si attraversano  »

Brochure del festival Il Milione 2006

 

Marco Cimarosti – Non legitur. Giro del mondo in trentatré scritture – Stampa Alternativa e Graffiti, Nuovi Equilibri, Viterbo 2005

di Cecilia Rofena (Università di Pisa)

Quanto ci dice la forma delle parole e l’uso che della forma delle parole si è fatto? La morfologia di 33 scritture, la storia della loro origine ed evoluzione, sono l’oggetto di questo testo, di un viaggio genealogico, all’origine degli alfabeti. Storia delle scritture, delle ortografie e delle fonetiche, delle differenze dei sistemi linguistici e sfida che il testo propone al lettore, invito a non rinunciare di fronte all’iniziale estraneità dei segni, alla constatazione di un “non legitur”. Contro lo scetticismo dell’accento posto sulle difficoltà della traduzione, dei limiti che la comprensione e la traduzione incontrano quando affrontano gli ostacoli linguistici della comunicazione, si possono considerare, invece, confini porosi e permeabili. Là dove le mitologie hanno visto il segno di una catastrofe o di una punizione divina si può rintracciare un vantaggio, una ricchezza. L’opera di traduzione è implicita in ogni atto di comunicazione; comprendere significa decifrare. L’umanità ha parlato all’incirca ventimila lingue e ognuna di esse ha rappresentato un modo di costruire il mondo, di articolarlo, un mondo possibile, miti, poesia, filosofie, leggi, discorsi politici.

La scelta di questo testo di farsi un manuale di 33 alfabeti è quella della fiducia interpretativa, della prassi della traduzione, della prova ad attraversare le differenze, per trovarsi meno estranei e lontani di quanto le differenze non lascino credere all’inizio del viaggio. Questo viaggio attraverso 33 scritture è il risultato dell’esperienza che Marco Cimarosti, analista-programmatore, ha tratto dall’informatica, risultato della concreta realizzazione attraverso i linguaggi del computer, di nuove pratiche di codifica e lettura. Un manuale di 33 lingue scritte costituisce la possibilità di un viaggio comparativo, di un’esplorazione cognitiva nei sistemi linguistici oggi in uso.

Partendo dalla constatazione di un limite, dalla constatazione che qualcosa è estraneo e difficile – “non legitur”, appunto – si passa alla realtà di un “legitur”, di un “posse et licere”. La curiosità nello scorrere i caratteri, nel tentare forme di lettura, è il primo passo verso la comprensione più complessa della traduzione. Alfabeti che non appartengono alla familiarità della nostra lingua spesso si allontano, in un errore di prospettiva, dalla contemporaneità del presente, e li collochiamo in distanze che da geografiche si fanno anche temporali; essi devono essere restituiti alla simultaneità di culture che si incontrano e si attraversano, riconsegnate alla sincronicità dei sistemi linguistici effettivamente praticati, come ci insegnano le convivenze delle nostre città, i viaggi o le lingue formalizzate dei computer. Una sfida praticabile, un esercizio di attenzione, di estensione del confine di ciò che può essere decifrato o avvicinato nell’incontro reale del viaggio nelle lingue, è la tensione che guida nella lettura di questo libro. Marco Cimarosti ci invita a cimentarsi con la difficoltà di superare la lontananza per ciò che altrimenti resta ghirigoro, scarabocchio, ornamento e non pensiero, storia e cultura. Non è vero che ciò che non riconosciamo ad un primo sguardo non ci possa col tempo appartenere, anche se non risponde subito ai contorni del noto, ai confini della familiarità, ai canoni della somiglianza, della fisionomia nota. Oggi perfino la scienza considera un vantaggio la varietà dei codici linguistici attraverso i quali si può giocare su campi diversi l’estensione della sua validità. È questa, per esempio, la posizione di Paul Feyerabend. Come in parlamento la pluralità delle voci è la differenza che fa la differenza, e non il tentativo di unirle e assorbirle in un’unica versione, così la punizione di Babele diventa una benedizione per l’articolazione possibile dell’esperienza e della libertà attraverso le diverse lingue.

L’istanza della scrittura non è soltanto la rappresentazione della parola, la trascrizione sistematica del linguaggio in forma visiva, ma la griglia su cui poggia il pensiero, ciò che resta e si cristallizza del flusso di conoscenza ed esperienza, la traccia di una memoria. La biologia parla di scrittura, così anche la cibernetica a proposito dei programmi. La scrittura segna tre momenti cognitivi indispensabili ad ogni forma di tradizione: memorizzazione, formazione e trasmissione di un determinato sapere. Il passaggio dal gesto alla lingua è stato fondamentale per la condizione umana, così come quello dalle culture manoscritte alle culture dotate della stampa. Questi cambiamenti hanno significato modi diversi di archiviare le informazioni e oggi è in corso una nuova trasformazione per la vastità dei nostri archivi informatici.

Marco Cimarosti, nella sua nota introduttiva all’origine della lingua cinese, distingue i simboli ritrovati su antichi manufatti, che ricorrono ancora oggi nella scrittura cinese, risalenti a 6000 anni fa, dal valore dei logogrammi della lingua che “si possono leggere a voce alta”. Condillac, nel suo Trattato sulle sensazioni, parla di una nascita del linguaggio dall’urlo, dalla voce individuale che si affina e si articola nella comunicazione. La priorità della voce, il primato dell’espressione, della phoné è un tema caro alla filosofia, che ritroviamo in Husserl, e poi in Heidegger, fino a Derrida in cui il primato della scrittura nella mente dell’uomo è l’assetto che precede ogni dire, una struttura implicita della mente.

V’è un suono preposizionale che riconosciamo: struttura di tipo armonico del linguaggio, modulazione, melodia, assonanze, dissonanze, pause di silenzio, che ci permette di riconoscere, di instaurare la familiarità del riconoscimento. Noi riconosciamo il volto familiare di una parola, la sua fisionomia nel discorso. Possiamo cogliere la musicalità, il ritmo, le ricorrenze, come le somiglianze tra lingue. Ma non possiamo uscire dalla nostra pelle linguistica. Questo testo ci insegna ad imparare di nuovo a leggere, ad imparare a riconoscere il cambiamento di aspetto.

Wittgenstein, un filosofo per il quale la filosofia è simile alla guida di una città, al funzionamento del linguaggio pensato come città, ricordava che – “la città del linguaggio ha molte parti diverse: il centro storico con i vecchi palazzi stretti insieme, poco spazio ma molto interessante ed avvincente, e intorno ci sono i grandi edifici nuovi, le scienze, ordinati e irreggimentati. E come si aggiungono nuovi quartieri periferici, così ci sono nuovi luoghi in cui il filosofo può fare da guida.”.

© 2006 Cecilia Rofena