È perseguibile penalmente chi "elude"
un provvedimento del giudice civile
Reato non educare i figli a vedere l’ex coniuge
(Cassazione 2925/2000)
Commette reato il genitore affidatario dei figli minori se non li educa e non li sensibilizza
ad avere un rapporto con l’altro genitore dal quale vivono separati, in quanto anche tale comportamento "omissivo"
può costituire l’ "elusione" dolosa di un provvedimento del giudice. La VI Sezione Penale della
Corte di Cassazione fornisce una interpretazione estensiva dell’art. 388 del codice penale – che disciplina il reato
di "mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice" – ricomprendendovi anche il comportamento
del genitore separato che, non attivandosi per far sì che i figli minori vedano l’altro coniuge secondo
quanto stabilito dal giudice, si riflette negativamente sulla psicologia dei minori stessi.
La Cassazione ha confermato la condanna inflitta da un uomo, padre di due bambine con lui conviventi ma diseducate
ad un rapporto costante con la madre, nei tempi e nei modi stabiliti dal giudice civile al momento della separazione,
al punto che la donna era stata costretta a non avere più contatti con le figliolette. Nonostante la magistratura
avesse emesso ben tre ordinanze per assicurarle il diritto di visita, i provvedimenti erano rimasti inattuati a
causa dell’inattività del padre che non si era adoperato in tal senso. Proprio la mancata collaborazione
del genitore aveva reso ineseguibili i provvedimenti del giudice civile, e per questo motivo l’uomo era stato condannato.
La Suprema Corte ritiene giusta la condanna, in quanto, considerato il "ruolo centrale" che assume il
genitore affidatario nel favorire gli incontri dei figli minori con l’ex coniuge, l’ "atteggiamento omissivo"
del genitore che non educa e sensibilizza i figli a vedere l’altro genitore finisce con l’eludere il provvedimento
con il quale il giudice aveva imposto il diritto di visita; tale comportamento finisce inoltre con il riflettersi
negativamente sulla psicologia dei minori, indotti essi stessi a "contrastare gli incontri con il genitore
non affidatario", proprio perché non "sensibilizzati" ed "educati" al rapporto
con l’altro genitore. (16 marzo 2000)
Sentenza della Corte suprema di Cassazione Sezione VI penale
2925 del 2000 depositata il 9 marzo 2000.
La Corte suprema di Cassazione
(…)
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sul ricorso proposto da B. Angelo Antonio, nato a Buccino il 6.10.1958,
avverso la sentenza 7.5.1999 della Corte d’Appello di Salerno;
Visti gli atti, la sentenza denunzia ed il ricorso,
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr. Milo;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale dr. Giuseppe Veneziano
Che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore avv. A.Gaeta, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Fatto e diritto.
La Corte d’Appello di Salerno, con sentenza 7 maggio 1999, confermava quella in data 21.1.1997
del Pretore di Salerno _Sez. Rocca daspide _, che aveva dichiarato Angelo Antonio B. colpevole del reato di cui all’art. 388/2°c.p. [1] e,
in concorso delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alla recidiva, lo aveva condannato alla pena, condizionalmente
sospesa, di un anno e mesi sei di reclusione.
Si era addebitato all’imputato di essersi sottratto all’adempimento degli obblighi derivanti
da tre ordinanze del giudice civile, concernenti l’affidamento delle figlie minori, avendo impedito alla moglie
di vederle nei giorni stabiliti dai predetti provvedimenti.
La Corte di merito riteneva di ravvisare, nella condotta tenuta dall’imputato, gli estremi del
reato contestatogli, avendo posto la moglie nella condizione di dovere interrompere ogni rapporto con le figlie
e di dover ricorrere ripetutamente all’intervento del giudice, proprio per gli ostacoli frappostile dal marito
all’esercizio del diritto di incontrare le figlie, senza _ per altro _ che la predetta raggiungesse lo scopo.
Avverso tale pronuncia, ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, l’imputato
e, nel sollecitare l’annullamento della decisione, ha dedotto: 1) difetto di motivazione in relazione alle puntuali
e articolate doglianze formulate con l’appello in punto di responsabilità ,nonché in relazione all’entità
della pena, eccessivamente severa in rapporto al fatto e alla sua personalità; 2) inosservanza della legge
penale, con riferimento all’art. 388/2° c.p. considerato che la integrazione dell’illecito da tale norma previsto
poteva configurarsi solo in relazione a una condotta commissiva, che andava provata, e non già in relazione
a una mera condotta omissiva.
All’odierna udienza pubblica, le parti hanno concluso come da epigrafe.
Il ricorso è solo in parte fondato e va accolto nei limiti di seguito precisati, mentre
per il resto va rigettato.
Prive di pregio sono le doglianze in tema di responsabilità, atteso che la sentenza impugnata
fa buon governo della norma di cui all’art. 388/2°c.p. e riposa su un apparato argomentativo assolutamente
adeguato e logico, che si sottrae a qualsiasi censura rilevante in questa sede di legittimità.
Ed invero, devesi, innanzi tutto, puntualizzare che, ai fini della sussistenza del reato di mancata
esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice che concerna l’affidamento dei minori, il termine "elude"
va inteso in senso ampio, essendo comprensivo di qualsiasi comportamento, positivo o negativo, che non esige scaltrezza
o condotta subdola per evitare l’esecuzione del predetto provvedimento; se è vero che la semplice inattività,
in genere, non integra l’elusione, non può disconoscersi che l’azione negativa dell’obbligato assume rilievo,
ai fini della configurazione dell’illecito in esame, ogni volta che il relativo obbligo richieda, per essere adempiuto,
una certa collaborazione da parte del soggetto cui è imposto, in difetto della quale, divenendo il provvedimento
del giudice difficilmente eseguibile, si ha elusione del provvedimento stesso.
Nella specifica materia in esame, è di intuitiva evidenza il ruolo centrale che assume
il genitore affidatario nel favorire gli incontri dei figli minori con l’altro genitore, e ciò a prescindere
dall’osservanza burocratica del relativo obbligo imposto col provvedimento giurisdizionale. Ne consegue che il
rifiuto di fatto opposto dal genitore affidatario alla richiesta _ verbale o scritta _ dell’altro genitore di esercitare
il diritto di visita dai figli concreta l’elusione del provvedimento giurisdizionale che regolamenta tale rapporto,
proprio perché l’atteggiamento omissivo dell’obbligato finisce col riflettersi negativamente sulla psicologia
dei minori, indotti così a contrastare essi stessi gli incontri col genitore non affidatario, proprio perché
non sensibilizzati ed educati al rapporto con costui dall’altro genitore.
Con riferimento al caso specifico, la sentenza impugnata ha sottolineato, in maniera sintetica,
ma incisiva, che la parte offesa era stata costretta, a seguito dei ripetuti rifiuti del marito, a fare ricorso
al Giudice, senza per altro raggiungere lo scopo, data la persistente ostinazione dell’obbligato; ha aggiunto,
inoltre, che l’ostacolo agli incontri della madre con le bambine era da ricercarsi anche nell’influenza negativa
che su queste ultime avevano esercitato i congiunti del prevenuto (così come accertato nella c.t.v. acquisita
_ a sostanziale rinnovazione del dibattimento _ nel giudizio d’appello), evento questo che lo stesso prevenuto
avrebbe avuto il dovere di evitare.
Fondata, invece, è la censura sull’entità del trattamento sanzionatorio. Non è
dato, infatti, riscontrare, nella sentenza di primo e secondo grado, una motivazione appagante, che dia ragione
dell’esercizio del potere discrezionale del giudice di merito nella scelta della misura della pena, fissata ad
un livello apparentemente elevato in relazione alla previsione edittale (reclusione fino a tre anni o multa da
L. 200.000 a L. 2.000.000).
Nella determinazione del trattamento sanzionatorio il Giudice gode, infatti, di una discrezionalità
vincolata, nel senso che, quanto più si discosta dal minimo edittale, ipotesi questa in cui viene concretamente
a mancare la necessità di esplicita motivazione, tanto più deve dare ragione dei criteri legali che
sono sintetizzabili nella retribuzione (gravità complessiva del fatto) e nella prevenzione sociale (capacità
a delinquere in termini di attitudine del reo a commettere crimini). Non può ritenersi congruo, per giustificare,
il corretto esercizio del potere discrezionale, il generico richiamo "all’entità del fatto" e
"alla personalità dell’imputato", ove la scelta si orienti , come è avvenuto nella specie,
per una pena notevolmente rigorosa (almeno in apparenza). E' necessario, in tale ipotesi, non affidare il relativo
giudizio a mere clausole di stile, ma analizzare, nel dettaglio, quei criteri tipizzatori di natura oggettiva e
soggettiva indicati nell’art. 133 c.p. e individuare quelli ritenuti rilevanti per la scelta che si va a fare,
sì da offrire una base argomentativa adeguata a conforto del corretto esercizio del potere discrezionale.
Limitatamente a questo aspetto, la sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata con rinvio
alla Corte d’Appello di Napoli, per nuovo giudizio.
E' il caso di sottolineare che, in sede di rinvio, non può farsi questione in ordine ad
un’eventuale prescrizione del reato, considerato che la sentenza è ormai irrevocabile nella parte relativa
all’affermazione di colpevolezza dell’imputato (giudicato progressivo). L’annullamento che riguarda solo la parte
della sentenza relativa al quantuni (non all’an) della pena, che dovrà eventualmente essere rideterminata
ma non potrà essere eliminata, non va ad incidere sulla parte concernente l’affermazione della responsabilità,
che resta intangibile (cfr. Cass. S.V. 26.3.97 n. 2, Attinà).
P.Q.M.
Annulla l’impugnata sentenza, limitatamente all’entità della pena inflitta, e rinvia,
per nuovo giudizio, alla Corte d’Appello di Napoli.
Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso il 18.11.1999.
Sentenza depositata il 9 marzo 2000.