DIRITTO DEL CONIUGE DIVORZIATO
A UNA QUOTA DEL T.F.R. DELLALTRO CONIUGE
Sussiste nel periodo successivo alla domanda di divorzio
Cassazione Sezione Prima Civile n. 5553 del 7 giugno 1999
Pres. ed Est. Finocchiaro, Rel. Losavio
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Alfio FINOCCHIARO Est. Finocchiaro
Dott. Giovanni LOSAVIO Rel. Consigliere
Dott. Alessandro CRISCUORO Consigliere
Dott. Donato PLENTEDA Consigliere
Dott. Aniello NAPPI Consigliere
ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
sul ricorso proposto da:
TESTA ORESTE, elettivamente domiciliato in Roma
Via Attilio Friggeri n. 106, presso lavvocato Michele
Tamponi, che lo rappresenta e difende unitamente
allavvocato Paolo Manetti, giusta delega a margine del
ricorso;
- ricorrente -
c o n t r o
PIERONI MARINA, elettivamente domiciliata in
Roma Piazza Sallustio 9, presso lavvocato Bartolo Spallina,
che la rappresenta e difende unitamente allavvocato Roberto
Lombardi, giusta delega a margine del controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 965/97 della Corte
d'Appello di FIRENZE, depositata il 20/6/97;
udita la relazione della causa svolta nella
pubblica udienza del 12/1/99 dal Consigliere Dott. Giovanni
LOSAVIO;
udito per il ricorrente, l'Avvocato
Manetti, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;
udito per il resistente, l'Avvocato
Spallina, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto
Procuratore Generale Dott. Giovanni Giacalone che ha
concluso per il rigetto del ricorso o in subordine la rimessione
alle Sezioni Unite.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il
25 ottobre 1993, Oreste Testa chiedeva che il Tribunale di
Firenze dichiarasse la cessazione degli effetti civili del
matrimonio da lui contratto con Marina Pieroni il 14 agosto 1958.
Sul piano economico il ricorrente, premesso che in sede
di separazione consensuale omologata il 23 dicembre 1988, era
stato concordato il versamento, in favore della moglie, di un
assegno mensile di £. 300.000, annualmente rivalutabili,
chiedeva che venisse negato alla convenuta la somministrazione di
un assegno divorzile atteso che, nelle more, esso Testa medico
cardiologo presso la USL era andato in pensione, con conseguente
diminuzione della sua capacità economica, mentre la Pieroni
continuava a svolgere la sua attività di insegnante.
Nel costituirsi, la Pieroni, non contestava la domanda
di scioglimento del matrimonio, ma chiedeva la corresponsione di
assegno di divorzio nonché di percentuale dell'indennità di
fine rapporto prevista dall'art. 12-bis della legge n. 898
del 1970.
Il Tribunale, prima con sentenza non definitiva
pronunziava il divorzio, e, poi, con sentenza definitiva del 5
dicembre 1995, rigettava la domanda riconvenzionale.
Tale ultima sentenza era riformata dalla Corte d'Appello
di Firenze, con sentenza 20 giugno 1997, con la quale
poneva a carico del Testa un assegno mensile di £. 300.000, con
clausola di adeguamento automatico secondo gli indici ISTAT, a
decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza; dichiarava
lo stesso Testa obbligato a corrispondere a Marina Pieroni una
percentuale dell'indennità di fine rapporto da lui percepita
pari al quaranta per cento dell'indennità totale riferibile agli
anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio;
poneva a carico del Testa i tre quarti delle spese del doppio
grado di giudizio.
A sostegno della pronuncia, per la parte che interessa
l'odierno ricorso per cassazione, la Corte d'appello osservava:
- che, una volta accertato il diritto della Pieroni
all'assegno di divorzio, sussistevano anche le altre condizioni
per il riconoscimento di quota dell'indennità di fine rapporto,
ai sensi dell'art. 12-bis della legge n. 898 del 1970 (non
avvenuto passaggio a nuove nozze della richiedente; avvenuta
percezione da parte del Testa di indennità di fine rapporto di
lavoro);
- che poiché ai sensi della norma da ultimo citata il
diritto alla percentuale dell'indennità compete "anche
se lindennità viene a maturare dopo la sentenza",
tale percentuale spetta pure nell'ipotesi in
cui l'indennità sia maturata, come nella specie, prima della
sentenza, nel concorso delle altre disposizioni di legge;
- che tale interpretazione era stata avvalorata dalla
Corte di cassazione con la sentenza n. 7249 del 1995.
Avverso questa decisione il Testa ha
proposto ricorso per cassazione articolato su un unico motivo cui
resiste con controricorso la Pieroni.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l'unico motivo di ricorso si
deduce violazione dell'art. 12-bis della legge n. 898 del
1970; omessa pronuncia su punto decisivo prospettato da esso
ricorrente e cioè sul fatto che l'indennità era stata riscossa
prima della separazione e, in subordine, si solleva questione di
legittimità costituzionale dello stesso disposto dell'art. 12-bis.
Rileva il Testa che l'indennità era stata da lui
maturata non solo prima dell'inizio del giudizio di divorzio, ma
prima ancora dell'udienza di comparizione dei coniugi davanti al
presidente del tribunale nel procedimento di separazione
personale, allorché non esisteva alcun obbligo di non disporre
liberamente della somma a quel titolo percepita.
L'interpretazione del disposto di cui all'art.12-bis che
non pone alcun limite temporale a ritroso rispetto alla sentenza
di divorzio esporrebbe la norma a un fondato dubbio di
incostituzionalità, per violazione del principio di
ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., giacché soltanto
l'inizio del giudizio di divorzio o il momento del giudizio di
separazione personale in cui siano stati dal presidente del
tribunale pronunciati i provvedimenti interinali - fallito il
tentativo di conciliazione - possono costituire il termine a
quo che legittima il limite alla libera disponibilità
dell'indennità successivamente maturata.
Il ricorso è fondato sulla base delle considerazioni
che seguono.
L'art. 12-bis, comma 1, della legge n. 898 del
1970, introdotto dall'art. 16 della legge n. 74 del 1987, prevede
che il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata
sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili
del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e
in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell'articolo 5, ad
una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita
dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di
lavoro, anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza.
Non controverse le altre condizioni, questa Corte ha
il compito dell'interpretazione della parte finale della
disposizione in cui è previsto il diritto alla quota anche se
l'indennità viene a maturare dopo la sentenza.
Si tratta cioè di accertare se la quota
spetta qualora l'indennità sia venuta a maturare prima della sentenza
di divorzio e addirittura, quando, come nella specie è pacifico,
l'indennità sia maturata e sia stata percepita in pendenza del
giudizio di separazione, o se invece la norma consente di fornire
una interpretazione, temporalmente, limitativa del diritto alla
quota.
Questa Corte, con la sentenza richiamata nella decisione
impugnata, ha affermato il principio secondo in tema di divorzio,
il diritto di un coniuge ad una quota del trattamento di fine
rapporto lavorativo percepito dall'altro coniuge, ai sensi
dell'art. 12-bis della L. 1 dicembre 1970 n. 898,
introdotto dall'art. 16 della L. 6 marzo 1987 n. 74, può essere
attribuito con lo stesso provvedimento attributivo dell'assegno
di divorzio, atteso che, se il diritto alla quota permane
"anche se l'indennità viene a maturare dopo la
sentenza" di divorzio, secondo il tenore letterale dell'art.
12-bis, tale diritto deve conseguentemente riconoscersi
pure nel caso in cui l'indennità sia maturata prima di
detta sentenza, quando ovviamente al coniuge non è stato ancora
attribuito in modo definitivo (con sentenza passata giudicato)
l'assegno divorzile (Cass. 27 giugno n. 7249).
Tale decisione è argomentata esclusivamente sul dato
letterale costituito dalla congiunzione anche, da ciò
traendosi - a contrario - la conclusione che il diritto
alla quota spetta in ipotesi di indennità maturata prima della
sentenza di divorzio, senza altro limite che non sia quello della
maturazione in un momento anteriore all'entrata in vigore della
legge n. 74 del 1987 (così, oltre la sentenza da ultimo
richiamata, anche Cass. 29 maggio 1993 n. 6047).
La tesi non può essere seguita nella sua assolutezza.
E' bensì vero che l'art. 12 delle preleggi - enunciando
il principio secondo cui nell'applicare la legge non si può ad
essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal
significato proprio delle parole secondo la connessione di esse -
sembra impedire una qualsiasi altra interpretazione, limitativa
della portata letterale della disposizione, ma il dilemma non si
pone in questi termini dovendosi tenere anche presente
l'intenzione del legislatore, espressamente richiamata nella
norma, nonché il principio secondo cui, quando di una norma sono
possibili due interpretazioni, di cui una soltanto conforme alla
Costituzione, l'alternativa è solamente apparente non essendoci
per il giudice che l'unica opzione di seguire l'interpretazione non confliggente con la
carta fondamentale.
L'intenzione del legislatore si ricava dalla disciplina
in concreto attuata.
Tutte le disposizioni di carattere patrimoniale - non
esclusa quella di cui all'art. 12-bis - contenute nella
legge n. 898 del 1970 sono dirette a regolare i rapporti fra gli
ex coniugi per il periodo successivo allo scioglimento o alla
cessazione degli effetti civili del matrimonio, prendendo in
considerazione la situazione esistente al momento della pronuncia
di divorzio: è infatti in relazione a tale momento che vengono
determinate le condizioni economiche dei coniugi e viene
stabilito se il coniuge avente diritto all'assegno abbia o meno
redditi adeguati o se non possa procurarseli per ragioni
oggettive.
Per il periodo di separazione operano le disposizioni
contenute nell'art. 156 c.c., nonché, in caso di successione,
quelle di cui all'art. 548 c.c., mentre, per il periodo di
costanza di matrimonio, i rapporti sono regolati dalle
disposizioni che regolano il regime del rapporto di coniugio.
E' pacifico e non controverso che fra i coniugi
separati, giudizialmente o consensualmente, nonché fra i coniugi
prima della pronuncia di separazione, operano rispettivamente i
regimi patrimoniali propri di tali istituti, che non prevedono in
alcun modo la partecipazione di un coniuge all'indennità di fine
rapporto percepito dall'altro.
Da ciò l'ulteriore, ineludibile, conseguenza e cioè
che - in difetto di espresse disposizioni - colui il quale
realizza un'entrata patrimoniale può disporne liberamente, nel
rispetto dei limiti fissati dall'ordinamento, ma non è tenuto in
alcun modo ad accantonarla in previsione di un evento futuro ed
incerto, quale il sopravvenire di una pronuncia di divorzio, con
previo riconoscimento dell'obbligo di corresponsione di un
assegno a favore dell'altro coniuge gli incrementi patrimoniali,
realizzati in precedenza, in tanto rilevano in quanto sussistano
al momento della pronuncia: ciò, del resto, trova applicazione
in tema di scioglimento della comunione legale - ove su questa
base sia regolato il regime patrimoniale della famiglia
- parlandosi in proposito di comunione de residuo.
Se, quindi, in materia di comunione legale, è pacifico
che non rilevano le acquisizioni patrimoniali in precedenza
realizzate, ma solo ciò che residua delle stesse al momento
dello scioglimento della comunione, a maggior ragione tale
irrilevanza deve affermarsi quando i coniugi hanno vissuto in
regime di separazione dei beni.
Se questa è l'intenzione del legislatore, si porrebbe
come eccentrica, rispetto a tale intenzione, una interpretazione
della norma che, in relazione ad una particolare attribuzione
patrimoniale, quale quella derivante dalla maturazione
dell'indennità di fine rapporto, la consideri come rilevante
autonomamente per affermare il diritto del coniuge, che si è
visto riconoscere l'assegno di cui all'art. 5, ad una quota della
stessa, a prescindere dal momento in cui l'indennità sia venuta
a maturare prima della sentenza di divorzio.
Una tale conclusione porta infatti a conseguenze
sconcertanti perché quella sola attribuzione patrimoniale, a
prescindere dal momento in cui si realizza, verrebbe ad assumere
una duplice valenza.
Se, infatti, è maturata in costanza di matrimonio, la
stessa è già stata utilizzata per i bisogni della famiglia e,
nella parte in cui residua al momento della separazione, la
stessa ha concorso a determinare le condizioni economiche
del coniuge obbligato e, quindi, ad incidere sulla
quantificazione dell'assegno di cui all'art. 156 c.c.
Se, poi, è maturata in costanza di giudizio di
separazione - in difetto dell'espresso riconoscimento di un
diritto alla quota da parte del coniuge avente diritto
all'assegno di mantenimento - colui il quale la riceve può
ugualmente liberamente disporne, salva la necessità della sua
valutazione al fine della determinazione delle condizioni
economiche dello stesso.
Se, infine, è maturata dopo la pronuncia di separazione
e la determinazione dell'assegno, può solo incidere sulle
condizioni economiche del coniuge obbligato e legittimare una
modifica delle condizioni della separazione, ai sensi dell'art.
710 c.p.c.
Ciò malgrado, secondo la tesi qui contestata, qualora
sopravvenga il divorzio, sorgerebbe un obbligo, per chi ha
ricevuto l'indennità, a prescindere dal momento in cui la stessa
è maturata, di corrisponderne una quota all'ex coniuge, con la
conseguenza, da un lato, che quest'ultimo verrebbe a beneficiare
due volte della stessa (prima, con il godimento della stessa e
con l'attribuzione di un più elevato assegno di mantenimento, e,
poi, con la percezione della quota legalmente fissata) e,
dall'altro, si imporrebbe un obbligo di accantonamento in
funzione di un evento futuro ed incerto quale la pronuncia di
divorzio, in contrasto con gli enunciati principi.
Dimostrata la contrarietà della soluzione contrastata
ai principi regolatori di altri istituti - senza escludere una
sua non manifestamente infondata censura di costituzionalità in
riferimento all'art. 3 cost. - si tratta di accertare se, sulla
base della dizione letterale della norma, sia possibile fornire
una interpretazione che salvi tali principi.
Ritiene il Collegio che sia necessario prendere le mosse
dalla natura costitutiva, pacificamente ammessa, della sentenza
di divorzio, nonché dal principio enunciato dalla legge n. 74
del 1987, secondo cui, malgrado tale natura, il tribunale può
disporre, a norma dell'art. 4, comma 10, legge n. 898 del 1970
(nuovo testo), che l'obbligo di corrispondere l'assegno produca
effetti fin dal momento della domanda.
Il legislatore della riforma del 1987 consente una
anticipazione degli effetti del divorzio al momento della
domanda, con riguardo agli effetti patrimoniali.
Ciò consente di interpretare il più volte citato art. 12-bis
nel senso che il diritto alla quota dell'indennità di fine
lavoro sorge anche se l'indennità matura prima della sentenza di
divorzio, ma la maturazione deve avvenire in un momento in cui
tale sentenza può produrre i suoi effetti e cioè, al più
presto, al momento della proposizione della domanda, con la
conseguenza che se l'indennità è maturata anteriormente a tale
momento la stessa non dà diritto ad alcuna quota, perché
vengono in rilievo i diversi principi che regolano la situazione.
Questa interpretazione consente, da un lato, di
rispettare il dato letterale e, dall'altro, l'intenzione del
legislatore, che è nel senso di anticipare gli effetti della
sentenza costitutiva dello scioglimento o della cessazione degli
effetti civili del matrimonio, al più presto alla data della
proposizione della domanda, in quanto, per il periodo precedente,
opera il principio della piena disponibilità, nel rispetto dei
principi fissati dall'ordinamento, delle attribuzioni
patrimoniali da parte del destinatario delle stesse.
Concludendo, si deve, quindi ritenere che il disposto
dell'art. 12-bis della L. 1 dicembre 1970 n. 898,
introdotto dall'art. 16 della L. 6 marzo 1987 n. 74 - nella parte
in cui attribuisce al coniuge al quale è stato riconosciuto
l'assegno ex art. 5 della stessa legge e non sia passato a nuove
nozze, il diritto ad una quota dell'indennità di fine rapporto,
anche nel caso in cui tale indennità sia maturata prima della
sentenza di divorzio - deve essere interpretato, nel rispetto
delle intenzioni del legislatore, nel senso che il diritto alla
quota sorge solo qualora l'indennità sia maturata al momento o
dopo la proposizione della domanda e quindi anche prima della
sentenza di divorzio.
La sentenza che non ha applicato tali principi va
cassata in relazione al motivo di ricorso.
Ricorrendo i presupposti di cui all'art. 384, comma 1,
c.p.c., questa Corte, decidendo, nel merito, rigetta la domanda
proposta da Marina Pieroni e tendente ad ottenere, ai sensi
dell'art. 12-bis della legge n. 898 del 1970, la quota
dell'indennità di fine rapporto percepita da Oreste Testa.
L'intervenuto mutamento di giurisprudenza giustifica la
compensazione fra le parti delle spese di questa fase di
giudizio;
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso;
cassa, sul punto, la sentenza impugnata e, pronunciando nel
merito, a norma dell'art. 384, comma 1, c.p.c., rigetta la
domanda proposta da Marina Pieroni tendente ad ottenere, ai sensi
dell'art. 12-bis della legge 1 dicembre 1970 n. 898, una
quota dell'indennità di fine rapporto percepita da Oreste Testa.
Compensa fra le parti le spese di questa fase di giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della I
sezione civile della Corte di cassazione il 12 gennaio
1999.
F.to Il Presidente Estensore
Depositata in Cancelleria il 7
giugno 1999