STUDI
DI FILOSOFIA GRECA E TARDO-ANTICA
IL
SIGNIFICATO FILOSOFICO DELLA TRAGEDIA SOFOCLEA
MATRICI
TRAGICHE DELLA FILOSOFIA GRECA DA ANASSIMANDRO A PLATONE
Il
"sogno" metafisico platonico
LA
FONDAZIONE DELL’IO NEL PENSIERO DI AURELIO AGOSTINO
CONCEZIONE CREAZIONISTICA
Il
PROBLEMA POLITICO TRA REALISMO E UTOPIA
Vico: la verità nella storia
ELEMENTO
ONTOLOGICO DELLA LEGGE NATURALE.
IL
PROGRESSO INTERNO DELLA VITA UMANA
UN
GRANDE RITORNO VERSO LO SPIRITO 2
UNA
STRADA CHE PORTA GLI UOMINI A DIO
L'INTEGRITÀ
DELLA RAGIONE NATURALE
Nel 2000 a.C. Creta è la prima civiltà europea con capitale Cnosso.
Palazzi sontuosi con lucernari, servizi
igienici, registri e documenti scritti, geroglifici, scrittura sillabica, arte
e cultura raffinate sono le testimonianze di questa civiltà.
I
cretesi veneravano gli dei e offrivano sacrifici alla dea serpente. Lo sport, i
giochi atletici sono intrisi di religiosità. Nel gioco del salto del toro si
originò il mito di Teseo.
Le
difese della città erano superflue perché i cretesi dominavano il mare.
Il polpo è raffigurato di frequente e come tentacoli Creta fondò varie
colonie che sottopose a tributo. Thera si trovò all'epicentro di terremoti e di
eruzioni vulcaniche che decretarono la fine del potere della prospera civiltà
cretese. I micenei ne presero il posto, razza guerriera di popolazione greca. I
micenei costruiscono grandi fortezze di pietra e sono governati da re soldati.
Essi
assimilarono molto dalla cultura cretese così come i romani faranno con la
cultura greca.
La civiltà micenea fu estremamente ricca ed evoluta per la scrittura e
i commerci che ebbe in tutto il mediterraneo e con Troia. I micenei si
indebolirono nella lunga guerra con Troia e così si trovarono perdenti nello
scontro con i Dori.
Nel 1200 a.C. abbiamo il Medio evo ellenico con lo sviluppo di città
stato indipendenti. Queste città a causa della povertà del territorio furono
spinte a fondare nuove colonie. Nel 750 a.C. si fondarono in tutto il
mediterraneo città greche.
Sorgerà in particolare la Magna Grecia che rappresenta uno
straordinario impulso di civiltà per tutta l'Italia meridionale.
Le rovine
maestose di Persepoli, nell'odierno Iran, indicano come un tempo fosse capitale
del potente impero persiano.
All'inizio del V sec. alcune colonie greche dell'Asia minore vennero in
conflitto con i persiani. Ciro guidò una spedizione punitiva di persiani che
nel 490 a.C. sbarcarono a Maratona, ma per le brillanti tattiche del generale
ateniese Milziade le forze persiane furono in gran parte distrutte.
Dieci anni più tardi il re Serse condusse contro la Grecia un ingente
esercito di medi e di persiani che attraversò i Dardanelli su un ponte di
barche. Alla spedizione partecipò anche la flotta persiana.
Ma alle Termopili il re Leonida con 300 valorosi bloccò per tre giorni
l'esercito persiano fino all’estremo sacrificio della morte.
Questo sacrificio non fu inutile perché le città stato ebbero il tempo di
organizzarsi. Le flotte nemiche si fronteggiarono a Salamina in uno stretto
braccio di mare le soverchianti forze e i grandi navigli dei persiani si
trovarono in difficoltà di manovra ed ebbero la peggio. Questa battaglia navale
fu decisiva e decretò una svolta per le sorti europee.
Per
cinquant’anni Atene fu il centro propulsore di un'altissima civiltà. Le arti,
la filosofia, la politica, le istituzioni, trovarono una maturità compiuta,
presero forme e istituzioni che avrebbero influenzato per secoli il mondo
occidentale. Per governare la loro città tutti gli ateniesi liberi godevano del
diritto di parlare ai loro cittadini da una tribuna. Atene era una vera
democrazia anche se una vasta massa di stranieri e di schiavi non godeva dei
diritti politici. Se si raccoglieva un numero considerevole di voti
(ostracismo) contro un cittadino, costui doveva andare in esilio, da ciò si
riflette l'idea ellenica che lo Stato è più importante del cittadino.
Il
Partenone con stile dorico indica la passione per la perfezione assoluta,
propria dei greci. A prima vista sembra un edificio molto semplice eppure ogni sua linea è leggermente curva al fine
di compensare le distorsioni ottiche dovute all'altezza e alla prospettiva ogni
singola pietra dovette essere tagliata con angolazione leggermente diversa il
che comportò una grande abilità.
La
perfezione e la compostezza delle immagini scolpite mostra come essi hanno
avuto fiducia nelle loro divinità e al contempo il rifiuto delle emozioni che
turbando la nobiltà dei lineamenti sono adatte solo ai barbari. Un secolo dopo
questa bellezza si addolcirà a favore di una bellezza più piacevole.
L'ideale
ellenico di nobiltà e dignità era per molti ristretto alla compostezza del
corpo visto che erano capaci di sfrenate orge e di estasi, come avveniva per i
riti legati al dio Dionisio. Nel mondo greco le donne erano per lo più
confinate in casa.
Ai greci
non mancava il senso dell'umorismo ed erano appassionati spettatori di
commedie. Commedie e tragedie erano legate al culto di Dionisio, più tardi
vennero introdotte maschere stilizzate. Nel V sec a.C. grazie ad Eschilo,
Sofocle ed Euripide, il teatro divenne una forma artistica fondamentale che
rifletteva la forma di vita quotidiana. I greci curavano molto l'atletica,
quando la fiamma olimpica percorreva la Grecia ogni guerra veniva sospesa.
I giochi
olimpici erano in onore di Zeus, il cui tempio dominava la città di Atene, e si
tenevano ogni quattro anni. I giochi erano visti come un evento sacro, per
questo gli atleti si purificavano prima dei giochi. Nel III sec a.C. i greci
eccelsero nella matematica e raggiunsero alti obiettivi in geometria. Uomini
come Pitagora e Archimede cercarono per la prima volta di spiegare la natura e
formularne le leggi.
La
passione per la verità, ed il pensiero rivolti all'uomo, portò i filosofi a
costruire sistemi logici ed a esaminare questioni etiche. Tra questi vanno
citati Socrate, l'austero, maestro di Platone. Platone con il suo Stato ideale
e Aristotele suo discepolo. Ma il dubbio critico circa l'autorità dello Stato
sull'individuo, il campanilismo delle piccole comunità furono tra le cause fondamentali della
caduta delle città stato. Troppo piccole per essere economicamente
vitali erano tuttavia in continua lotta tra loro.
Nel 431
iniziò una disastrosa guerra tra Atene e Sparta. La guerra del Peloponneso durò
26 anni e si concluse con la sconfitta di Atene, ma anche Sparta ne uscì
indebolita. Fu la Macedonia ad approfittare della debolezza e instabilità delle
comunità greche.
Il re
Filippo 338 a.C. e poi il figlio Alessandro assorbirono l'intera Grecia.
Alessandro volle eliminare le distinzioni fra Greci e Barbari nell’immenso
impero che conquistò rapidamente. Volle un impero che si fondasse su una
cultura e una lingua comune, ma il suo ideale non fu mai realizzato anche per
la sua prematura scomparsa, ma si può parlare di un nuovo mondo greco
orientale, il mondo ellenistico.
Il mondo
ellenistico si riflette anche nell'arte, la perfezione classica lasciò il posto
al realismo. Le opere rivelano una forza quasi brutale e spesso un
atteggiamento melodrammatico del soggetto artistico. Inoltre nell'arte e nella
letteratura si manifestò un nuovo interesse per l'individuo trascurato sino ad
allora.
La Grecia
contribuì a coltivare questa nuova visione artistica nonostante il suo ruolo
politico fosse in declino. Due secoli dopo i romani si sarebbero ispirati ad
imitazione di Alessandro ad un concetto di impero universale. (Liberamente
sintetizzato dalla video cassetta: I GRECI dal mito alla storia, L'Europa
attraverso i secoli, educationalvideo, Cinehollywood)
Nel V sec
a.C. fiorì una delle civiltà più brillanti che l’umanità abbia mai conosciuto:
“l’età d’oro della Grecia classica”. In modo compiuto si svilupperanno le
scienze, l’arte, l’architettura, la filosofia e la politica, queste modelleranno la cultura di tutti i secoli.
Questa civiltà ha avuto a disposizione fondamentalmente la sola logica del
ragionamento, per questo tanto importante per noi quindi è l’indagine,
l’investigazione che i greci hanno attuato per ricercare il mistero che l’uomo
racchiude in se. I Greci, non sono partiti nella loro ricerca aiutati da una
religione, ma essi stessi per necessità ne hanno inventata una. Il culto della
verità condusse i pensatori greci a elaborare questioni etiche e a costruire
sistemi logici e categorie morali. Culmine di tutta questa ricerca
fu la scoperta dell’Archè: tutto ciò che esiste nell’universo ha un principio e
un’origine comune.
A
livello filosofico i greci scoprirono l’esistenza di Dio, perché compresero che
tutto l’universo proviene da un unico principio, che essi appunto chiamarono
Archè. Purtroppo, i Greci non seppero trarre fino in fondo le
conseguenze teologiche di questa preziosa scoperta. Nel V secolo a.C. i
sofisti, maestri di retorica, logica e teoria della politica, erano squallidi
maestri di scaltrezza. Strumentalizzarono la retorica per dimostrare vere tutte
quelle tesi che erano di comodo. Tradiranno la verità oggettiva in favore di
ciò che piace. Essi, negheranno la possibilità di concretizzare i valori morali
immutabili e universali.
Platone,
Socrate e tanti altri si opposero al relativismo e all’immoralità dei sofisti,
sostenendo che la virtù è la consapevolezza intrinseca degli uomini e che
essi non possono essere virtuosi senza della virtù. Il vizio o il male sono
semplicemente frutto di stupidità e di ignoranza. Sofista deriva dal termine
greco che indica: sapiente, maestro, uomo saggio.
Ma dal V°
secolo a.C. il nome designò alcuni maestri itineranti che impartivano una
scaltra istruzione a pagamento. I sofisti ritenevano che la verità e la morale
fossero opinabili; essi approfondirono pertanto le forme di espressione
persuasiva, come la retorica, utile per ottenere l’interesse privato e vivere
la vita pubblica con successo nell’interesse privato.
Socrate,
Platone e Aristotele misero in discussione i fondamenti filosofici dei sofisti
e li condannarono per il relativismo delle loro affermazioni che li portava, in
cambio di denaro, a insegnare la validità di qualsiasi principio. I
sofisti vennero accusati dal governo della città di immoralità e la parola
"sofista" ebbe un significato sprezzante, così come il termine
moderno "sofisma", definisce un ragionamento sottile, ingannevole o
addirittura falso. Possiamo definire i sofisti come i capostipiti del
relativismo, l’attuale corruzione morale e intellettuale che ammorba l’umanità.
(Teologia
Fondamentale, Carlo Skalicky, “ut unum sint” Roma) Il merito di questo modello ontostatico si attribuisce giustamente a Parmenide
di Elea (nato verso il 540). Del suo poema Peri fyseos (Sulla
natura) si sono conservati alcuni frammenti, dai quali possiamo ricostruire il
suo pensiero.
Nel frammento
4 (Diels) la riflessione di Parmenide arriva a stabilire una chiara e netta
differenza tra la verità (aletheia) e l'opinione (doxa) che costituiscono due
vie (hodos) radicalmente diverse. Infatti così parla la dea, nel poema
parmenideo, al suo autore: « Or dunque io ti dirò e tu ben cura di udirmi,
quali sono le sole vie pensabili per la ricerca; l'una è che l'essere esista ed
il non essere non esista, e questa è la via della Certezza (essa segue la
Verità), l'altra è che l'essere non esista, e che necessariamente esista il non
essere, e questa, ti dirò, è via del tutto imperseguibile. Poiché tu non puoi
conoscere il non essere (ciò è assolutamente impossibile) e nemmeno pensarlo...
». «
Lo si può cogliere nel Fr. 8, dove si dice: «
E così rimane ancora una sola via perseguibile che l'essere esiste. Ed in
favore di ciò vi sono molti segni; come non nato (ageneton), così pure esso non
può perire (anolethron), forma un tutto, è unigenito (mounogenes), immobile
(atremes), senza fine (ateleston).
Non era
mai, né sarà, poiché esso nell'adesso esiste tutto insieme (homou pan), unico
(hen), indivisibile (syn eches). Quale origine vuoi tu infatti trovare di esso?
Come, e da dove il suo accrescimento? Esso non può essere stato originato
dall'essere, poiché altrimenti esisterebbe un altro essere.
Né posso
lasciarti dire e pensare che abbia origine dal non essere; non si può infatti
né dire né pensare ciò che non è. Quale necessità lo avrebbe forzato, infatti,
prima o poi, a cominciare a crescere dal nulla?
E' quindi
necessario o che sia sempre continuato ad esistere in tutti i casi o che non lo
sia stato assolutamente mai ».
E così Parmenide,
basandosi sul principio d'identità, (secondo cui « l'essere esiste ed il non
essere non esiste ») dimostra l'esistenza di un essere assoluto che
semplicemente è. Un tale essere è necessariamente immobile, indivisibile,
sussistente necessario e eterno, cioè ha tutti gli attributi divini. Ne segue
che il mondo, come ci viene presentato dalla nostra sensibilità, cioè mutevole,
vario, ecc., non è che illusione: « Non vi è niente, né vi sarà nulla al di
fuori dell'essere, afferma Parmenide, giacché
la Sorte (Moira) lo ha costretto ad essere un tutto immobile (akineton). Perciò
è tutto un vuoto suono (onoma) ciò che i mortali, persuasi della loro verità,
hanno ammesso che sia vero: nascere e perire, essere e non essere, variare il
posto e cambiare il colore lucente ».
Una
posizione simile a quella di Parmenide si riscontra anche nelle più recenti
Upanishad. Così nella Bhagavadghita (Canto del sublime) di 700 versi,
certamente il testo più venerato dell'induismo, contenuto nel Mahabharata, si
dice nel Capitolo II: "Ciò che non è non sarà mai, e ciò che è, non cessa
mai di esistere; la linea che divide questi due stati, è stata vista da quelli
che sanno la verità". La nascita e la morte sono dunque pure illusioni:
"Chi crede di uccidere o di essere ucciso, in entrambi i casi non capisce: egli non uccide e non è
ucciso. Egli non è nato né morirà mai, né essendo nato, perderà mai
l'esistenza. Non nato, eterno, imperituro, antico, non è ucciso quando è ucciso
il corpo". C. Regamey riassume la dottrina delle Upanishad con queste
parole:
« ...il
mondo appare in questa esperienza non come la varietà delle cose empiriche, ma
come un tutto, come il Tutto. Solo così può venir raggiunta la contemporanea
esperienza della pienezza ed il sentimento dell'unità. Il fondamento
razionalistico di questo mistico assioma è dato dalla dottrina delle
equivalenze. L'equazione "l'uno è il tutto" non può essere compresa
sulla base della forma esterna delle cose; essa e spiegabile solo se si ammette
che il principio essenziale di tutte le cose è il medesimo. E la conoscenza di
questo principio è possibile solo con la premessa che esso corrisponde al più
profondo se stesso dell'uomo ed è identico a lui... Mentre però negli antichi
miti "l'Uno" era postulato solo come primo principio, esso diviene
ora principio totale. Non solo in principio era "l'Uno", ma il mondo
è continuamente l'Uno. Questa è la tesi principale delle Upanishad » (Cristo e
le religioni del mondo, vol. Il, pagine 106-107). La conoscenza, secondo questa
concezione, è possibile in virtù della identità tra il pensiero interiore
dell'uomo e il mondo esteriore. La soluzione dell'enigma del mondo si trova,
secondo questi antichi saggi indiani, nel fondo del proprio cuore. Conoscere
veramente significa diventare una cosa sola con l'oggetto. Ma per raggiungere
il sentimento dell'unificazione con il mondo, bisogna eliminare tutti i
sentimenti e le impressioni esteriori: non l'uomo come tale si identifica con
il mondo, ma il suo « Io » più profondo, più interno. Ora, la via per tale
concezione dell'esperienza mistica dell'unità dell'Io con il mondo è preparata
dal «mito psicologico» che ha già preso nel Brahmana la forma dell'equazione:
atman è brahman (sé stesso è principio del mondo). E' forse in questo ordine di
idee che va intesa la identificazione parmenidea dell'essere e del pensiero
(cf. Fr. 5: traduzione letterale: poiché lo stesso è pensare ed essere).
Riassumendo: Esiste soltanto un essere che è nello stesso tempo ogni essere,
uno e tutto, “hen kai pan” (ecco la formula fondamentale del modello
ontostatico). Esso è immobile (atremes, aki-neton), non-nato (ageneton),
imperituro (anolethron), infinito (ateleston), senza principio (anarchon),
senza fine (apauston), tutto pieno dell'Essere (pan d'empleon eontos). Non
esiste la differenza dell'essere e del pensiero, perché « lo stesso è pensare
ed essere (to gar auto noein estin te kai einai). Gli indiani diranno atman è
brahman (brahman è la sostanza primordiale di ogni essere; atman è l'alito
fondamentale, il vero nucleo dell'uomo). L'apparenza (to fainomenon) in cui il
mondo si presenta alla nostra sensibilità come mutevole, finito, soggetto alla
legge del nascere e del perire ecc., diventa illusione, ossia doxa come diceva
Parmenide, o maya, come dicevano gli indiani. Come si può facilmente notare un
tale Essere Assoluto e Necessario non lascia spazio alcuno per l'essere relativo
e contingente. In questo sistema la creatura come la intendiamo noi, non è
possibile, e quindi non è possibile la creazione nel senso biblico e neppure il
Dio Creatore, che crea per amore il mondo e perciò lo trascende. Questo
universo di pensiero è chiuso alla concezione biblica della creazione.(Teologia
Fondamentale, Carlo Skalicky, “ut unum sint” Roma, p.15-18) Parmenide
salvaguarda la ragione ma perde il movimento, perde la realtà empirica e così
perde anche la sensibilità dell’uomo.
E TARDO-ANTICA
(Liberamente
sintetizzato da Tiziana Liuzzi, STUDI DI FILOSOFIA GRECA E TARDO-ANTICA, ed.
Laterza)
I saggi
qui raccolti si occupano del significato tragico della filosofia greca e della
fondazione dell'io nella speculazione agostiniana. I primi interpretano alcune
filosofie, comprese tra il VI e il IV secolo a.C., alla luce
dell'individuazione del “dramma” quale motivo fondante il pensiero antico. In
particolare, chiarito che il tragico
(per noi occidentali è un sentiero privo di vie d'uscita), lo spettacolo
della contraddizione della vita, la messa in scena dell'assurdo, viene
prospettato come il fondamento della speculazione dei Greci. L’ultimo saggio
tratta il problema del “soggetto” nella prospettiva agostiniana. La questione dell’io
viene prospettata quale “questione nuovissima” posta dalla speculazione di
Agostino rispetto alla cultura del mondo ellenico. La continuità fra la civiltà
greca e la visione del mondo tardo-antica assume la configurazione di un
“rovesciamento”, di una nuova prospettiva: 1- dal problema dell’essere alla
questione dell’esistenza; 2- dal motivo “tragico” dell’esistenza al senso
“drammatico”; 3- da una ermeneutica(interpretazione)del mito ad una teoria
della storia; 4- dal “desiderio” alla libertà.
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Tiziana
Liuzzi è nata nel 1956. Si è laureata presso l’università di Bari in Filosofia
ed è attualmente docente di Storia e Filosofia nei licei. Ha pubblicato vari
saggi sulla problematica del “soggetto” nell’età tardo antica e sul simbolismo
nell’età medioevale. Ha approfondito le tematiche del pensiero di Dionigi
l’Aeropagita, Agostino, Giovanni Damasceno, Tommaso d’Aquino.
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Il
presupposto della filosofia ellenica si configura non come una priorità
assoluta della “ragione”, libera da ogni passato mitico, ma quale lotta
dell'uomo contro il “destino”.
Alle
origini dell'esercizio del filosofare è una coscienza tragica che cerca di
sciogliere l'enigma dell'esistenza e si rovescia nella morte: le teorie di
Anassimandro, i Pitagorici, Eraclito, Parmenide, anche se precedono in senso
temporale l'avvento della tragedia, presuppongono questa visione del mondo che
i drammaturghi del V secolo -ed in particolare Sofocle- rappresenteranno. ' Non c’è nulla che non sia Zeus '.
L'ordine che regge la realtà è divino e per questo induce alla
disperazione chi in esso invece di scorgere il divino scorge l’assurdo.
L'enigma della morte è al fondo dell'abisso che l'eroe scopre in se, mentre
cerca di scoprire il mistero del vivere. Tragedia e filosofia mirano a
risolvere la contraddizione, ma il duello sia per l'eroe che per il filosofo si
delinea mortale. Il reale è un inganno tragico, è una parvenza in cui il dio
dell'ebbrezza e della morte manifesta l'enigma della propria natura tragica:
alle origini della filosofia della “natura” i sapienti riflettono sul conflitto
irresolubile da cui sorge l’“essere”.
Un sentiero senza vie d'uscita, un labirinto: questa la visione del mondo da
cui Platone prese le mosse. Platone nel Fedone scelse la strada che ci
guida oltre il male della natura, verso la verità che desideriamo. La
convinzione del significato tragico dell'apparenza è il fondamento della
luminosa creazione olimpica della metafisica (il mondo degli dei). Se, l'essere
è contraddittorio, perché “aspira” a un senso che non ha -essendo il suo
significato morte- bisogna postulare un altro essere - il bene - che sia
oggetto del “desiderio”. “La cosa migliore è la realtà impossibile: “non
essere”, ma i Greci, partiti da questa coscienza, “per trovare la forza di
vivere, posero innanzi a sé la luminosa creazione olimpica”. Ora, il sogno
olimpico, ovvero il mondo dorato degli dei, si delinea in Platone quale
fondazione dell'idea del Bene, “luogo” in cui l'oggetto del “desiderio” assume
un'immagine. Ma compiere il “desiderio” vuol dire annullarlo: negli ultimi
dialoghi Platone si rese conto che l'immaginazione dell'invisibile dà senso
all'esistenza, ma contraddice il suo fondamento perché il desiderio si pone
così per fine un oggetto delimitato.
Il terzo saggio
L'antitesi del tragico nel pensiero di Aristotele è dedicato interamente alla
svolta che alla sapienza ellenica dà il pensiero aristotelico. Aristotele
“compie” tragicamente la 'avventura' del pensiero greco. Infatti, da una parte
eredita la concezione della necessità dell'essere parmenidea e dall'altra fa
propria la visione platonica del “desiderio”; quale fondamento della
metafisica: queste due tematiche in contraddizione sono risolte nel segno
dell'eterno ritorno, dall'aspirazione della ragione ad un senso diverso
dall’Essere. Il desiderio tragico di sciogliere l'enigma del mondo, che era
stato rappresentato -da Sofocle a Platone- quale ricerca di distruggere la
necessità della “giustizia”, viene interpretato come tensione perenne nello
stesso essere necessario. Per Aristotele il desiderio di varcare i limiti del
reale, che l'eroe aveva rappresentato e il filosofo teorizzato, perennemente si
ripete in un immutabile tendere alla causa della non contraddittorietà del
reale. Aristotele conclude il percorso della filosofia ellenica riaffermando il
principio aleatico (=universo infinito ed immutabile) dell'identità dell'essere
e negando un senso differente all'essere. L'essere è il suo stesso limite.
L'indagine intorno all'il-limitato è simile ad una “corsa dietro gli uccelli in
volo”. Il quarto saggio tratta un argomento “diverso” non solo per la
lontananza temporale rispetto alla Grecia del VI - V - IV secolo, ma
soprattutto per il suo significalo teoretico.
La fondazione dell'io è, infatti, la questione
nuovissima che la speculazione di Agostino ha lasciato in eredità alla
filosofia occidentale. Ora, è proprio in questo rovesciamento di prospettiva
che consiste l'organicità fra questi studi. La tragedia di Edipo, si muta in
dramma dell'io che si fa coscienza del rapporto con una Differenza che, pure,
fonda l'identità del soggetto. Le coordinate perenni del mito, che
rappresentava una vicenda sempre uguale, si mutano dinanzi a un uomo che
diviene protagonista di eventi storici irripetibili. La Differenza (fra
creatore e creatura) che fonda l'io, contro la speculazione dell'inimmaginabile
Alterità, una teoria della Storia contro una filosofia del mito. La continuità
fra i sapienti della civiltà greca e Agostino è in questo (metanoia)
rovesciamento. L’a priori che per Anassimandro, Sofocle, Platone, Aristotele
era un pensiero intorno all'essere, per Agostino è un evento storico. La
contingenza storica, il limite, era per i Greci la tomba, la negazione,
l'impossibile aspirazione a superare il “limite” dell'io, ma per Agostino
questo limite è proprio il luogo in cui il soggetto incontra una Differenza
che, pur, fondando l'identità, permane diversità. L'Infinito si svela nel
limite: questo è inaccettabile per la filosofia greca [per il quale oltre
il limite dell'essere o ci sono i sogni metafisici dell’olimpo(Platone) o c’è
il nulla, l’essere è il suo limite (Aristotele)]. La continuità teoretica fra i
saggi della civiltà greca e quello sulla soggettività in Agostino presuppone
questo rovesciamento: l'ira, fondava l'immaginazione platonica, che nella
sublimazione del “desiderio” dimenticava la miseria tragica del vivere. L'io
agostiniano è fondato da un'Alterità che manifestandosi alla memoria rende
l'uomo cosciente di se. Ora avviene lo scontro mortale fra il “sogno” e la
“memoria”: il monte olimpo soccomberà di fronte al monte Sinai, il sogno
soccomberà di fronte alla memoria che si colloca nella storia. La luminosa
creazione del mondo olimpico(=degli dei) permette di vivere per dimenticare che
la realtà migliore -il non essere- è per gli uomini impossibile; la memoria,
invece è il luogo in cui l'io ‘si fa’ perché prende coscienza del Mistero
presente nell’uomo. Abbiamo di fronte due tragedie: quella dell’eroe che vuole
distruggere il limite e nel far questo rischia di distruggere se stesso, e
quella della coscienza che sa di essere limite ma in rapporto con una Alterità
Infinita. L'uomo non ha più bisogno di dimenticare, ma può ricordare se, perché
la sua contingenza è "illuminata" da una Differenza: l'io nasce da
questo mutamento di prospettiva.
IL
SIGNIFICATO FILOSOFICO DELLA TRAGEDIA SOFOCLEA
Durante i
secoli dell’età moderna -a partire, dal 1400- la civiltà greca è stata ritenuta
un modello insuperabile di “classicità”, cioè di armonia, perfezione, misura.
Nella
seconda metà dell'Ottocento, però, F. Nietzsche ha messo in crisi questa
concezione e ha sottolineato che la bellezza, l’“armonia”, la proporzione
presenti in tanta parte dell'arte ellenica nascondevano, in verità, una
coscienza tragica dell'esistenza.
Questi
due aspetti della visione del mondo dei Greci -cioè la tensione alla perfezione
e all'armonia e la lacerazione tragica- furono denominati ‘apollineo’ e
‘dionisiaco’ in riferimento agli dei Apollo e Dioniso.
Apollo
era dio della poesia e della musica, rappresentazione della sapienza e della
conoscenza, immagine delle arti serenatrici con cui si identificava la vita
perfetta degli immortali, Dioniso, invece, era il dio-animale della “follia”
che rendeva folli ed ebbri e attraverso le orge permetteva il superamento della
individualità e il raggiungimento di una liberazione totale nel ritorno alla
natura.
Queste
due divinità erano, secondo Nietzsche, le raffigurazioni l'una dell'angoscia
tragica -Dioniso- e l'altra -Apollo- dell’illusione con cui gli uomini
cercavano di dimenticare la contraddizione del vivere. Ne conseguiva che
l'armonia, la perfezione della forma erano la manifestazione di una concezione
tragica e che il simbolo figurale del mondo ellenico era il Sileno, il vecchio
maestro di Dioniso - metà uomo, metà cavallo -, che seguiva ubriaco il dio con
il corteo festante ed orgiastico dei Satiri e delle Menadi.
---“Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché
mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire?
Nietzsche ha dimostrato che, al di la dei luoghi comuni storiografici,
la misura, la proporzione, l’armonia dell’arte non sono espressioni di serenità
ed equilibrio interiori, perché i Greci avevano coscienza dell'oscuro destino
dell'uomo e solo per trovare la forza di vivere posero innanzi a sé la luminosa
creazione del sogno olimpico. La 'dolcezza' del vivere era invece,
l’irraggiungibile non essere.(conclusione dei relativisti che purtroppo
dominano culturalmente la scena mondiale)
Il sogno dell'uomo straziato
dal non senso era la bellezza apollinea. Così nel nostro secolo la cultura
greca è stata interpretata alla luce di questa ipotesi e si è identificata
nella tragedia la manifestazione più significativa di quella civiltà. Lo
spettacolo drammatico, però, non può essere inteso se non nel suo valore
filosofico.
Tragedia
e filosofia, infatti, possono essere comprese solo nella loro necessità
reciproca perché la tragedia fonda la filosofia in quanto senso, scopo della
filosofia, è la ricerca del significato dell'evento tragico dell’essere. Anche
se tragedia e filosofia sono storicamente contemporanee, “logicamente” la
poesia drammatica fonda il pensiero filosofico.
Dramma dell'uomo che si
interroga sul proprio esistere, la tragedia è, d'altra parte, una delle
prime manifestazioni della “teatralità” dell’esistenza. Per la civiltà occidentale
il teatro è un’eredità della cultura greca e offre all’uomo la possibilità di
una esperienza globale (in quanto è luogo da cui guardare il conflitto
dell’essere umano con il destino, è lo spazio del “dramma” dell’azione), intesa
come lotta contro il destino, è l’istante enigmatico in cui l’io diviene
spettacolo a se stesso.
Per “teatralità” dell’esistenza
umana si intende l’attitudine dell’uomo ad essere, nello stesso tempo,
soggetto della rappresentazione drammatica e spettatore della presenza dell’evento
dell’Essere. L’uomo in quanto soggetto della “azione” e del “vedere-guardare”,
è l’essere teatrale per eccellenza.
In
quest’ottica si può sostenere che la concezione greca dell'uomo è
simbolicamente espressa nel teatro e ciò nel senso che è umano solo l'essere
che deve riconoscere se stesso in un evento, in un accadere. L'autocoscienza,
infatti, per i Greci non si fonda nel pensiero astratto in una riflessione
teoretica, ma ha origine nell’azione in cui la coscienza lotta per sapere di
sé.
L'intuizione ellenica dell’uomo è teatrale o drammatica -essendo il
teatro il luogo in cui si svolge il dramma- perché la persona in Grecia pensava
se stessa sempre in riferimento ad avvenimenti in cui percepiva la presenza del
proprio destino.
L'uomo è
'spettacolo' drammatico perché è rapporto con eventi in cui scorge l'ombra di
sé, ma non si riconosce. L'essere umano è enigma e la tragedia è la
rappresentazione di questo enigma. Dramma filosofico o filosofia drammatica:
lotta disperata della ricerca di se o desiderio della ricerca dell’io che si
svolge in un accadere: l’origine della filosofia non è un pensiero astratto, ma
uno spettacolo tragico, perché il soggetto non è un io in sé limitato e
definito, ma una persona che si cerca nella storia.
Le tragedie, allora,
sono drammi filosofici dell'io dinanzi al “destino” svelato e nascosto nella
storia e la filosofia è pensiero tragico della coscienza che scopre, inscritto
in sé, l'Enigma dell'Essere. Tragedia e filosofia sono cioè modi con cui gli
uomini -sofferenti nello scontro con il “caso”, ma filosoficamente protesi a
conoscere- rappresentano la filosofia o pensano la tragedia.
Il Greco
a teatro assisteva alla rappresentazione del dramma della propria coscienza e
poteva conoscersi, capirsi: il teatro era lo spazio in cui si compiva la
conoscenza e la poesia "pensosa" induceva il pensiero
"poetico".
Il tragico nella poesia di
Sofocle. Per comprendere la filosofia in una visione fondata sul
tragico è necessario analizzare la poesia drammatica, soffermandoci sulla
manifestazione teatrale in cui è stato rappresentato con maggiore profondità
questo sapere. La tragedia è lo spettacolo della contraddizione, la messa in
scena dell’assurdo dell’esistenza. Sofocle ha saputo rappresentare il nodo
tragico con insuperabile sapienza.
Quando
parliamo di tragico, noi occidentali intendiamo un conflitto doloroso privo di
vie d'uscita, irrisolvibile, una vita la cui essenza è data dalla distruzione.
Proprio questa enigmatica contraddizione è il centro poetico delle opere
sofoclee: l’uomo, che desidera essere oltre ogni limite, scopre il proprio fine
in un evento di morte.
L'io che
anela alla libertà si riconosce in un destino non voluto e assurdo. La ricerca
disperata del significato dell'essere sfocia
nell'oscurità di morte del “caso”.
DA ANASSIMANDRO A PLATONE
1. La tragicità della 'Sapienza' greca.
La poesia drammatica del V secolo ad Atene rappresenta la coscienza
tragica del destino propria dell'uomo greco. "La cosa migliore di tutte è
non essere nato, essere niente e, dopo questa, morir subito": la sapienza
del Sileno si configura quale senso del teatro tragico ed, in particolare, di
quello sofocleo. L'uomo, che desidera essere, deve morire perché (la
contraddizione che definisce l'umano può essere "risolta" solo
dall'annullamento della morte), il desiderio dell'esistenza, ha per fine la
dissoluzione dell'eroe.
F. Nietzsche non solo ha per primo intravisto
nella tragedia l'origine della cultura greca, ma ha anche intuito il valore che
il tragico assume per un’altra manifestazione di quella civiltà: la filosofia.
Per i
greci il pensiero “è spinto in avanti dalla fantasia” (F. Nietzsche, La
filosofia nell’epoca tragica dei Greci, 1873, Mi 1973 p.281) e che l’organo
della conoscenza è in prima istanza l’intuizione geniale. Ribaltando i
presupposti hegeliani, che ponevano le origini del filosofare in un
cominciamento assoluto, libero da ogni passato mitico, Nietzsche sostiene che
la filosofia prende le mosse dal presentimento fantastico delle cose supreme,
cioè dal mito, e pone così in crisi il concetto di ragione che tanta parte
della cultura moderna ha attribuito ai greci.
Ma il mito (favola rappresentativa) non è la forma più sublime
dell’intelligenza intuitiva e geniale? La sua fortuna non è data dalla
universalità del messaggio? Certamente non si tratta di una razionalità
illuministica o positivistica, che sono comunque una forma riduttiva di
razionalità.
2. Il significato tragico
delle
filosofie preplatoniche che sono particolarmente rappresentative del senso
tragico della sapienza antica.
Alle
origini delle filosofia greca
Anassimandro descrive, attraverso la riflessione sull’Archè (il
principio), il senso tragico della visione del mondo ellenica. Anassimandro,
cerca, infatti, di 'spiegare' l'enigma della realtà, ponendo la lotta, la
“guerra”, quale significato del mondo.
Il limite è colpa:
delimitare “l’Infinito”, 'fissare' ciò che non ha limite in un limite in un
finito è la tragedia "necessaria" dell'essere.
L'”Essere”
è il 'senza-limite', l'infinito, e le cose del mondo nascono distruggendo la
loro origine, sono finite, limitate, e nella loro realtà annullano “il
Principio” illimitato da cui provengono. L'universo è per una tragica
necessità: l'essere è distruzione di sé, perché il finito esiste negando la
propria origine infinita.
Il limite
non è infinito, la sua origine è la sua morte. Dopo Anassimandro la storia
della filosofia naturalistica è caratterizzata da questa coscienza nei suoi
sviluppi pitagorici ed eraclitei.
Il “cosmo” pitagorico ha, infatti, la propria
matrice nell'armonia dei due principi antitetici: l'illimitato e il limitante.
“Cose soltanto
illimitate o soltanto limitate non potrebbero esserci. Poiché, infatti, è
manifesto che gli enti non possono essere costituiti né solamente da elementi
finiti né solamente da elementi infiniti, è evidente che il cosmo, e in esso
tutte le cose, sono costituite dall'armonia fra elementi limitati e
illimitati.”(Strobeo, Ecl. 21,7 a, in Pitagorici, Testimonianze e frammenti,
Firenze, 1964, vol. II, pp.194-196.). Unità di “infinito” e “limite”,
con-cordia dei contrari: nella riflessione della scuola pitagorica emerge per
la prima volta un tentativo di razionalizzare la tragedia, di attenuare la
lotta, il contrasto, da cui tutto scaturisce, in una "armonia", in un
"accordo". Anassimandro ha lasciato si in eredità la concezione della
tragicità dell’Essere, ma la tradizione pitagorica ha interpretato il dissidio
quale armonia cosmica: musica generata dai contrari.
Eraclito fa propria la tematica del filosofo di Mileto e della scuola
pitagorica, identificando la lotta per cui la realtà è, con la “ragione”. L"'enigmatico"
fonda la coscienza tragica affermando che 'tutto è e non è' nello stesso
istante: vita e morte.
Egli non
"con-verte" il contrasto di due principi opposti in armonia - come
fanno i Pitagorici - ma comprende che il significato stesso del mondo è tragico
perché la vita coincide con la morte e l'essere con il non-essere. Scoprire la
“ragione” nascosta ai più, vuol dire svelare la morte nella vita.
“L'uomo
nella notte accende una luce a se stesso, spento negli sguardi; vivo si afferra
al morto (dormendo con lo sguardo spento), sveglio si afferra al dormiente” (Clemente
Alessandrino, Stromata, 4, 141, 1,in G. Colli, La sapienza greca, vol. III,
Milano, 1980, p.64).
Per il filosofo di Efeso filosofare vuol dire svelare la tragedia
nascosta, senza rinchiuderla in un "ordine razionale". Per questo,
anticipando il tema del teatro sofocleo, l"'oscuro" dice: “Morte è
quando vediamo stando svegli, sonno quanto vediamo dormendo” (Ippolito,
Confutazione,9,9,2, in G. Colli, La sapienza, cit., p.22.)
Ma la filosofia della “natura”, dopo Eraclito, dimentica questo
filosofare all'interno della tragedia, l'eredità di Anassimandro e dei
Pitagorici - la
comprensione del contrasto fra illimitato e limite e l'armonia razionalizzante.
Con
Parmenide teorizza l'identità dell'essere. L’essere si autofonda e ogni
alterità non è.
L'essere
è uguale a se stesso, necessario, e la sua sostanza è il suo stesso essere,
perché non nasce e non muore, non conosce tormento, ma un unico mostrare.
Il filosofo di Elea ha teorizzato la visione del mondo dei Greci,
cogliendo il senso della Necessità, ma dimenticando il significato tragico.
Tutto è da sempre, uguale, limitato e ogni alterità è impossibile perché
sarebbe non essere; l’Essere è univoco.
Parmenide ha voluto annullare
l'aspirazione all'alterità, quella 'impossibile' speranza dell'insperabile: “Se
uno non spera l’insperabile, non lo troverà, perché esso è inesplorabile e
inaccessibile.” (Clemente Alessandrino, Stomata,2,17,14, cit. p.70)
Che Eraclito aveva ammesso: “Ciò che è altro
dall'essere non è: ciò che non é, non è nulla: dunque l'essere è uno.”
(Simplicio,
Phys. 115,11, in Parmenide. Testimonianze e frammenti, a cura di M.
Untersteiner, Torino, 1925,p.72.).
L'essere è identico, limitato, eterno, necessario: nulla di diverso è
possibile, la possibilità non è. La visione del mondo dei Greci è tragica
perché si fonda su questa intuizione dell'essere identico che genialmente
Parmenide ha teorizzato.
L'uomo può cercare di eccedere l'essere, e Sofocle rappresenterà questo
tentativo umano di superare i limiti, ma la sua vita è allora vanità,
'illusione'.
Tutto è da sempre, uguale, necessario. Il “desiderio” è un'impossibile
aspirazione. La “ragione”, che per Eraclito era differire enigmatico, per
Parmenide è identità assoluta: la tragedia della visione del mondo greca è dai
due filosofi teorizzata in queste antitetiche affermazioni che, pure,
manifestano la stessa sapienza drammatica del reale. “Se non esiste l'essere, né
il non essere, né l'essere e il non essere insieme, ed è impossibile pensare
altre possibilità, nulla esiste” (Sesto Empirico, Adv. math. VII 65, in
Sofisti. Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, Torino, 1949,
vol II, p.46.).
Le
affermazioni parmenidee "mancano di significato" perché l'essere
identico a sé è privo di senso, "è" necessariamente uguale, non
differente.
Tutte le possibilità della filosofia della natura si annullano a
vicenda e la Sofistica può giustamente fondare la propria dialettica
sull'assurdo a cui ha indotto l'ontologia. Il pensiero sapienziale
(naturalistico), cercando di "aderire" all'ambiguità del reale, ha
dato forma al 'labirinto' del pensiero. La sapienza del Sileno si riafferma:
“La cosa migliore è la realtà impossibile: non essere.”
Ma i Greci, partiti da questa coscienza: “per trovare la forza di
vivere, posero innanzi a sé la luminosa creazione del sogno olimpico”
(F.Nietzsche).
Gorgia ha dimostrato quello che filosofia e tragedia avevano manifestato:
l'essere si fonda su una tragica contraddizione, l'Essere è enigma; ora, il
popolo greco ha un'unica possibilità: il sogno olimpico.
L'armonia,
la misura, l'equilibrio sono il sogno di questa coscienza tragica. La terza
alternativa alla “necessità” parmenidea è il "sogno olimpico" a cui
la filosofia darà il significato di metafisica.
Platone
nel Fedone, raccontando la propria storia ideale, sostiene che il metodo naturalistico lo ha
indotto al dubbio è, in un certo senso, al nichilismo. Cosciente del
nichilismo, sceglie "il sentiero che ci guida oltre il male della natura, verso
la verità che desideriamo". “E necessario che nei veri filosofi sia chiara
questa opinione... Pare che ci sia un sentiero che ci porta lontano con la
ragione nella ricerca; perché fino a quando abbiamo il corpo, la nostra anima è
confusa con il male, noi non conquisteremo mai sufficientemente quello che
desideriamo, che diciamo essere la verità”(Fedone 66b.).
La
convinzione del non senso della "apparenza" è il
fondamento della 'luminosa' creazione olimpica: "per trovare la forza di
vivere" inizia
la ricerca metafisica.
Nell'Apologia e nel Fedone, i dialoghi sulla
morte del maestro, questa problematica diventa la "questione"
dell'esistenza. In essi Platone ci ha lasciato una testimonianza drammatica
della propria coscienza, del valore della morte e della vita. Il tempo
dell'esistenza terrena è il tempo della prigionia perché -la vita- è confusa
con il male.
Questa teoria, di derivazione orfico-pitagorica, rappresenta l'a priori
dell'immagine che Socrate delineerà della morte. Due le ipotesi sulla morte:
una, di origine orfico-pitagorica, si riferisce alla diffusa credenza sulla
trasmigrazione dell'anima, l'altra, invece, immagina il nulla.
“Il morire è come non esser nulla e non avere nessuna sensazione di
nulla...
Ora, se non è nessuna sensazione, ma come un sonno, in cui colui che
dorme non vede nessun sogno, la morte sarebbe un guadagno meraviglioso. Penso,
infatti, che se uno dovesse scegliere quella notte in cui ha dormito senza
vedere alcun sogno e paragonarla con le altre notti e giorni della sua vita, e
dovesse, dopo un'attenta considerazione, dire quanti giorni e notti nella sua
vita abbia vissuto meglio e più dolcemente di quella notte, credo che non solo
un qualsiasi cittadino, ma perfino il gran re li troverebbe poco numerosi
rispetto a tutti gli altri giorni e notti. Se dunque tale è la morte, io, per
me, la chiamo un guadagno, perché tutto il tempo non pare niente più che una
sola notte.”(Platone, Apologia di Socrate, 40 c-e).
Il nulla della morte è preferibile rispetto all'esistenza: perché la
vita è una illusione il cui senso è la morte o una prigionia il cui motivo è il
dolore.
La Coscienza tragica del destino rappresenta l'origine drammatica del
filosofare. Socrate: “Non è allora vero che felici sono coloro che non hanno
bisogni... E chi sa, se non sia esser morti il vivere e viver l'esser morti? E
forse noi siamo realmente dei morti” (Platone, Gorgia 492e). Vivere è l'assurdo
oscillare fra il dolore e la morte. La tragedia e il nichilismo sono le ultime
parole della cultura greca preplatonica. Per vivere, allora, 'bisogna cantare a
se stessi un incantesimo (Fedone 114 d), immaginare la luminosa creazione
metafisica.
Per dimenticare il non-senso Gorgia aveva scelto la retorica, Platone
opta per la ricerca metafisica.
"Una vita priva di ricerca
non è degna di essere vissuta" (Apologia di Socrate 38a)
I limiti del labirinto naturalistico si possono oltrepassare solo con
la decisione di correre il rischio della "bella avventura", di
varcare i limiti della miseria della natura. Il pensatore metafisico, infatti,
è simile ai cigni i quali quando presentono di dover morire, cantano il loro
canto più lungo e più bello felici di essere in procinto di tornare presso al
dio a cui sono sacri. E gli uomini, invece, per la paura che hanno della morte,
mentono riguardo ai cigni e dicono che essi cantano per il dolore della morte e
la tristezza dell'ultimo viaggio”(Fedone 84e -85a).
Il canto finale di un cigno, un sogno di verità al di là della miseria
dell'esistenza: questo l’esercizio del filosofare.
Il senso della razionalità è aspirare a conoscere (il bene) e ricordare
la bellezza "attraverso la contemplazione del vasto mare della bellezza in
sé"(Simposio, 210 d).
Gli uomini, non potrebbero desiderare il bene
ed il bello se non lo avessero visto e conosciuto in precedenza. L’uomo vive in
esilio rispetto al mondo delle idee.
L’idea
infatti è rappresentazione dell’invisibile per cui l’essere è.
Ora per
il filosofo metafisico “ciò per cui l’essere è” non può che essere il Bene,
perché il bene è l’oggetto del desiderio.
Il Bene fonda l’Essere.
Infatti,
se l’Essere è lacerato dal “desiderio”(oggetto del quale è il bene), il “Bene”
rappresenta il fondamento stesso dell’essere. E’ fondamentale comprendere il
motivo per cui le teorie platoniche sono raccontate dai miti: l’illimitato non
può essere per Platone de-finito, ma unicamente “visto” o immaginato, quindi
narrato e non teorizzato.
La
filosofia fa volgere in su lo sguardo dell’anima, perché si occupa dell’essere
invisibile.
La conoscenza è immaginativa, perché la
ragione è capacità di vedere, di un’idea dell’invisibile che permetta
l’avventura metafisica. Se il non essere, che l’essere implica, nega l’essere
stesso la tragedia non è superata. Platone si rende conto che il desiderio
giunge alla negazione dell’essere e che se non c’è identità tutto è illusione:
per questo negli ultimi dialoghi abbandona la metafisica e sceglie la matematica
quale compito del filosofo.
NEL PENSIERO DI AURELIO AGOSTINO
La continuità fra i saggi sulla civiltà greca
e questo studio su Aurelio Agostino consiste in un rovesciamento di
prospettiva. Dal problema dell’essere alla questione dell’esistenza, dal tema
del desiderio a quello della volontà, dal motivo tragico al senso drammatico
della coscienza. Ma, soprattutto, dalle teorie della Necessità, all’avvenimento
della libertà del soggetto. La distanza temporale fra Agostino e il mondo greco
è al tempo stesso diversità teoretica.
La storia della filosofia occidentale cambia orientamento grazie al
pensatore delle confessioni, in primo luogo la nuova prospettiva emerge dalla
fondazione del concetto dell’io. Per i Greci l’aspirazione all’Alterità si era
ridotta alla necessità del “desiderio”, anelito vano, ma immutabile
dell’essere; la Differenza agostiniana fonda, invece, l’identità del soggetto e la
sua libertà dinanzi al reale. Il dramma del pensiero che scopre in se
un Differire (Rinviare ad un’Altro), origine della coscienza nella libertà, si
contrappone alla tragedia di una tensione incapace a superare i limiti e che
ricade su di sé.
Il
rapporto fra Agostino e la filosofia antica non si riduce solo all’influenza
esercitata da platonici e neoplatonici; emerge e si staglia in un
mutamento-rovesciamento che Agostino opera rispetto alla cultura greca. L’a
priori della speculazione diviene, infatti, un Evento - la presenza nel tempo
del Logos “della ragione di tutte le cose”, diverso e insieme manifesto nella
storia - da cui ogni riflessione si deve originare. L’immagine della ragione ne
risulta riformulata. Fondamento della mens non è più il “desiderio” - il
desiderio di un’alterità che si svela e riduce, poi, a identità -, ma la
memoria, cioè la coscienza del proprio essere in rapporto al Logos, differente
dall’io, ma pur origine del suo costituirsi. La razionalità da tensione
all’enigma del reale -nel mondo greco- si configura in Agostino quale coscienza
di un significato infinito, da conflitto con il “destino”, che annichilisce, si
muta in memoria di una Differenza che fonda la soggettività.
La cultura greca era giunta ad intuire il desiderio -il “desiderio ”
dell'iperuranio (Platone) o il movimento verso la sostanza soprasensibile
(Aristotele) o il “ritorno” di (Plotino) di un oggetto, nella conoscenza del
quale l’anima si annullava perché identica al suo fine; Agostino delinea
invece, l'autocoscienza- fondamento dell'io, quale ricordo di sé in quanto conoscenza
di un'Alterità.
L'anima cade
nell'oblio dell'anamnesi (celebrazione) e dell'estasi (conoscenza amorosa) nella
prospettiva platonica e plotiniana; la mens, considerando la Differenza,
ricorda sé. La tragedia si muta in dramma, il mito si "rovescia" in
storia.
Il rapporto della soggettività con il Dif-ferire che la precede e la
fonda è il presupposto della storia perché il limite (è possibilità di
relazione, non più momento negativo in quanto il limite riporta alla necessità
di una Relazione di Amore) non deve più essere dimenticato nel sogno di
“luoghi” impossibili; diviene, invece, il luogo in cui l'io vuole, sceglie e
attribuisce un significato all'essere e alla natura.
La storia presuppone un incontro o uno scontro fra due realtà diverse,
ma relative, la teoria dell'io che si fonda nel Differire è il suo principio.
Nel 397 fu iniziata la stesura del testo che dimostra il valore
razionale della memoria e della storia.
Le
Confessioni, infatti, sono una rappresentazione del significato che storia e
memoria hanno nella fondazione dell’autocoscienza, del valore che la
riflessione sugli avvenimenti dell'esistenza acquista nella formazione dell'io.
Il libro X è il primo in cui inizia la riflessione sul presente: e il
presente si scopre essere memoria. “Tu sei tutti i miei beni, tu onnipotente,
che sei con me prima ancora che io sia con te. Dunque, mostrerò... non chi ero,
ma chi sono diventato e sono ora.
Confesserò, dunque, quello che so, e quello che ignoro di me poiché
quello che so lo so in quanto tu ti fai luce per me e quello che non so di me
lo ignorerò fino a che le mie tenebre non si trasformeranno come luce meridiana
nel tuo volto.” (Aurelio Agostino, Confessioni, X,4.6;5.7)
Questi brani delineano il presupposto della teoria della memoria: la
riflessione sull'io si fonda su un primum rispetto all'io.
"Tu
sei con me prima che io sia con te"; nell'io c'è un fondamento che
riguarda la coscienza, ed è, però, allo stesso tempo, "differente"
dalla coscienza.
L'oggetto che Agostino vuole conoscere è il presente -a cui il passato
lo ha riportato- e il presente, l'essere che è davanti a sé, è l'io
("quello che sono"). Per la prima volta nella cultura occidentale la
riflessione non è sull'anima in senso astratto, ma sulla coscienza; non sul
principio razionale della conoscenza, ma sull'esistenza, oggetto di conoscenza
per se stessa. “Chi sono? Un uomo fornito di corpo e anima.
Ma la vita del corpo è l’anima... E Dio è la vita della vita.”(Conf.,
X,6.9-10).
Il dramma che Agostino vuole qui rappresentare
è quello di colui che scopre di non potersi conoscere, non per una incapacità
psicologica, ma per l'impossibilità della ragione ad identificare in sé il
proprio fondamento.
“L'uomo
è corpo, ma la vita del corpo non è corpo; infatti, la chiamiamo anima; ma la
vita dell'anima non è l'anima, perché l'anima non è uguale a se stessa, e
allora la vita della vita -cioè dell'anima, vita del corpo- la chiamiamo Dio.” (Conf.,
X,6.9-10).
Questo
susseguirsi di interrogativi e deduzioni si svolge secondo un principio: il
motivo dell'essere e dell'esistere non si identifica con se stesso ma con una
Realtà Differente, che Agostino chiama Dio.
C'è una sproporzione nella realtà tutta (Conf.,X,6) per cui il reale
non coincide con il proprio senso e l'animus si accorge di essere diverso da
se.
La questione è, dunque, conoscere la differenza che fonda l’identità.
“Chi è costui che è oltre la mia anima?”.
Per conoscere sé deve indagare intorno a Dio. Ma quale sarà il metodo
per questa conoscenza? “Cosi salendo, un passo dopo l'altro, verso colui che mi
ha creato, arrivo nei campi e nelle vaste dimore della memoria.”(Conf.,X,8.12).
“Chi può toccare il fondo?
Questa forza è propria del mio animo e appartiene alla mia natura, ma io non
riesco a comprendere tutto me stesso, a capire ciò che sono”(Conf.,X,8.12).
C’è nell’animus un principio di essere infinito, per cui l’io non si
conosce in modo esaustivo. La coscienza si configura quale sproporzione non
solo rispetto all’essere, ma addirittura rispetto a se stessa. Nel libro X
delle Confessioni emergono caratteristiche nuove della filosofia agostiniana:
il pensiero greco aveva indagato rispetto all’“anima”, connotandone le
capacità, le funzioni, ma non aveva teorizzato il concetto di coscienza, la
riflessione secondo cui il soggetto si fa oggetto del sapere. La prima
fondazione di questo nuovo principio è attuata da Agostino per il quale: la
memoria è il principio del riconoscimento non solo delle cose conosciute in
precedenza e conservate per immagini nell’infinito “penetrale”, ma è la
originaria possibilità per l’uomo di essere presente a se stesso. Di avere
autocoscienza di se. “Dunque quando mi ricordo della memoria, la memoria stessa
è presente a sé attraverso se stessa.”(Conf.,X,16.24).
“Chi capirà queste cose?... Sono diventato
per me stesso come una terra aspra e piena di difficoltà. Eppure non stiamo
scrutando le regioni del cielo o misurando le distanze degli astri o cercando
la ragione dell'equilibrio della terra: sono io che ricordo, io animo... Ed
ecco, invece, l'origine della mia memoria non è comprensibile per me, mentre io
non potrei neanche dire me stesso senza quella.” (Conf.,X,16.25).
L'animus vuole nominarsi e scopre il principio di questo conoscersi
nella memoria, senza della quale l'io non può essere. Questa scoperta stupisce
il filosofo: le capacità della memoria sono infinite e profonde, "eppure
si tratta di me stesso". È importante comprendere il senso di questa meraviglia
che non è una pura affermazione retorica; la conoscenza del mondo può destare
ammirazione, ma la sapienza di sé quale limite in cui, pure, emerge un
indefinibile, illimitato, desta "quasi un senso di terrore": “Grande
è la forza della memoria, Dio mio, la sua profonda e infinita complessità
suscita quasi terrore”(Conf.,17.26).
“Che cosa sono, allora, mio Dio? Qual’è la mia natura? Una vita varia,
multiforme, infinita, intensa... Per tutti i luoghi (della memoria) io
trascorro e mi aggiro ora qui ora lì e mi addentro quanto posso, senza trovare
limite alcuno: tanta forza è propria della memoria, tanto vigore di vita è
nell'uomo vivente, eppure mortale.”(Conf.,X.17.26).
La memoria è senza limiti: ora, in quanto è impossibile possedersi
totalmente, delimitarsi, la coscienza presuppone questa possibilità illimitata.
Non una de-finizione dice all'uomo la propria essenza, ma una pre-senza
dell’animus a sé; e solo la memoria rende l'assenza presenza, in quanto è
principio non del passato, ma del pre-sente, cioè dell'essere che si sa
nell'istante. Così il tema della Differenza si ripropone: la memoria è senza
limiti, varia, molteplice, immensa, mentre l'uomo è limitato e mortale:
l'animus non coincide con sé, "deborda", è mistero. La memoria si
configura quale principio dell'io, luogo in cui emerge un originario Differire.
Agostino, fondando l'identità dell'uomo, ha scoperto che l'io ha per origine un
illimitato, una sproporzione. L'io è tale perché non coincide con sé, senza
Differenza non c'è identità. Una Diversità originaria fonda la memoria,
rendendola coscienza del differire strutturale. Prova ne è la struttura
metodologica del libro X, che non si configura in un'analisi della capacità
ricordativa, ma si sviluppa in un susseguirsi di interrogativi. Metodo
conoscitivo della coscienza, infatti, non è l'autoanalisi, ma il movimento
della memoria che è trascendente nel suo protendersi verso ciò che supera
l'animus. “Io, salendo attraverso il mio animo verso te che rimani al di sopra di
me, supererò anche questa mia facoltà che si chiama memoria, perché voglio
attingere te là dove ti si può attingere.”(Conf.,X,17.26).
Il principio della vita è il termine della ricerca di Agostino, perché
il senso di ogni realtà "ec-cede" la realtà stessa. Così nella
ricerca di Differenza - per sapere l'identità - e di identità - per cogliere la
Differenza - bisogna varcare i limiti della memoria. “Supererò anche la
memoria, ma per trovarti dove?... Trovarti fuori dalla memoria significa averti
dimenticato. Ma come potrei incontrarti, se non avessi memoria di te?”(Conf.,X,17.26).
Solo la presenza di Dio
all'uomo rende possibile la presenza della coscienza a sé, perché Dio è il
Differire originario che fonda la memoria. In Agostino la filosofia è platonica
mentre la morale è cristiana.
Per molti critici parlare di platonismo in Agostino vuol dire
riconoscere la sua identità di filosofo, far riferimento alla sua adesione al
Cristianesimo significa, invece, prospettare nel pensatore una accettazione
dell'incarnazione quale possibilità di salvezza spirituale e morale.
Agostino filosofo è platonico, razionalista.
Agostino cristiano, invece, è autorità morale.
La
concezione creazionistica, cioè quella posizione che non assolutizza il mondo,
ma lo concepisce come relativo, vale a dire come qualcosa che rimanda sempre
«oltre», ad un Assoluto che è completamente «fuori» del mondo, che lo trascende
e che perciò è a partire da esso inafferrabile, incomprensibile, misterioso, ma
che, allo stesso tempo, lo «pone», lo «chiama» ad essere, lo crea e quindi è in
esso presente (immanente) con il suo amore creativo, una tale concezione
risponde meglio delle altre all'esigenza di salvaguardare:
1. il movimento e quindi la verità
dell'esperienza sensibile e perciò il valore della sensibilità e dell'uomo
sensibile;
2. il principio d'identità e quindi la ragione e
perciò il valore della razionalità e dell'uomo razionale;
3. la fondamentale bontà della realtà mondana e
quindi il valore della vita terrena che rende possibile un sano ottimismo;
4. la
individualità personale dell'uomo e la sua inalienabile dignità come singolo;
5. ed infine la vera mondanità del mondo e
umanità dell'uomo, le quali sono il necessario presupposto della eliminazione
di ogni falsa sacralizzazione e quindi idolatrizzazione dell'intramondano, le
quali a loro volta sono la condizione necessaria per un approccio non prevenuto
al mondo che è «soltanto» creatura e conseguentemente allo sviluppo delle
scienze e della tecnica.
Solo se confido nella mia sensibilità e nella mia razionalità che mi
presentano il mondo e me stesso come da una parte ontologicamente consistente,
e cioè reale e non illusorio, ma dall'altra anche precario, fuggevole e quindi
contingente, posso evitare sia la riduzione illusionistica, sia
l'assolutizzazione razionalistica della realtà e posso concepire il mondo e me
stesso come creato, cioè come pensato-voluto-amato da un altro che chiamo Dio.
Solo se sono in armonia con la condizione ontologica del mio essere (e del suo
mondo), solo se mi comprendo come contingente, posso arrivare con sicurezza
all'affermazione della esistenza di Dio trascendente. Infatti, se io e il mondo
in cui vivo, siamo creati, è certo che esiste un Creatore. Se invece rifiuto
questa mia condizione, non arriverò mai a riconoscere l'esistenza del Creatore.
Il riconoscimento della mia condizione «naturale» (cioè essere contingente e
quindi creato) e il riconoscimento della esistenza di Dio-Creatore sono
interdipendenti. Perciò molto giustamente scrive Joseph Comblin: «L'uomo che
vive armoniosamente la sua esistenza di uomo, che accetta la condizione umana e
le sue leggi, non può non scoprire Dio e porsi dinanzi a lui e in lui.
Altrimenti come potremmo parlare di conoscenza naturale? Se Dio si manifesta
all'uomo in modo naturale, questo non può avvenire per mezzo di una
trasmissione di conoscenze esoteriche. Deve avvenire attraverso il gioco spontaneo
dell'esistenza umana, quando il gioco sia corretto. Dio non ha bisogno di
esperienze particolari aggiunte alla condizione umana per manifestarsi alla
universalità degli uomini. Si deve trattare di una conoscenza semplice,
spontanea, facilmente accessibile a tutti gli individui, qualunque siano le
esperienze individuali della loro esistenza singolare. L'uomo deve poter
riconoscere Dio nelle situazioni normali della vita. Non che occorra postulare
necessariamente una straordinaria esplicitazione della coscienza (...). Infatti
per far conoscere Dio, la sua esistenza e la sua natura a una persona, non si
tratta tanto di darle concetti, proposizioni e ragionamenti, non si tratta di
darle segni evidenti della sua presenza, ma di mettere questa persona in una situazione
tale che da sé e spontaneamente, irresistibilmente essa arrivi a cercarlo, a
scoprire e a interpretare i suoi segni, a raggiungere la sua evidenza. Nessuno
dimostra Dio a un altro. E' un passo che ognuno deve fare per conto suo »
(Teologia della città, p. 473). Questo, crediamo, è il senso dell'affermazione
della possibilità della conoscenza naturale di Dio fatta dal Concilio Vaticano
I, il quale dice: «Eadem sancta mater Ecclesia tenet et docet, Deum, rerum
omnium principium et finem, naturali humanae rationis lumine e rebus creatis
certo cognosci posse... » (DB 1785).
Lo confermano due testi della Sacra Scrittura, quello del libro della
Sapienza dove sì dice: « Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano
nell'ignoranza di Dio, e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non
riconobbero l'artefice, pur considerandone le opere... Difatti dalla grandezza
e bellezza delle creature per analogia si conosce l'autore » (Sap
13, 1-5).
E quello di San Paolo che scrive: « In realtà l'ira di Dio si rivela
dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la
verità nell'ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro
manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del
mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con
l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e
divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli
hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei
loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si
dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria
dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile...» (Rom
1,18-23).
(Teologia
Fondamentale, Carlo Skalicky, “ut unum sint” Roma, p.54-56)
Fra cinquecento e seicento abbiamo il sorgere
di un senso di concretezza e una attenzione spiccata alla individualità.
Mentre infatti nel trecento quei temi erano inseriti all’interno di una
prospettiva fondamentalmente teologica, qui essi, pur senza affatto rinnegare
uno spirito religioso, vengono slegati da quella prospettiva e sviluppati
anzitutto in riferimento all’uomo e al suo agire mondano.
Avviene così che al richiamo medievale alla trascendenza, espresso
plasticamente nella sua forma più estrema dal gotico, si sostituisce una
religiosità che guarda piuttosto al divino che è nel mondo e nell’uomo.” (Ciancio-Ferretti-Pastore-Perone,
Profilo di Storia della Filosofia, Filosofia Moderna, vol.2, ed SEI - Torino,
p. 6-7)
Nato il
5-IX-1568 da un ciabattino analfabeta, in una terra desolata dal malgoverno
spagnolo, dalle calamità naturali e dalle scorrerie turche, C. non poté mai
liberarsi totalmente dai limiti della superstizione e dell'autodidattismo;
ansioso di spaziare con l'indagine per tutti i libri e soprattutto nel grande
libro vivo del creato (Dizionario enciclopedico, UTET, III).
Campanella, si consacrò nell'ordine domenicano dove poté compiere gli
studi, ma nel 1599 fu arrestato perché accusato di eresia e di cospirazione
contro il governo spagnolo di Napoli. Trascorse 27 anni nella prigione
napoletana dove scrisse La città del Sole, la descrizione di una società ideale
sul modello della Repubblica di Platone, un’isola felice, un mondo fattibile e
giusto, ma rigidamente disciplinato e gerarchicamente diretto: “... è la città
distinta in sette gironi e s’entra dall’una all’altro per quattro strade e per
quattro porte alli quattro angoli del mondo spettante, è un principe sacerdote
tra loro che s’appella sole e in lingua nostra si dice metafisico, questo è
capo di tutti, in spirituale e temporale e tutti li negozzi in lui si
terminano”. Uscì di prigione nel 1626, ma, nuovamente perseguitato, fu
costretto a cercare rifugio in Francia. Le sue opere, 82 in tutto, si occupano
di molti e diversi temi filosofici; fra i suoi trattati vanno segnalate la
Theologia e la Metaphysica. Fatalmente finisce più volte per cadere sotto i
rigori dell'Inquisizione: infrazioni disciplinari, intemperanze verbali,
opinioni eterodosse dispute incaute forniscono al Sant'Uffizio materia per un
duplice processo che si concluderà in Roma nel dicembre 1597 con l'ordine
drastico di far ritorno alla nativa Calabria. Costretto questa volta a
obbedire, C. trova in patria un ambiente di sordo malcontento sociale,
inasprito da contese giurisdizionali, da calamità naturali, da incursioni
turchesche, lievitato da oscuri presagi di sconvolgimenti cosmici imminenti. In
quel cupo ambiente egli getta il seme della ribellione con la propria
trascinante facondia e delinea il programma di una futura repubblica
comunistica e naturalistica destinata a restaurare il secolo d'oro dopo che gli
Spagnoli, i Feudatari, il clero saranno stati spazzati via. La congiura viene
subitamente repressa. Subirà un lungo, snervante processo, reiterate torture,
sofferenze inenarrabili sopportate con raro stoicismo. Appena libero, eccolo
riprendere la battaglia, caldeggiare le imprese missionarie, difendere
generosamente Galileo, polemizzare contro gli atei, discutere la
predestinazione, prender parte attiva in favore della Francia nella battaglia
pubblicistica scatenata contro la Spagna, sempre rinnovando un invitto
entusiasmo giovanile. Si mise in salvo in Francia, povero come sempre,
amareggiato da continue persecuzioni dei suoi nemici, fervido ancora nel
combattere l'errore, nel convertire gli eretici, nel caldeggiare i suoi grandi
ideali politici, e là si spense cristianamente il 21-5-1639 lasciando
incompiuta l'ultima sua impresa: l'edizione organica delle sue opere. Fra
queste, oltre alle bellissime lettere, tengono oggi il primo posto le poesie,
tardi tornate in luce (solo nel 1834 un filologo svizzero, Giovan Gaspare
Orelli, le riesumava parzialmente), ma che presto hanno additato nel C. uno dei
più alti vertici della lirica italiana; in forma rozza e tormentata, talora
avvolte in oscuri concetti filosofici, in laconismi potenti, in immediatezze
dialettali. Le poesie del C. si innalzano subitamente in un clima rarefatto di
colloqui dell'anima con sé stessa e con Dio; nei più duri anni del carcere,
quando la sofferenza fisica sembrava sul punto, di stroncare le ultime speranze
del recluso e la sua stessa fortissima fibra, gli accenti di lamentazione, di
ribellione, di accorato abbandono al divino volere toccano una purezza e una
profondità di timbro che ha raro riscontro nella storia della poesia. Sul piano
sociale, C., condannò apertamente l'egoismo, il particolarismo, l'ozio
parassitario, le inumane condizioni di vita dei diseredati e sognò di risolvere
i mali sociali con un progetto di repubblica ideale: La città del sole scritta
nel 1602 e pubblicata nel 1623, retta secondo un rigoroso comunismo monastico,
governata da sapienti, spartana nei costumi; l’astrattismo delle concezioni si
rivela nell'estensione del comunismo anche alla vita familiare, ma il libretto
serba un suo intramontabile fascino per il calore di interessi sociali,
l'esaltazione della fratellanza umana, del coraggio, delle virtù morali, del
sano esercizio fisico, per i precorrimenti del progresso scientifico, per le
geniali idee pedagogiche, anticipatrici del Comenio, del Froebel e delle più
moderne esperienze. C. riassume in sé le istanze rinnovatrici tentando
l'erezione di un totale edificio dottrinale ispirato al più genuino umanesimo
cristiano (Dizionario enciclopedico, UTET, III).
PROFILO
di storia DELLA FILOSOFIA, Ciancio-Ferretti-Pastore-Perone. ed SEI p.46-48
(testo liberamente sintetizzato) Nell'ambito della letteratura utopistica un
posto a sé spetta alla Città del sole, l’anima l'attesa di una profonda
trasformazione «e sarà grande monarchia nova e di leggi riforma e di arti, e
profeti, rinnovazione». Un tema caro al Campanella e che ritorna costantemente
in tutti i suoi scritti, così come nei diversi progetti che egli elaborerà.
Nella Città del sole confluiscono motivi religiosi e politici. Questa città, di
cui narra un navigatore genovese, ambientata nell'isola di Taprobana (l'odierna
Ceylon), è organizzata secondo un ordinamento politico gerarchico al cui sommo
sta un principe sacerdote, il Sole, o Metafisico, attorno a cui stanno tre
magistrati, Pon, Sin e Mor, il corrispettivo politico delle tre primalità
filosofiche di Campanella. Poche sono le leggi, ma la vita sociale è ugualmente
rigidamente determinata secondo regole precise, attente soprattutto alla
procreazione e all'educazione. Nell'isola i Solari vivono secondo un assoluto
comunismo, dei beni, delle donne, dei figli, delle abitazioni. Tutti lavorano e
perciò nessuno ha bisogno di lavorare più di quattro ore al giorno. I solari
infine professano una religione naturale in tutto simile al cristianesimo,
eccezion fatta per i sacramenti, che essi non conoscono. Come si vede la
struttura gerarchica trae il proprio fondamento da motivazioni filosofiche e
religiose. Ciò è visibile particolarmente nella figura del Metafisico, il quale
è al tempo stesso capo politico e sacerdote. L'una e l'altra funzione peraltro
gli vengono dalla sua sapienza che, come il nome indica, è metafisica. La convinzione di Campanella
è quella di una profonda unità tra politica, religione e filosofia, che sola
può condurre alla vera sapienza e garantisce contro la tirannide: «non
sarà mai né crudele, né scellerato, né tiranno uno che tanto sa».
La sua
utopia dell'ordine a svantaggio della libertà, contiene aspetti inquietanti. La
riflessione di Campanella appare ancora tutta inscritta nelle tematiche del
naturalismo rinascimentale nell'ingenua convinzione che il sapere da solo sia
garanzia di retto governo, questo è l’atteggiamento di larga parte del
razionalismo rinascimentale, troppo convinto del potere taumaturgico della razionalità
umana. La convinzione di essere investito di una missione, che lo porterà a
cercare sempre nuovi contatti per dare pratica attuazione alle sue idee di
riforma universale, l'inquietudine esistenziale, l'incomprensione ed il
fallimento segnano questa vita sofferta e tormentata. Egli fu filosofo e
letterato ed i suoi sonetti sono tra i momenti più alti della poesia italiana
del seicento. Peculiarità di Campanella fu quella di innestare sugli elementi
naturalistici un'ulteriore riflessione teologica facendo rivivere nella sua
Teologia il concetto platonico di partecipazione (sottolineare l'intima
presenza di Dio a tutti gli esseri e il riassumersi in lui di ogni perfezione).
Egli tuttavia accentua notevolmente la fondazione teologica dell'ordine naturale
del cosmo, sottolineando che se è vero che la natura ha in sé quanto le è
necessario per agire, essa è pur sempre tale perché così è stata creata da
Dio. Questo gli permette di intendere
la natura come un complesso di realtà viventi, ciascuna senziente, animata e
tendente al proprio fine, e tutte d'altra parte unificate ed armoniosamente
dirette a un fine universale da una comune anima del mondo.
Le tre
"primalità» dell'essere
Della
tradizione tomista accetta la fondamentalità della nozione di essere per
definire sia Dio sia le creature partecipi dell'essere divino. Ispirandosi poi
con Agostino, egli intende l'essere come intimamente strutturato secondo le tre
«primalità» divine di potenza, sapienza, amore partecipate da Dio con l'essere
ad ogni creatura. Le tre primalità sono dedotte dall'intreccio reciproco che
esse manifestano in ogni ente. «Ogni ente, potendo essere, ha la potenza di
essere. Ciò che può essere, sa di essere; se non avvertisse di essere, non
amerebbe se stesso e non sfuggirebbe il nemico che lo distrugge, e non
seguirebbe l'ente che lo conserva, come fanno tutti gli enti. Il sapere emana
dal potere... Gli enti amano quel che sanno... L'amore profluisce dalla
sapienza e dalla potenza” (Teologia 1,3,12).
L'autocoscienza
Su tale
base metafisica, si costruisce la gnoseologia campanelliana, che vede il
conoscere come intimamente legato all'essere stesso delle cose, e fa
dell'autocoscienza (o autotrasparenza dell'essere a se stesso) una
caratteristica fondamentale di ogni essere. «Noi affermiamo che la sapienza
appartiene allo stesso essere delle cose, e che una cosa viene sentita e
conosciuta perché è la stessa natura conoscente... Il conoscere è essere;
dunque qualunque ente, se è molte cose, conosce molte cose; se è poche, conosce
poche" (Metafisica II, 59). Questa struttura metafisica del conoscere si
presenta in maniera aurorale negli esseri interiori e si realizza in pienezza
nell'anima dell'uomo. Campanella parla di una originaria ed innata conoscenza
di sé che l'anima possiede e che viene disturbata dal sopraggiungere di
conoscenze esterne. Nel recupero dell'autocoscienza originaria sta per
Campanella la fondamentale giustificazione riflessa del nostro sapere, con cui
si sconfigge ogni possibile dubbio scettico e si pongono le salde basi della
metafisica. Con il tipico procedimento agostiniano, che sarà ripreso da
Cartesio, egli osserva infatti che anche colui che afferma di non sapere nulla,
ha originaria coscienza di sé come di colui che non sa, e quindi conosce il
proprio essere, e sa cosa sia il sapere e la verità. Certo è possibile non
conoscere molte cose, e quindi anche dire di non conoscerle; ma l'anima ha di
proprio che sa di non sapere o quindi conosce originariamente se stessa proprio
mentre avverte di non conoscere le cose diverse da sé. Su queste basi, non è
difficile a Campanella fondare una metafisica dell'assoluto e una originale
visione religiosa dell'uomo. Conoscendo e amando sé come ente, l'anima conosce
e ama l'essere di cui è partecipazione, e quindi conosce e ama Dio. Di Dio
l'anima ha quindi una conoscenza originaria, che costantemente accompagna la
conoscenza innata che essa ha di se stessa. L'uomo quindi, oltre che animale
ragionevole e libero, è anche animale «religioso». La religione è una
caratteristica naturale dell'uomo che, in quanto conosce e ama sé, già conosce
e ama Dio. La vita spirituale, con cui l'uomo ritorna alla originaria
autocoscienza di sé (dalla dispersione nelle realtà esteriori) , è anche
essenziale ritorno a Dio, una «reminiscenza» di Dio, presente fin dall'origine
con le sue tre primalità nell'anima dell'uomo. Contro i tentativi contemporanei
di ridurre la religione a puro fatto storico o strumento politico (si ricordi
la posizione di Machiavelli), Campanella sostiene quindi energicamente la connaturalità
per l'uomo dell'atteggiamento religioso.
(Sentieri
della Filosofia, La “Città del Sole” e il pensiero utopistico fra cinquecento e
seicento a cura di Giuseppe Scalizi, ed. Paravia). Campanella insiste nel
concepire il corpo sociale e le varie costruzioni politiche come entità in se
inerti, se non inserite nell’alveo di un contesto generale di ordine religioso
e spirituale rappresentato dal papato. Chi si prende cura, come fece Machiavelli, soltanto di aspetti legati alla
potenza terrena degli Stati finisce per limitarsi alla parte perdendo di vista
la totalità. Come bene affermò Luigi Firpo: “Malgrado il naturalismo e il
razionalismo, Campanella è un intimo assertore degli ideali della controriforma
per la sua avversione profonda all’agnosticismo incredulo del Rinascimento e
dell’individualismo anarchico della Protesta: il suo universalismo organico e
gerarchico e di inconfondibile stampo cattolico”(L. Firpo, Lo Stato ideale
della Controriforma, Laterza, Bari 1957, p.324). La totalità organica su cui si
sofferma Campanella, è dominata da un’eterna Legge, la Legge di natura, la cui
massima rappresentazione è il Cristianesimo rettamente inteso, un Cristianesimo
mondato da ogni abuso. La religione viene ad essere non uno strumento per
l’educazione di rozzi popoli, o uno strumento atto a rendere più sicuro e forte
il potere di un principe, ma l’autentica anima dello Stato. Medioevale è il
quadro tratteggiato dal Campanella: unità di tutte le genti sotto un potere
centrale che vede la coscienza della potestas sacerdotale con quella politica
(idem p.13). Il metafisico dei Solari, in questo senso, dovrebbe essere
considerato un pontefice in grado di far convergere nelle proprie mani sia la
potestà sacerdotale che quella temporale(Sentieri della Filosofia, La “Città
del Sole” di Campanella, Giuseppe Scalici, ed. Paravia,p.25). Il Cosmo,
nell’ottica campanelliana, non è inteso quale orizzonte ultimo dell’essere: la
totalità di cui facciamo parte è infatti l’immagine di una dimensione divina: è
il grande simulacro di Dio...(idem,p.16) Si riteneva all’epoca che esistesse
un’ininterrotta tradizione di pensiero, religioso e filosofico, inaugurata da
Ermete Trismegisto (il mitico Thot) in un imprecisato periodo dell’antichità egizia e fatta propria in
epoche diverse da pensatori “ispirati” quali Orfeo, Mosè, Pitagora, Platone,
Plotino, Giamblico, ecc... I punti salienti di tale tradizione possono essere
così sintetizzati:
-
assoluta perfezione del principio divino;
- cosmo
inteso quale esplicazione, in forme visibili, della divinità;
-
esistenza di un’Anima del mondo capace di vivificare, organizzare la materia, e
di determinare il divenire degli enti, le loro trasforazioni, le loro
interrazioni;
-
“caduta” dell’uomo da una situazione originaria di perfezione;
- primato
individuale dell’anima sulla materia del corpo;
- agire
umano finalizzato al ritorno presso la sfera divina (idem, p,16-17). Lo
riconosciamo in un giudizio complessivo sulla cultura del Quattrocento e
Cinquecento, formulato in un recente saggio di E. Garin: "La crisi del
sapere medievale aveva non solo
cancellato barrière, ma distinzioni antiche. L'artista si era fatto scienziato,
il filologo teologo, lo storico moralista, il fisico filosofo. Furono i
"nuovi filosofi" inquieti e ribelli, una specie di cavalieri erranti
del sapere, che si mossero fra sogni e magie, fra utopie e illusioni di paci
universali e perpetue, fra riflessioni critiche capaci di ogni sondaggio
interiore, fra vagabondaggi mistici in mezzo alle anime delle stelle e a
formule matematiche capaci di tradurne i moti, finalmente non più
circolari”(idem, p.18). I primi uomini, è scritto nel Senso délle cose, avevano
una conoscenza diretta al Dio che da poco aveva creato il mondo e spesso si
manifestava ed elargiva benefici. Spesso si indica la nécessita del ritorno al
culto dell'unico vero Dio "naturalmente" sentito da tutte le genti.
La religione non è mai, per Campanella, una sovrastruttura, uno strumento di
dominio o l'esito di un'arte: è una realtà viva e presente; nell'armonia del
cosmo, nell'uomo e — come istinto — in tutti glî altri enti. Religione è ciò
che "lega" tutte le cose e le rivolge alla loro origine prima, non
per esteriore imposizione ma intimamente. A questa religione innata, naturale e
razionale insieme, a questo spontaneo tendere verso Dio» si sovrappongono le
religioni positive, con i loro riti diversificati, dogmi e sacramenti. Ogni
epoca ha manifestato diverse forme di religiosità, ma non sono mai esistite
civiltà atee (Sentieri della Filosofia, La “Città del Sole” di Campanella,
Giuseppe Scalici, ed. Paravia,p.19). .
(Ciancio-Ferretti-Pastore-Perone,
Profilo di Storia della Filosofia, Filosofia Moderna, vol.2, ed SEI - Torino,
p.183-194)
Vita e
opere: La vita di Gian Battista Vico
ci è stata in gran parte descritta da lui stesso nella sua autobiografia
(1725-1728). Nato a Napoli nel 1678, si rivelò un genio precoce. Dopo gli studi
giuridici, per la sua preparazione culturale furono determinanti i nove anni
(1681-1693) trascorsi in qualità di precettore nel castello di Vatolla nel
Cilento che possedeva una ricchissima biblioteca. Furono anni di intense
letture e riflessioni che spaziavano dal campo della letteratura classica a
quello del diritto e a quello della filosofia. Tornato a Napoli vi trovò un
ambiente culturale assai interessato alle nuove correnti... Il suo pensiero si
ispirò tuttavia costantemente al platonismo, mediato attraverso la tradizione
rinascimentale e arricchito di altri importanti termini di riferimento quali
Bacone, Galileo e il giusnaturalismo. Vico fu una mente largamente
assimilatrice, ma non per questo eclettica. Anzi il suo pensiero, che recepisce
insieme le esigenze di una nuova ragione inventiva e sperimentatrice e quelle
della tradizione platonica e della tradizione religiosa, giunse a risultati
così originali che il suo tempo non poté apprezzarli. In effetti Vico condusse
una vita abbastanza oscura e non riuscì a ottenere che una cattedra di retorica
malamente retribuita. Di tali ristrettezze risentono anche le sue opere. Basti
pensate che il suo capolavoro, la Scienza Nuova, dovette essere scritta in
forma più succinta perché non bastavano i fondi per la pubblicazione. Forse
anche per questo motivo Vico ottenne scarsa comprensione presso i suoi
contemporanei.
Nel De
antiquissima Vico enuncia un principio fondamentale della sua filosofia: il
Vero e il fatto si convertono reciprocamente, per cui «il criterio e la regola
del vero consiste nell'averlo fatto». La verità di una cosa è nei principi e
negli elementi che la producono. Di conseguenza non si può conoscere veramente
la cosa senza possedere tali principi ed elementi: la scienza come «conoscenza»;
solo chi è in grado di produrla li possiede.
Tale
principio vale anzitutto a limitare le pretese della ragione, senza però cadere
nello scetticismo. A Cartesio Vico
contesta la possibilità di fondare sul cogito una scienza assoluta. Il cogito
infatti vale semplicemente ad accertare la mia esistenza, ma non è conoscenza
della natura del mio essere: la coscienza di me non è scienza di me, giacché
essa non produce il mio essere, ma semplicemente lo riconosce.
Riguardo
al nostro essere come a quello della natura, solo Dio ne possiede la verità, in
quanto ne è autore. L'uomo invece deve limitarsi a raccogliere gli elementi
delle cose ricomponendole dall'esterno, senza riuscire a penetrarle
dall'interno come fa la mente divina.
«La scienza umana sembra una sorta di
anatomia delle opere della, natura. Così, per fare un esempio illustrativo, la
scienza umana ha sezionato l'uomo in corpo e animo; e l'animo in intelletto e
volontà; dal corpo ha poi tolto o come sul dirsi, astratto figura e moto, e
da queste cose, come da tutte le altre,
ha tratto fuori l'ente e l'uno» (De Antiquissima I, 2).
Movendo dagli elementi astratti la mente umana ricostruisce la realtà
fornendone però una semplice immagine. Tuttavia movendo da questo limite che le
è costitutivo, la scienza umana può attingere una sua verità in misura in cui
essa costruisce, fa, cioè produce immagini, entità, connessioni, e producendole
ne possiede i principi e le regole.
E quello
che avviene nell'aritmetica e nella geometria, dove la mente partendo dall'uno
e dal punto costruisce delle realtà che, essendo opera sua, conosce
perfettamente. Le altre scienze invece garantiscono tanto meno il loro valore
di verità quanto meno sono astratte e cioè quanto meno i loro oggetti si riducono
a prodotti di operazioni mentali. Così la meccanica è meno sicura della
matematica, la fisica meno della meccanica e la morale meno della fisica.
Il grado
di verità proprio del sapere non dipende tuttavia dalla semplice corrispondenza
al factum umano, ma anzitutto dall'essere l'operare umano un'immagine di quello
divino. La mente deve riconoscere in sé la presenza di un'attività più alta:
«La mente umana si manifesta pensando, ma è Dio che in me pensa, dunque in Dio
io conosco la mia propria mente».
Sulla
base di questa apertura metafisica della mente non si può dunque dire che essa
sia semplicemente creatrice, ma piuttosto che è tale nell'atto stesso in cui è
imitatrice delle idee divine e partecipa della loro potenza. La necessità di ammettere
una verità divina a fondamento di quella umana risulta dal fatto che l'uomo 1a
presuppone e la applica sempre, anche quando sembra averla smarrita: «Dio mai
si allontana dalla nustra presenza, neppure quando erriamo, poiché abbracciamo
il falso sotto l'aspetto del vero e i mali sotto l'apparenza dei beni; vediamo
le cose finite e ci sentiamo noi stessi finiti, ma ciò dimostra che siamo
capaci di pensare l'infinito»(De Antiquissima I, 6). La coscienza dell'errore e
del finito implica la coscienza della verità e dell'infinito.
La sfera della realtà più propriamente umana e, come tale penetrabile
dall'interno è il mondo della civiltà umana prodottosi storicamente. La
scoperta di questo mondo rende possibile la più originale applicazione del
principio del vero e del fatto, dando luogo a una scienza « nuova». Essa avrà
la stessa certezza della matematica poiché studia una realtà i cui principi
sono nell'uomo stesso, ma sarà superiore alla matematica per la sua
concretezza, poiché non muoverà dall’astrazione, ma dai principi generatori
della concreta fattualità storica. Infatti il presupposto fondamentale di tale
scienza è che: «questo mondo civile, egli certamente è stato fatto dagli
uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritrovare i principi dentro
le modificazioni della nostra medesima mente umana» (Scienza Nuova, 3° ediz.,
I, 3).
In questo senso la Scienza Nuova è anche una "metafisica della
mente umana", e cioè una scienza dello spirito umano. Essa salda
strettamente l'indagine sulla storia a quella sull’uomo, e ciò non solo nel
senso che non si può conoscere la storia senza conoscere la mente umana che ne
è autrice, ma anche nel senso inverso. Infatti se si considera l'uomo
prescindendo dal suo sviluppo storico si rischia di isolarne, astrattamente,
una sua dimensione o di assolutizzare uno stadio del suo sviluppo. Così la
filosofia ha sempre corso il rischio di considerare l'uomo quale deve essere e
non anche quale è (e questo sarebbe il limite di Platone), oppure ha
sopravvalutato la ragione facendone una facoltà indipendente e assoluta (come è
avvenuto in Cartesio). La concreta realtà dell'uomo è comprensibile soltanto
conoscendo la legge del suo farsi, che si rivela solo in questo suo farsi e
cioè nel suo divenire storico. Vico caratterizza il suo metodo di indagine,
aderente alla storia, parlando di collaborazione tra filosofia e filologia(e
per filologia Vico intende non solo la scienza delle lingue e delle letterature
antiche ma anche della cultura in genere dei popoli antichi), la mancanza di
questa collaborazione ha ingenerato l’errore in molti filologi e filosofi: «La
filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia osserva
l'autorità dell'umano arbitrio, onde viene la coscienza del certo... »
(Scienza
Nuova, Degnità x).
La filologia porta l'autorità dei fatti, ma una filologia come mera
raccolta di fatti è altrettanto erronea di un'analisi puramente razionale
dell'uomo. Tra filosofia e filologia vi deve invece essere un rapporto di
conferma reciproca, cosicché si possa accertare il vero e inverare il certo. La
«scienza nuova» dovrà dunque procedere ricercando nei fatti storici le leggi
che ne regolano il prodursi e che saranno convalidate dal loro rivelarsi
conformi alla natura, della mente umana. Per scoprire queste leggi occorre
individuare quali sono le costanti
della storia: “Poiché questo mondo di nazioni è stato fatto dagli uomini,
vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono
tutti gli uomini, poiché tali cose ne potranno dare i principi universali ed
eterni, quali devon essere d'ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte
vi si conservano in nazioni» (Scienza Nuova, I, 3). La validità di leggi
attribuita a queste costanti storiche troverà poi conferma, secondo Vico, nel
loro essere principi primi ed effettivi ed effettivi di spiegabilità del mondo
storico.
Come si è detto, la Scienza Nuova, in quanto
scienza della storia, è una metafisica della mente umana, e anche, per il suo
attenersi
L'opera
della Provvidenza risulta dal fatto che i fini che la storia realizza vanno al
di là delle intenzioni degli uomini e ciò sia nel senso che li attuano spontaneamente, sia nel senso che realizzano
certi fini di giustizia e di progresso pur perseguendo intenti utilitaristici e
individuali(Scienza Nuova, Conclusione). In questo modo, come mostreremo più
chiaramente, la storia risulta essere una struttura molto complessa: infatti
proprio movendo dal fatto che essa è intelligibile all'uomo, in quanto egli ne
è l'autore si viene a riconoscere che l'uomo stesso, mentre fa e mentre guida
la storia, è egli stesso guidato. Si coglie in ciò una tensione tra storia
umana e storia divina, tra libertà e Provvidenza. È questo il motivo peculiare
della visione vichiana della storia, quello a partire dal quale più se ne sono
potute divaricare le interpretazioni.
I corsi
storici
L'interpretazione
della storia fornita da Vico muove soprattutto da un’analisi delle lingue
antiche, poiché e da un’analisi del diritto delle nazioni in quanto esso esprime
i principi dell'organizzazione civile, che costituisce il vero e proprio
prodotto storico dell'umanità.
La legge fondamentale della storia è quella del suo sviluppo in tre età... Religione, nozze e sepolture sono
dunque i principi fondamentali della civiltà(Scienza Nuova, Idea dell'Opera).
La religione è il primo principio perché è attraverso di essa che gli uomini
vincono il loro arbitrio disordinato e stabiliscono degli ordinamenti civili
fondati sulla volontà dègli dei. I matrimoni comportano la stabilità di vita e
la trasmissione ordinata dei patrimoni e dei poteri. Le sepolture sonò legate
alla fede nell'immortalità dell'anima, che innalza l’uomo al di sopra del bruto.
L'organizzazione
civile dell'età degli dèi è la famiglia del gigante, che trae la sua
legittimazione unicamente dalle rivelazioni divine fatte attraverso gli
auspici. Su questa età Vico si diffonde poco giacché mancano i documenti.
La
seconda età ebbe inizio quando presso gli uomini che si erano stabiliti e
organizzati si raccolsero altri uomini che cercavano protezione e rifugio per
sfuggire ai pericoli della vita selvaggia.
Nacquero
così le prime città e le prime organizzazioni politiche caratterizzate dalla
distinzione fra signori e servi.
I signori
sono gli eroi che impongono il diritto con la forza, un diritto non comunicato
a tutti e legato alle parole del signore. Quando i servi rivendicano ai signori
i propri diritti, questi per meglio difendersi si uniscono in ordini nobiliari
dando vita così agli stati aristocratici. In questa età sorgono anche le prime
lingue articolate che hanno carattere mitico e poetico in quanto opera della
fantasia. La conquista dei diritti civili da parte dei servi segna il passaggio
alla terza età: ciò avviene attraverso le leggi agrarie e soprattutto con la
concezione delle nozze solenni, che danno diritto alla trasmissione ereditaria.
Nascono allora gli stati popolari fondati sul «diritto umano dettato dalla
ragione umana tutta spiegata».
Questa
forma di governo non è necessariamente democratica, ma può essere anche
monarchica purché in essa viga «la ragione naturale, che eguaglia tutti».
Conforme a questi caratteri è anche la lingua di questa età, fatta di voci
convenzionali, di cui «sono signori assoluti i popoli».
La legge delle tre età costituisce la « storia ideale eterna, sopra la
quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni». Essa cioè è la norma di
sviluppo di ogni civiltà, e la sua universalità è dimostrata, secondo Vico, dal
fatto che i popoli l'hanno seguita senza che vi sia stata influenza dell'uno
sull'altro. La storia ideale eterna come legge di sviluppo della storia è poi
anche legge di sviluppo dell'uomo in generale. La storia cioè si è svolta
secondo certi gradi e un certo ordine perché lo spirito umano può svilupparsi
solo in quel modo: prima come senso, poi come fantasia, infine come ragione: «
Gli uomini prima sentono senz’avvertire; dappoi avvertiscono con animo
perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura» (Scienza Nuova,
Degnità LIII). Nell'età della ragione l'uomo che passa dalla fanciullezza, in
cui dominano il senso e la fantasia, all'età adulta, in cui domina il pensiero
razionale, ripete in sintesi lo sviluppo storico dello spirito umano.
La storia ideale eterna implica la presenza nella storia della
Provvidenza. L'ordine e la norma della storia temporale si impongono infatti
solo perché c'è una forza superiore e provvidenziale che dalla paura,
dall'utilità, dalla violenza e dalle rivolte sa trarre un progresso civile. Ciò
significa che nell'agire umano è presente una vis veri, un principio di verità
divina, che nelle diverse età si fa presente all'uomo in modo diverso.
Nelle
prime due età il vero assume il carattere del certo e cioè di ciò che è stato
divinamente rivelato o tramandato dagli antenati.
Non si
tratta dunque di una verità razionalmente mostrata, ma piuttosto attestata dal
senso comune, che è «un giudizio senz'alcuna riflessione, comunemente sentito
da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il
genere umano». Nel senso comune l'arbitrio umano ha una regola cui attenersi.
Vico si
diffonde in particolare sul sapere proprio della seconda età, la sapienza
poetica, che in effetti costituisce una delle sue scoperte più originali.
Innanzitutto tale sapienza è detta poetica perché il primo linguaggio, in cui
essa si esprime, è fantastico e sublime e non ancora razionale; infatti «la
fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio». Carattere
della poesia è «alle cose insensate dare senso e passione, ed è proprietà de'
fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi,
come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologica-filosofica ne
appruova che gli uomini del mondo fauciullo, per natura, furono sublimi poeti»
(Scienza Nuova, Degnità XXXVII).
Per
questo «tutte le storie barbare hanno favolosi principi» ed è nei miti che
dobbiamo rintracciare la storia, la cultura e la sapienza dei popoli antichi.
I miti
dunque non sono semplici favole e nemmeno un rivestimento poetico di una
«sapienza riposta», ma una comprensione fantastica della verità.
Gli
antichi, incapaci di esprimersi per concetti, usavano degli universali
fantastici che sono modelli fantastici, ritratti ideali, universali in quanto
possono rappresentare realtà particolari ad essi somiglianti; così, ad esempio,
i greci non concepirono l'idea della prudenza, ma raffigurarono l'eroe Ulisse
come modello fantastico di ogni uomo prudente.
Con
l'analisi della sapienza poetica Vico raggiunge alcuni notevoli risultati.
In primo
luogo stabilisce l'autonomia della poesia, nel senso che si tratta di una
forma espressiva specifica indipendente
dal linguaggio razionale.
I tropi
del linguaggio poetico: allegoria, metafora, metonimia, sineddoche, ecc., «i
quali si sono creduti finora ingegnosi ritruovati degli scrittori, sono stati
necessari modi di spiegarsi di tutte le prime nazioni poetiche». La poesia cioè
non è il risultato di un'operazione estetica sul linguaggio razionale, ma è una
forma espressiva naturale e originaria.
In
secondo luogo alla poesia non è assegnata una funzione puramente estetica, ma
una funzione rivelativa: essa custodisce la verità sentita e immaginata quale
l’appresero i primi uomini. In terzo luogo, e conseguentemente, è rifiutata
l'origine convenzionale del linguaggio. Questa suppone infatti l'attribuzione al
linguaggio della funzione meramente operativa di rendere possibile la
comunicazione dei concetti, e inoltre non permette di spiegare lo stesso
momento convenzionale del linguaggio (che pure esiste): le convenzioni,
infatti, possono venire stabilite solo a partire da un precedente linguaggio
(non convenzionale). Al contrario la natura metaforica e fantastica del
linguaggio originario spiega la sua dimensione rivelativa, il fatto cioè che in
esso sia presente una comprensione primitiva della verità, nel senso di una
prima interpretazione in termini universali della realtà, attraverso gli
universali fantastici.
Sulla
scorta di quest'analisi della sapienza poetica Vico giunse a risultati come
quello della « riscoperta del vero Omero ». Poiché il linguaggio dei miti
primitivi sono il patrimonio di tutto un popolo e poiché Omero si deve
considerare come il primo autore della lingua greca, e i suoi poemi furono
sentiti come patrimonio culturale comune di tutte le genti greche, Vico vede in
essi non l'opera di un singolo poeta, ma l'espressione della sapienza poetica
di tutto il popolo greco.
La
sapienza poetica, in quanto è sapienza su cui si reggono e progrediscono i
popoli antichi, è soprattutto sapienza metafisica e giuridica.
Essa ha
per contenuto i principi di giustizia e di ordine che devono guidare la vita
civile, ma tale contenuto si manifesta in forme diverse a seconda che operi
attraverso il senso o la fantasia o la ragione.
Ciò
significa che da un lato la verità si produce storicamente ma dall'altro è
essenzialmente sovratemporale, si che in ogni età può essere presente nella sua
interezza.
Provvidenza
e libertà umana
La verità
della storia è dunque una verità metafisica nella storia. Nella storia si
realizza la mediazione tra umano e divino: nel fare umano si rivela il vero
divino, e d'altra parte il vero umano si attua attraverso il fare divino (della
Provvidenza).
La verità
si manifesta attraverso e nonostante l'arbitrio umano e può anche essere sviata
dall'arbitrio stesso o da motivi contingenti.
La
Provvidenza è la legge della storia, ma una legge trascendente. Che la storia
sia spiegabile attraverso l’ordine provvidenziale non significa che essa sia
necessitata, ma piuttosto che ogni sviluppo storico deve attenersi ad esso per
non degenerare, ed anche che in esso la storia trova possibilità e garanzia di
superare ogni fattore degenerativo.
La forza
e l'opera della Provvidenza si manifestano nella sua capacità di servirsi degli
strumenti umani, anche più rozzi e refrattari, per produrre un ordine di
giustizia. E tuttavia tale ordine resta affidato alla libertà dell'uomo.
Che il
processo storico non abbia carattere di necessità risulta particolarmente evidente
nella dottrina dei regressi e dei ricorsi. Viro individua nel compimento del
progresso giunto all'età della ragione i germi di un possibile regresso: «Gli
uomini prima sentono il necessario: dipoi badano all'utile; appresso
avvertiscono il comodo; più innanzi si dilettano nel piacere; quindi si
dissolvono nel lusso; e finalmente impazzano in istrappazzar le
sostanze»(Scienza Nuova Degnità LXVI).
A questa
decadenza dei costumi corrisponde una decadenza della cultura nello scetticismo
e nella falsa eloquenza, mentre gli stati popolari finiscono nell'anarchia e
poi nella tirannide. A ciò la Provvidenza offre tre rimedi; o un forte monarca
che risollevi lo stato, o l'assoggettamento a una azione migliore e più forte o
la regressione nella barbarie da cui inizia un nuovo corso storico, che ripete
le tappe del corso precedente, per quanto a un livello superiore. In questo
modo gli uomini, che avevano smarrito
la verità nello Scetticismo e nella dissolutezza, poterono recuperare un
rapporto immediato con essa attraverso il ritorno al senso e alla fantasia. La
possibilità dei regressi e dei ricorsi storici dimostra che il progresso
storico non è garantito sempre e che tuttavia la Provvidenza guida sempre la
storia, ma anche qui attraverso possibilità diverse e non in modo univoco e
necessitante.
L'età
della ragione in particolare sembra essere l'età critica della storia. Infatti
mentre nei primi stadi della civiltà la Provvidenza si impone con la forza
della certezza, nell'età della ragione il vero diventa oggetto di libera
ricerca e compito da realizzare consapevolmente. Il piano provvidenziale può
qui operare solo in quanto riconosciuto compiutamente dalla ragione "tutta
spiegata". La filosofia succede allora alla religione, «così ordinando la
provvidenza: che, non avendosi appresso a fare più per sensi di religione (come
si erano fatte innanzi) le azioni virtuose, facesse la filosofia intender le
virtù nella lor idea»(Scienza Nuova, Conclusione). Ma poiché nella filosofia la
custodia della verità è affidata al libero giudizio della ragione, maggiore è
la possibilità della caduta nell'errore e nello scetticismo, per cui «si
diedero gli stolti dotti a caloniare la verità».
Questa
possibilità di smarrimento significa che la ragione non è una facoltà
pienamente indipendente e creatrice di verità.
Innanzitutto
essa non può essere svincolata dal senso e dalla fantasia, a rischio di
diventare vuota. E in questa prospettiva il fine della storia non è il semplice
esplicarsi della ragione, ma l'armonia di senso, fantasia e ragione. Inoltre
essa è subordinata alla verità divina come alla sua norma.
Per
questi motivi la ragione deve essere solidale con il senso comune e con la
tradizione in cui si manifesta l'opera provvidenziale: «La provvidenza ci si fa
apertamente sentire in quelli tre sensi: uno di meraviglia, l'altro di
venerazione ch'hanno tutti i dotti finor avuto della sapienza inarrivabile
degli antichi, e 'l terzo dell'ardente desiderio onde fervettero di riceverla e
di conseguirla » (Scienza Nuova, Conclusione). È questo il motivo più profondo
per cui devono convergere filosofia e filologia, vero e certo. La storia non si
può semplicemente dedurre dalla sola mente umana con una pura costruzione
razionale, perché la stessa mente umana si rivela a se stessa solo attraverso
l'opera provvidenziale, a cui dunque deve fare riferimento per conoscere la
propria verità.
Se allora
si può dire che la filosofia succede alla religione, ciò non significa che la
annulli, ma al contrario che ad essa spetta il compito di custodirla: «Da tutto
ciò che si è in quest'opera ragionato, è da finalmente conchiudersi che questa
Scienza porta indivisibilmente seco lo studio della pietà, e che, se non siesi
pio, non si può daddovero esser saggio» (Scienza Nuova, Conclusione).
Accettare
la negazione niciana a causa del suo esito radicalmente nichilistico è
IMPOSSIBILE, al punto che, giunge a togliere credibilità fondamento e dignità a
Dio negandolo.
Nell’intero
sviluppo di tale ontologia il fondamento (Dio) è stato ridotto a cosa o ente;
per farne, appunto, un ente disponibile al gioco strumentale dei nostri calcoli
umani.
Davanti a
questo Dio dell’Onto-teo-logia non è possibile alcuna autentica esperienza di
ascolto, poiché le orecchie sono troppo disturbate dal vano frastuono della
chiacchiera teologica e filosofica.
Il Grund
dell’onto-teologia scade ad idolo, diventa davvero un Dio morto ed idiota e
rischia sempre di essere assunto come un assoluto terrestre (Pietro Prini, in
“Storia dell’esistenzialismo”, edito da studium)
Disperati, non comprendono il rapporto tra finito e
infinito; sono convinti che non potrà mai darsi alcuna conciliazione tra
l'Essere infinito di Dio e la finitezza della creatura; insomma, il rapporto
tra finito e infinito non consente neanche un superamento di tipo hegeliano; il
male del mondo non è in alcun modo redimibile: "nessuna redenzione, né in
cielo, né in terra, né cristiana, né paranormale (in questo siamo d’accordo)
possibile. La morte in croce del Cristo e il suo grido di abbandono sono il
segno del suo fallimento, almeno del fallimento della sua pretesa divina.
Di conseguenza l’interpretazione della passione e morte del
Figlio come sacrificio espiatorio è la più grande mistificazione compiuta dal
cristianesimo.
Il Figlio rinvia al Padre.
La Parola rimanda al Silenzio.
Il Rivelato rimanda al Dio nascosto ("Deus
Absconditus"). Sottolinea giustamente Massimo Cacciari nel suo saggio dal
titolo “Del Silenzio” (edito da Adelphi), che il termine "Re-velatio"
non va inteso solo come manifestazione divina, ma al contrario come un
"tornare a velarsi".
Dunque il silenzio è l'altra sponda, la profondità
nascosta di ciò che si rivela, il sentiero che conduce alle insondabili profondità
di Dio. Il Silenzio è il Padre da cui scaturisce eternamente la Parola che è il
Figlio. A questo punto ci colleghiamo subito col nostro tema che, non lo si
dimentichi, coincide col ritrarsi del fondamento; poiché il Padre è
essenzialmente esuberanza di comunicazione nella delicatezza di un amore
personale che non vuol fare imposizione alcuna.
Sillogismo:
“Chi non frena le passioni è pieno di brama, chi è pieno di brama non è mai
sazio e non è mai sereno, chi è in questo stato è infelice e disgraziato,
quindi chi non frena le passioni è un disgraziato!!!”
LA LEGGE
NATURALE (liberamente tratto da J. Maritain, La Conquista della libertà,
Antologia del pensiero etico politico, ed. La Scuola-Brescia). Ricordiamo le
parole di S. Paolo in Rom. 2,14: "quando i Gentili che non hanno legge,
fanno secondo natura le cose contenute nella legge, costoro, pur non avendo
legge, sono legge a se stessi". Sofocle scrive di Antigone, che
consapevole di trasgredire la legge umana, è colpita da questa, obbediva ad un
comandamento migliore, la legge non scritta ed immutabile: “queste leggi non
nate dall'arbitrio di oggi o di ieri, vivono sempre e per sempre, e nessuno sa
da dove sono nate".
Tutti gli
uomini hanno in comune la natura umana, ed avendo l'intelligenza agiscono
comprendendo quello che fanno, con il potere di determinare le proprie scelte.
Ma dal momento che l'uomo è dotato di intelligenza, egli stabilisce i suoi
fini. L’uomo deve accordarsi con i fini richiesti dalla sua natura. Ogni genere
di cose, di esseri, ha la sua legge naturale che consiste nella normalità del
suo funzionamento. Questa naturalità è di rilevanza morale per l'uomo. Proprio
la libertà o libero arbitrio implica e necessita di obblighi morali. Ogni uomo ha obblighi morali! La legge naturale
per l'uomo è legge morale, perché l'uomo l'ubbidisce o disubbidisce
liberamente. Il fine dell'uomo (come vedremo) è trascendente, per questo la
legge naturale implica anche sensibilità, esigenze, aspettative di ordine
superiore al bene immanente. La legge naturale è la formula ideale di sviluppo
di un dato essere. Diciamo allora che, nel suo aspetto ontologico, la legge
naturale è un ordine che si riferisce alle azioni umane, uno spartiacque tra
ciò che conviene e ciò che non conviene, tra il proprio e l'improprio, che
dipende dalla natura umana e dalle necessità immutabili che vi sono radicate.
Il precetto non uccidere, come altri del decalogo, è un precetto di legge
naturale. E' naturale, rispettare il proprio essere nei propri simili, in cui
si riconosce un'appartenenza al proprio destino. L'uomo, in quanto uomo, ha
diritto di vivere, perché anch'io sento di avere in me lo stesso diritto. Per
riassumere, diciamo che la legge naturale è sia ontologica che ideale, ma è
anche pratica e politica perché è l’unica che può costruire positivamente la
società. E' ideale, perché si fonda sia sull'essenza umana che sulle necessità
comuni e immutabili del genere umano. E' ontologica, perché struttura l'unico
progetto possibile per l’uomo (che vuol essere o divenire veramente umano). Non
solo le regole prime e fondamentali ma anche le più piccole regole dell'etica
naturale significano conformità alla legge naturale, (cioè, gli obblighi
naturali o i diritti di cui noi oggi non abbiamo idea alcuna e di cui gli
uomini diverranno consapevoli in un lontano futuro). Un angelo che conoscesse
l'essenza umana secondo le sue capacità soprannaturali (tu che ora mi leggi,
sei forse quell'angelo bellissimo di purezza e semplicità, da saper individuare
in te, tutte le esigenze della legge naturale e da potermele insegnare?) e
tutte le situazioni dell'esistenza possibili per un uomo, potrebbe conoscere la
legge naturale nell'infinità della sua estensione. Noi non lo possiamo, per quanto
i teorici del secolo XVIII credettero di averla conosciuta. La legge conosciuta
e sperimentata, in quanto misura della ragione è legittimazione degli atti
umani. Gli uomini la riconoscono con minore o maggiore difficoltà, ed in gradi
differenti, correndo il rischio di sbagliare qui come altrove. Il preambolo
della legge naturale è: "fai il bene ed evita il male". La legge
naturale è l'insieme delle cose da fare (e da non fare) in maniera necessaria.
Che nella determinazione di queste cose sia possibile ogni sorta di errore e di
aberrazione, che la nostra natura è
ancora rozza, e che innumerevoli accidenti possono falsare il nostro giudizio,
prova soltanto che la nostra visione è scarsa. L'errore, anche di un popolo,
non è una prova contro la legge naturale, così come l'errore in una addizione
non è la prova contro l'aritmetica. La conoscenza che l'uomo ne ha è andata
aumentando a poco a poco che si andava sviluppando la sua coscienza morale.
Questa conoscenza continuerà inesauribile finchè esisterà l'uomo. S.Tommaso
d'Aquino dice che la ragione umana scopre le regole della legge naturale sotto
la guida delle inclinazioni (positive o negative, comunque indimostrabili
proprio perché istintive) della natura umana. Questa conoscenza si fa strada
prima per esperienza che per concetti. Si capisce come la conoscenza della
legge naturale è andata modellandosi continuamente secondo le inclinazioni
della natura umana, partendo dalle più fondamentali. [La conoscenza degli
aspetti primordiali e preistorici della legge naturale fu espressa dapprima in
schemi di precetti e proibizioni sociali più che in giudizi personali; di modo
che noi potremmo dire che questa conoscenza si è sviluppata sia nelle
inclinazioni che nella società umana, conoscenza incorporata nella eredità più
antica e più generale della comunità. In queste intelaiature o schemi dinamici
antichi, possono intervenire molti contenuti diversi, per non parlare delle
deviazioni pervertite che possono mescolarsi a quelle fondamentali, come alcune
pratiche tribali]. E' così che nei tempi antichi e nell'età medioevale si diede
più peso, nella legge naturale, agli obblighi dell'uomo che ai suoi diritti. La
grande conquista del secolo XVIII fu di portare in piena luce i diritti
dell'uomo come se richiesti anche dalla legge naturale. Legittima richiesta. Ma
la grande conquista fu pagata dagli squilibri ideologici. L'attenzione si
spostò, dagli obblighi dell'uomo, soltanto sui suoi diritti. Una visione verace
e comprensiva avrebbe fatto attenzione sia agli obblighi che ai diritti
impliciti nelle esigenze della legge naturale.
La
persona è parte della società politica in quanto cittadino, e tuttavia la
trascende in ragione dei valori assoluti ai quali essa si riferisce. Mentre la
società politica guarda al tempo, la persona deve proiettarsi in un destino
superiore al tempo[L'abbiamo già notato: è per la improvvisa irruzione del
monoteismo prima e del messaggio evangelico poi che codesta trascendente dignità
della persona umana s'è resa manifesta e completa.]. Ma di quì la coscienza di
questa dignità ha conquistato a poco a poco la sfera dell'ordine naturale
stesso, penetrando e rinnovando la nostra coscienza della legge di natura e del
diritto naturale. Quando gli apostoli rispondevano al sinedrio, che voleva
impedir loro di predicare in nome di Gesù: "E' meglio per noi ubbidire a
Dio che agli uomini", affermavano così la trascendenza della persona umana
nello stesso ordine naturale. Già nell'ordine naturale la persona umana
trascende lo Stato, in quanto l'uomo ha un destino superiore al tempo e mette
in gioco energie finalizzate a tale destino. L'universo delle verità e degli
ideali, di scienza, di saggezza, d'arte e di poesia, verso il quale tende
l'intelligenza, deriva, per natura, da un dominio più elevato che quello della
comunità politica. Il segreto dei cuori, l'universo delle leggi morali, il
diritto della coscienza di ascoltare Dio e fare il suo cammino verso di lui,
tutte queste cose, nell'ordine naturale come nell'ordine soprannaturale, non
possono essere toccate dallo Stato nè cadere in suo potere. Senza dubbio lo
Stato ha anche una funzione morale e non soltanto materiale; la legge, infatti
ha una funzione pedagogica e tende a sviluppare le virtù morali, lo Stato ha il
diritto di punirmi se, la mia coscienza essendo accecata commette un atto
delittuoso. Ma in simile circostanza lo Stato non ha l'autorità di farmi
correggere il giudizio della mia coscienza più di quanto non abbia il potere di
legiferare sulle cose divine, ne di imporre alcuna credenza religiosa,
qualsiasi essa sia. Lo Stato lo sa bene. Ed è per questo che, ogni volta che
esso esce dai suoi limiti naturali per penetrare, in nome di rivendicazioni
totalitarie, nel santuario della coscienza, si sforza di violare questa con
mezzi mostruosi di avvelenamento psicologico, di menzogna organizzata e di
terrore.
(liberamente
tratto da: J. Maritain, La conquista della libertà, Antologia del pensiero
etico politico, ed. La Scuola - Brescia, p.78)
L'intelletto pratico non ha a che fare soltanto con la creazione
artistica, ma anche è prima di tutto con la vita morale dell'uomo. V'è in
questo ordine un'altra strada verso Dio, che è compresa nell'esperienza morale
e che potremmo chiamare la conoscenza morale di Dio. Non è possibile
giustificare razionalmente concetti morali fondamentali quali: 1.- il concetto
d'obbligo morale incondizionato; 2.- quello del diritto inalienabile; 3.-
quello dell’intrinseca dignità della persona umana; senza risalire alla Ragione
increata donde procedono l'uomo e il mondo e che è il concetto del Bene. La
riflessione filosofica sulla vita e l'esperienza morale ha in tal modo le prove
dell'esistenza di Dio. Quando il bambino si desta alla vita morale, il suo
primo atto e di "deliberare di se stesso"; si tratta di scegliere la
propria strada. Un bambino si astiene un giorno dal dire una bugia, se ne
astiene in quel giorno non perché rischia di essere punito se la bugia viene
scoperta o perché gli è proibito dire bugie, ma semplicemente perché è male;
non sarebbe bene farlo. In quel momento il bene morale con tutto il mistero
delle sue esigenze, gli si manifesta confusamente, in un lampo d'intelligenza.
Qual'è il dinamismo segreto del primo atto di libertà? "L'anima in questa
prima scelta morale si allontana da una azione cattiva perché è cattiva:
l'intelligenza conosce perciò la distinzione del bene e del male e sa che
bisogna fare il bene perché è bene, motivo che sorpassa l'ordine della
convenienza". "Ma poichè il valore dell'atto morale è superiore a
tutto ciò che è dato nell'esistenza empirica,
(concerne ciò che deve essere), fare il bene per il bene implica
necessariamente che vi sia un ordine ideale indeclinabile della giusta
consonanza del nostro agire con la nostra essenza". Implica
necessariamente un dato oggetto dell’atto morale. E poichè, il mio vero bene è
al contempo il bene di tutti, questo è l'Unico Bene, tanto superiore e universale
da trascende tutto l'ordine empirico. Questa legge manifesta l'esistenza di un
Bene separato che trascende Egli stesso tutta l'esperienza empirica e sussiste
di per se. "Queste implicazioni non sono aperte all'intelligenza del
bambino; sono contenute nell'atto che decide per una cosa buona in ragione del
bene morale, del bene onesto di cui egli ha l'idea esplicita, per quanto
confusa"(Raison et Raisons, pp.135-137). Non è affatto necessario ch'egli
pensi esplicitamente a Dio e al suo fine ultimo quando compie questo suo primo
atto d'uomo. "Egli pensa a ciò che è bene e a ciò che è male. Ma al tempo
stesso conosce e sperimenta Dio senza saperlo, perché in virtù del dinamismo
interno di questa scelta del bene per il bene, egli vuole e ama il Bene
oggettivo separato dal suo io, come fine ultimo della sua esistenza”.
---Opzione morale fondamentale per il Bene,
che esige continuamente di offrire tutta la vita a servizio di questo bene. La
vita umana diviene prigioniera del Bene e si dispone a fare di se un’offerta
d’amore, un’espressione sacerdotale!---
In tal
modo l'intelligenza ha di Dio una conoscenza vitale e non concettuale, con il
moto di volontà verso questo bene, e al tempo stesso verso il Bene. In altri
termini, la volontà andando istintivamente all’atto moralmente positivo, in
concreto va oltre l'oggetto immediato della conoscenza e trascina con se tutto
l’essere di persona all’incontro con Dio. La volontà con questo slancio puro,
scelto perché buono, si trova proiettata fino a questo oltre (l'intelligenza si
proietta in una luce di conoscenza senza concetto e senza possibilità
concettuali esprimibili, luce unicamente disponibile attraverso la
contemplazione). “La rettitudine è nell'ordine pratico la misura della verità
dell'intelligenza.”(Raison et Raisons, pp.137-139). Anche se la ragione
cosciente si trova nella ignoranza completa di Dio un uomo può in tal modo
conoscere Dio, in maniera incosciente ma reale, pratica, esistenziale e
volitiva. Ci troviamo in presenza di una conoscenza reale, ma che ha luogo
nell'inconscio dello spirito, e che è tratta fuori dalla sua notte soltanto
dalla considerazione del filosofo quando l'analizza negli altri. Ne consegue
che chi crede di essere ateo; non può esserlo in realtà se ha scelto il Bene
per se stesso, come orientamento fondamentale di tutta la sua vita. E' uno
pseudo-ateo. Ciò che lui nega è in realtà solo un prodotto concettuale, egli in
realtà non nega Dio che è l'oggetto autentico della ragione e al quale egli
crede, senza saperlo, in fondo al suo cuore. Il pseudo-ateo, crede
empiristicamente in Dio, così che egli è diviso in se stesso, perché sorgono
evidenti ostacoli tra il pensiero cosciente e le elaborazioni incoscienti o
esistenziali di Dio che egli porta in se nascoste e attive. Tale situazione è
di per se anormale. Normalmente la conoscenza esistenziale di Dio legata al
primo atto di libertà -quando è retto- richiede di passare naturalmente nella
coscienza e vi fa la sua strada. Essa crea nell'anima disposizioni ed
inclinazioni che aiutano la ragione a scoprire la verità che corrisponde loro.
Egli così ha gli elementi non solo per conoscere Dio, ma anche per
riconoscerlo, così nasce una relazione stabile e permanente, la più bella
relazione di tenera amicizia creativa che si possa concepire. Se si tratta al
contrario di un vero ateo, l'ateismo, che egli professa coscientemente è il
rifiuto aprioristico di ogni trascendenza e quindi la negazione del Bene. Il
vero ateo è l’uomo cattivo e disperatamente egoista. "Il bene morale, il
dovere e la virtù divengono fatalmente ed egoisticamente una esigenza della
propria perfezione presa per centro assoluto, un rito desolato della propria
grandezza, una sottomissione totale di se all'arbitrio del divenire deificato
(all’idolatria di se e delle sue idee), e perdono la loro vera natura"
(Raison et Raisons, p.163). L’orgoglio diabolico della propria superiorità
culturale o spirituale, per ergersi razzisticamente sugli altri uomini
=super-io.
La
libertà di ciascuno deve essere protetta, l'uomo deve lavorare per sottomettere
a sé ogni forma di barbarie, la città deve essere forte e difendersi
efficacemente contro le azioni dissolventi e contro i suoi nemici. Ma l'opera
politica verso cui tutto questo deve tendere è il miglioramento delle
condizioni della vita umana stessa e di procurare il bene comune della
moltitudine in tal maniera che la persona concreta (non soltanto una categoria
di privilegiati), acceda realmente alla misura d'indipendenza che conviene alla
vita civile, e che volta a volta le garanzie economiche del lavoro e della
proprietà, i diritti politici, le virtù civili e la cultura dello spirito
assicurano. La possibilità dello sviluppo consiste prima di tutto nella
fioritura della vita morale e razionale. Liberazione ed emancipazione
permanente da ogni forma di schiavitù ed asservimento al male morale. Il
progresso è possibile solo se la società conosce le esigenze di un ideale
storico elevato, capace di sollevare
tutte le energie di bontà e di progresso nascoste nelle profondità dell'uomo e
oggi represse, negate o pervertite. Lottiamo insieme per l'instaurazione di una
città fraterna in cui l'uomo sia liberato dalla miseria e dalla servitù. Vi è
una speranza più grande che deve essere portata agli uomini, per il quale si
può domandare agli uomini di lavorare, di combattere e di morire: la verità
dell'immagine di Dio in noi, la libertà e la fraternità universale. Se la
nostra società agonizza è perché non osa abbastanza, perché agli uomini non
abbastanza propone. Una nuova civiltà vivrà a condizione di sperare, di volere
e di amare veramente ed eroicamente la verità, la libertà e la fraternità.
CONCLUSIONE: La sana società umana è fondata sulla moralità intrinseca del bene
comune e della vita politica. Ispirazione personalistica e comunitaria
dell’organizzazione sociale, legame organico della società civile con la
religione (senza costrizione religiosa né clericalismo). Il diritto e la
giustizia, l'amicizia civica e l'uguaglianza che essa comporta, come principi
essenziali della società. Opera comune ispirata dall'ideale di libertà e di
fraternità tendente come a suo limite superiore alla instaurazione di una città
fraterna in cui l'essere umano sia liberato dalla servitù e dalla miseria.
Questa realtà politica è negata o misconosciuta, sia dall'antico individualismo
borghese, sia dai totalitarismi massificanti di oggi. E' qualcosa di nuovo che
gli uomini dovranno costruire dopo questa guerra, in mezzo alle rovine, se
l'intelligenza, la buona volontà e le energie creatrici prevalgono in essi.
(Maritain, Cristianesimo e democrazia Ed. di Comunità - Milano 1950)
L'uomo è
un animale dotato di ragione, ma è immensa la parte di animalità in tale
rapporto. La parte dell'immorale è più grande ancora nella vita sociale e
politica che nella vita individuale. Ne consegue che un lavoro di educazione,
che sottomette l'irrazionale alla ragione e sviluppa le virtù morali non è
facile. Purtroppo c'è chi conta, per raggiungere i propri fini sulla potenza
del male e della corruzione. Questo è fare la rovina degli uomini e mettersi al
servizio del male. Noi emergiamo ancor poco dall'animalità e così grande è in
noi la parte della malvagità e della
perversione. Le condizioni storiche e lo stadio ancora inferiore dello sviluppo
dell'umanità rendono difficile alla vita sociale di comprendere pienamente il
suo fine. Ma la filosofia politica che si fonda sulla realtà deve lottare volta
a volta contro due errori opposti: da una parte uno pseudo idealismo
ottimistico, che va da Rousseau a
Lenin, e che alimenta gli uomini di false speranze, pretendendo stimolare,
snaturando l'emancipazione alla quale essi aspirano, d'altra parte uno
pseudo-realismo pessimistico che va da Machiavelli a Hitler, e che piega l'uomo
sotto la violenza, non ritenendo di lui che la animalità che lo rende schiavo.
(Maritain, Cristianesimo e democrazia Ed. di Comunità - Milano 1950)
L'idea di
diritto naturale è un'eredità del pensiero cristiano e del pensiero classico.
Non risale alla filosofia del XVIII secolo, che l'ha più o meno deformata, ma a
Grotius e prima che a lui a Suarez e a Francesco de Vitoria; e più oltre a S.
Tomaso d'Aquino; e più oltre a Sant'Agostino e ai Padri della Chiesa, e a S.
Paolo; e più oltre ancora a Cicerone, agli Stoici, ai grandi moralisti
dell'antichità e ai suoi grandi poeti, a Sofocle in particolare (Antigone è
l'antica eroina del diritto naturale, che gli antichi chiamavano la legge non
scritta). L'uomo è dotato di intelligenza e con essa determina a se stesso i
propri fini. In virtù della natura umana, uguale a tutti, vi è una disposizione
comune che si ha l'obbligo di cercare e di attuare, questa legge scritta nei
cuori, secondo la quale la volontà umana deve agire per realizzarsi. La legge
naturale non è altro che questo. I grandi filosofi dell'antichità sapevano, i
pensatori monoteisti sanno ancor oggi, che la natura deriva da Dio e che la
legge non scritta deriva dalla legge eterna che è la saggezza creatrice stessa.
Conoscendo il principio reale di questa legge, la credenza in questa legge è
più ferma e più irremovibile presso coloro che credono in Dio, che presso gli
altri. La legge e la conoscenza della legge sono due cose differenti. La legge
è scritta nel cuore dell'uomo, ma in tali profondità da essere facilmente
nascosta. Gli uomini la conoscono più o meno difficilmente e a gradi diversi, e
qui come altrove rischiano di commettere errori. La sola legge pratica in
comune è la legge morale fondamentale: "fai il bene ed evita il
male". Ma solo quando il Vangelo sarà penetrato fino al fondo della
sostanza umana, solo allora il diritto naturale apparirà in tutto il suo
splendore. [La nostra persona in qualità di Presidente dell'Associazione
Giustizia e Verità può divenire luogo di confronto riguardo alle esigenze della
Legge Naturale]. Il fine per il quale la famiglia esiste è di crescere delle
persone umane e di prepararle a compiere il loro destino totale. E se lo Stato
ha una funzione educativa, se l'educazione non è fuori della sua sfera, è per aiutare
la famiglia a compiere la sua missione e per completarla, mai di sostituirsi ad
essa per cancellare nel bambino la sua vocazione di persona umana e per
sostituirla con quella di strumento vivente e di materia dello Stato. In
definitiva, i diritti fondamentali come: 1.-il diritto all'esistenza ed alla
vita, 2.-il diritto alla libertà personale o il diritto di condurre la propria
vita come padroni di se stessi e dei propri atti, 3.-il diritto a perseguire la
perfezione della vita umana morale e razionale, 4.-il diritto a perseguire il
bene eterno (senza del quale non vi è vera felicità), 5.-il diritto
all'integrità corporale, 6.- il diritto alla proprietà privata, 7.-il diritto
di sposare secondo libera scelta, 8.-il diritto di associazione, 9.-il rispetto
in ciascuno della dignità umana, sia che egli rappresenti o non rappresenti un
valore economico per la società. Tutti questi diritti e valori assoluti sono
radicati nella persona, che ha un destino superiore al tempo. Il regime
totalitario di un solo partito è la peggior forma del regime dei partiti. Ciò
che è richiesto ad una democrazia non è abolire i partiti politici, ma regolare
la costituzione dello Stato (delle assemblee legislative e degli organi di
governo) in modo tale che questi, pur essendo sottomessi al controllo delle
assemblee, siano nei problemi più importanti, sottratti al dominio dei partiti.
Ma progresso nell'organizzazione e progresso nella coscienza sono due progressi
simultanei per questo non deve essere concesso il massimo delle libertà
democratiche la dove non vi è la maturità per viverle, la dove esse saranno un
deterrente per l'anarchia e per la criminalità. La tentazione che viene dalle
antiche concezioni socialistiche è quella di accordare il primato alla tecnica
economica e nello stesso tempo di tendere a rimettere tutto all'autorità dello
Stato, amministratore del benessere di tutti con la sua meccanica scientifica e
burocratica; il che, si voglia o no, conduce verso un totalitarismo a base
tecnocratica. Contro lo stato corporativistico, paternalistico opponiamo la
libertà delle associazioni che sono di rango istituzionalmente inferiore allo
Stato, ma devono essere considerati come un dato insostituibile del passaggio
ad un regime autenticamente umanistico, lo stato porrà ogni cura nel tutelare
le associazioni di cittadini. L'idea di uno Stato economico è una mostruosità.
La vita e l'organizzazione politica della Stato concernono la vita comune delle
persone umane e la loro direzione verso un'opera comune (la quale suppone la
forza, la pace e l'armonia del corpo sociale): questo deve tendere, come al suo
ideale supremo, alla conquista della libertà e alla fraternità. Esse sono di un
ordine superiore alla vita e alla organizzazione dei gruppi economici. Il
progresso contrastato dell'umanità va nel senso della emancipazione umana (non
soltanto nell'ordine politico, ma anche nell'ordine spirituale), in maniera che
le diverse forme di servitù, per le quali un uomo è al servizio di un'altro
uomo, siano a poco a poco abolite a misura che la storia umana si avvicina al
suo termine. Il che suppone non soltanto il passaggio a stati di organizzazione
migliore, ma anche il passaggio a una coscienza migliore della dignità della
persona umana in ciascuno di noi e del primato dell'amore fraterno fra tutti i
valori della nostra vita. Così avanziamo verso la conquista della libertà e di
tutte le libertà: spirituali, politiche, sociali ed operaie. E si può sperare
di veder uscire dalle rovine una ricostruzione, avendo fiducia nel popolo, in
quel popolo che da completamente il suo lavoro e la sua pena e quando è
necessario il suo sangue. Nella comunione con il popolo sta l'ultima fortuna
della cività. (liberamente sintetizzato da: Maritain, CRISTIANESIMO E
DEMOCRAZIA , ed. di comunita'-1950- Milano)
(JACQUES MARITAIN ed.. Borla)
Abbiamo
urgentemente bisogno di un'azione che nasca dalla contemplazione, e questa è
dono di Grazia. Ecco il mondo chiede dei santi, cioè uomini puri nei loro
pensieri, nelle loro azioni trasparenti. Se i credenti non gli danno ciò che
comanda, tanto peggio per essi e per tutti; egli si vendicherà su di loro, e
cercherà la sua consolazione presso il diavolo. Comunque come dicono S. Paolo,
Maometto ed altri uomini di Dio: noi abbiamo ricevuto la missione di combattere
per la verità. Qual'è l'origine del disordine moderno? La naturalizzazione del
cristianesimo! Rousseau ha snaturato il Vangelo strappandolo all'ordine
soprannaturale, trasportando alcuni aspetti fondamentali del cristianesimo sul
piano della semplice natura. Una cosa assolutamente essenziale per la fede è la
soprannaturalità della Grazia. Togliete questa soprannaturalità e la fede si
corrompe. Godimento inverosimile per tutti i filosofi da strapazzo. Ecco perché
si trovano ovunque, nel mondo moderno, analogie depravate della mistica
cattolica e brani di cristianesimo laicizzato. Dal falso dogma della bontà
naturale, Rousseau non è il primo che ne abbia cavato pazzie. Duemila anni fa,
nel 213 a.C., l'imperatore Tsin-Sceu-Hoang-ti diede ordine di bruciare tutti i
libri e fece crudelmente suppliziare i letterati che tentarono di opporsi a
quella distruzione; egli aveva letto, stando a certi commentatori, in Confucio
e in Mencio quella veneranda verità che all'origine l'uomo era buono, e ne
aveva dedotto, da despota evoluto alla Rousseau, che le lettere e la civiltà
sono causa della corruzione del popolo. Ma Rousseau aveva dietro di se tutta la
sapienza cristiana, e la caduta è stata di conseguenza tanto più rovinosa e
pesante. Eliminato il riferimento trascendente la natura è buona e va
assecondata in tutti i suoi istinti, perché: 1- non ci sono in noi fomiti di
concupiscenza e inclinazioni guaste che ci piegano al male; 2- l'uguaglianza
diviene il pretesto per disprezzare le gerarchie naturali e razionali. 3- La
rivoluzione diviene un mito accecante, quando si presume dall'intervento
rivoluzionario i risultati ottenibili solo per Grazia. Così si sono attuate
immani carneficine e dittature orribili come quelle di stampo marxista. Cosa
dire poi della legge dell'amore? Esso viene ridotto al rango più sciocco e più
vile, un vago umanitarismo.
Osserviamo
l'atteggiamento delle filosofie politiche moderne nei riguardi del
cristianesimo. L'individualismo borghese è delle tre, il più religioso e il più
pericoloso. Praticamente ateo e decorativamente cristiano, non rivolgeva una
sfida alla religione, ma la credeva inventata dai preti e progressivamente
spodestata dalla ragione e si serviva di essa come una forza di polizia che
facesse da guardia alla proprietà privata nei confronti degli sfruttati e
oppressi o comunque come una banca dove -dopo tutto- mentre si arricchiva in
questo mondo, poteva assicurarsi ad ogni buon fine contro i rischi
inconoscibili dell'al di là. Gli Stati totalitari (la loro ideologia non è
scomparsa con loro), eredi del vecchio antagonismo dell'Impero pagano contro il
Vangelo, hanno perseguito spudoratamente la divinizzazione del potere politico
(“il potere logora chi non lo ha ”) trasformato in potenza che asservisce,
inebria, succhia e stritola. Il comunismo, che si situa nella linea storica del
razionalismo moderno, dell'umanesimo antropocentrico e delle aspirazioni
democratiche passate sotto l'obbedienza immanentistica (e in lotta ideologica
con le proprie fonti cristiane), deve in realtà essere considerato come
un'eresia cristiana. Esso è universalista come la Chiesa. Sono energie
d'origine cristiana interamente laicizzate ch'esso mette in opera nei suoi
militanti. La trasformazione dell'uomo, che il cristianesimo domanda alla
grazia interiore, in funzione anche della vita eterna, il comunismo la domanda
alla rivoluzione collettiva, che rinnova la storia e la società per la sola
vita di questo mondo. Il suo ateismo è un risentimento morale e religioso
contro la trascendenza divina. E' proprio dall'interno della civiltà cristiana,
che il comunismo conduce la propria battaglia; ed essa vuol essere più un
processo di sostituzione o di soppiantamento che d’aggressione, come se, nel
giudizio segreto che il comunismo da di se stesso, i soli veri cristiani -per
la terra e liberati dal Dio trascendente- fossero i comunisti. Donde consegue
che comunisti e cristiani hanno cattiva coscienza gli uni verso gli altri.
Anche quando tendono sinceramente la mano ai cattolici, i comunisti sentono
oscuramente che la loro vocazione e di soppiantarli. Le concezioni del mondo e
della vita che non riconoscono l'elemento spirituale, l'elemento eterno
nell'uomo, sono incapaci di evitare l'errore nella costruzione di una società veramente
umana, perché sono incapaci di riconoscere tutti i diritti della persona e
proprio per questo di comprendere la natura stessa della società. Tutti gli
uomini del mondo devono sentirsi impegnati nella costruzione di un progetto
spirituale e al contempo politico per il compimento della vita personale, come
espressione di tutte le potenzialità intrinseche, che completano il processo di
umanizzazione. Quello che vi è di più profondo nella persona, la sua vocazione
sovra temporale, a questo la società e la sua opera devono essere
indirettamente subordinate, cosa che presuppone una trasformazione radicale ed
un grande ritorno verso lo spirito. Gli uomini d'oggi hanno bisogno di segni:
vedere concretizzato un nuovo stile di santità, perché ogni rinnovamento
sociale è opera di santità.
La strada
dell'esempio e della testimonianza quotidiana non eclatante. Leggendo il
percorso spirituale di uomini illuminati, grandi taumaturghi, ovvero di uomini
dotati di possibilità concesse solo agli angeli (creature non divine ma
ontologicamente a noi superiori sul piano della creazione). Mi sono spesso
guardato dentro, intuendo a volte tali possibilità inespresse. Questo portava a
colpevolizzarmi, perché in fondo poteva dimostrare la mancata coerenza della
mia adesione alla volontà di Dio. Ma mi sbagliavo solo in parte, i carismi
straordinari sono concessi ad uomini designati, non necessariamente in funzione
della loro santità, ma per lo svolgimento di missioni straordinarie, sempre e
comunque per essere "a servizio" di necessità spirituali. Quindi,
solo nella logica divina, si realizzano queste possibilità soprannaturali di
potenza. Il predestinato non si percepisce privilegiato, tutt'altro, sarebbe
ben lieto se dipendesse da lui, di starne fuori. Certo Dio non forza mai la
libertà delle sue creature, che si assoggettano a questa condizione insolita
solo per il fine di salvare anime. Questi uomini sono umili, poveri,
disinteressati, benevoli e misericordiosi, tutti nell'avvicinarli si sentono a
proprio agio. Così non è certo per chi gestisce in proprio "un
potere" ottenuto dalle tenebre. Ora Jacques, torniamo sul tuo libro, dici
che la nostra ordinaria vita morale è tanto fragile, a motivo dei
condizionamenti del nostro ambiente, come del regno sotterraneo, tenebroso e
nascosto del nostro carattere incosciente(inconscio). Lacerati e a volte
disperati dal nostro dramma ci rivolgiamo spontaneamente a quegli uomini che
Bergson chiamava gli "eroi" della vita spirituale. Più conosciamo la
santità dei santi, e la vita morale di coloro che hanno corso l'avventura di
dare tutto per entrare in ciò che essi descrivono come l'unione divina e
l'esperienza delle cose di Dio, più sentiamo che la verità sola può dare tali
frutti e che la certezza e la concretezza che sostiene tutto in questi uomini
non può mentire. Un atto, il minimo atto di vera bontà, è, per dire il vero, la
migliore prova dell'esistenza di Dio. Ma la nostra intelligenza è troppo
ingombra di nozioni, di sovrastrutture egoistiche, per vederlo; allora noi lo
crediamo sulla testimonianza di coloro nei quali la vera bontà risplende
inequivocabile. Anche questa è una prova dell'esistenza di Dio, prova basata
sulla testimonianza che può nascere
solo nell’ambito del rapporto con Dio. Rimane indispensabile una qualche forma
di esperienza personale della Sua presenza, che si rivela in fondo all'anima,
di quello stesso Dio di cui noi sentiamo parlare dai suoi amici. Questa
intuizione e percezione personali, aprono la strada ad un rapporto reale che se
avviene sul piano dello spirito non manca di manifestare subito i suoi frutti
materialmente. Questa è la logica e la razionalità della fede, che operando una
sintesi, si volge affascinata al bene più grande e compie la sua opzione
fondamentale, vero matrimonio dell'uomo con Dio, vero gaudio e gioia e pace e
dolcezza intima ed esterna dei sensi. L'uomo ha finalmente trovato se stesso è
giunto alla sua casa.
Non è
intellettivamente onesto chi nega l'esistenza di Dio, come non lo è chi nega la
storicità inconfutabile di un illustre personaggio. In questo secolo di
confusione nazionale e mondiale, desideriamo rivolgerLe un pressante appello.
Siamo convinti che la radice profonda dei mali che affligge l’umanità, nasca da
un processo di dissoluzione morale. E’ finita l’epoca del compromesso. Crediamo
che la politica vada intesa come servizio al bene comune e che non vi sia altro
bene che l’ordine naturale dei valori trascendenti (Giustizia, Verità, ecc.).
La persona umana va tutelata dal concepimento fino alla morte, va tutelata la
famiglia cellula primaria della società. Operiamo sul piano politico e
legislativo per una autentica rinascita spirituale e morale di tutta l’umanità,
al di là delle etichette e degli interessi di parte, lottiamo sotto la bandiera
comune dei valori eterni e trascendenti, comune patrimonio dell’umanità. Tanti
problemi finora irrisolti troveranno soluzione. Accendiamo nel mondo una nuova
luce di speranza e di vittoria, squarciamo il buio presente.
(J.
Maritain, La conquista della libertà, Antologia del pensiero etico politico,
ed. La Scuola - Brescia)
L'umanesimo integrale significa in primo luogo il riconoscimento che
l'uomo è un'essenza mista, interamente animale ed interamente spirituale. Contro
il dualismo cartesiano che separa l'anima dal corpo, il realismo di Maritain
sottolinea l'unità strutturale della realtà umana, condizionata dal suo corpo
ma intrinsecamente libera nella sua spiritualità (Cfr. Tre riformatori: Lutero,
Cartesio, Rousseau, tr. it., Brescia, Morcelliana, 1967). "L'uomo è una
persona che si tiene in mano per mezzo della sua intelligenza e della sua
volontà. Egli non esiste soltanto come un essere fisico; c'è in lui
un'esistenza più nobile e più ricca: la sovraesistenza spirituale propria della
conoscenza e dell'amore". Ma "quest'uomo è anche, in un altro senso,
un individuo materiale, un frammento di una specie, una particella
dell'universo fisico, un solo punto nell'immensa trama delle forze e delle
influenze d'ordine cosmico, etnico, storico..., alle cui leggi egli è
sottomesso" (L'educazione al bivio, tr. it., Brescia, La Scuola 1975, pp.
20 e 22). Maritain distingue nell'uomo, senza separarle, l'individualità
materiale e la personalità spirituale, come due punti di vista per considerare
l'unità dell'uomo che è "persona" anche nella sua carne, come è
"individuo" anche nella sua anima, ed è quindi oggetto delle
conoscenze scientifiche, filosofiche e spirituali. Ma l'unità dell'uomo è
un'unità gerarchica, perché è lo spirito che anima ed unifica la carne, per cui
bisogna affermare il primato dello spirituale, ed il diritto alla vita su tutti
i condizionamenti fisio-psichici e socio-ambientali. L'uomo ha dei diritti in
quanto è concepito, non in quanto gli altri glieli riconoscono; è un soggetto
di diritto, un protagonista del suo divenire, una persona che si fa
personalità. Il bene è dovuto a me perché io sono un "io". Per poter
disporre dei suoi propri fini e rivelarsi capace di autodeterminazione, il mio
io deve essere un microcosmo che mi appartiene, di cui io sono il padrone
(affinché la mia libertà non cavalchi il determinismo dei miei istinti e del
mio inconscio)"(Neuf lecons sur les notions premieres de la philosophie
morale, Paris. Téqui, 1951, p.164). L'uomo, come personalità, è superiore alla
natura fisica, e uguale in dignità a tutti gli uomini nella comunità sociale, è
inferiore a Dio, ma in questa relazione
(conscia o inconscia) amorosa si realizza pienamente la sua personalità. Si
trova, quindi, al centro di numerose relazioni, "condizionato" dal
basso ad opera della natura istintiva, delle condizioni sociali e del divenire
storico, "influenzato" dall'alto ad opera dell'educazione, della
cultura, della poesia, della religione. L'uomo non è quindi una parte della
natura e della società, ma è un tutto che supera la natura, entra in un
rapporto dinamico di interrelazione nella società e si apre a Dio; per questo
motivo non può essere considerato un mezzo per lo sviluppo industriale o per il
miglioramento sociale, perché è un "fine" in se steso. L'uomo nasce
"sociabile" e diventa "sociale" tramite l'educazione; la
socialità gli è connaturata, è un "animale politico", anzi una
persona sociale che entra in società non solo per bisogno, come gli animali, ma
anche per generosità e dedizione, con l'unico scopo di arricchire la società.
Vi sono due movimenti nella storia, uno orizzontale, verso un costume
democratico all'interno e all'esterno della vita di tutti i popoli, ed uno
verticale verso la salvezza personale nella beatitudine eterna, verso la
realizzazione trascendente. Tra i due processi di liberazione vi è una naturale
correlazione, perché l'uomo non raggiunge la propria salvezza personale se non
impegnandosi nella comunità per la liberazione di tutto l'uomo. L'umanesimo integrale
consiste proprio nella perfetta relazione tra trascendenza e immanenza, tra
fede e scienza, tra religione e politica, tra umanesimo e cristianesimo, tra
cristianesimo e tutte le religioni. Le aspirazioni connaturali sono proprie
dell'uomo in quanto uomo; le aspirazioni trasnaturali sono proprie della
persona in quanto persona e si realizzano solo in Dio, in cui la persona trova
la più compiuta espressione. L'umanesimo liberal-borghese e l'umanesimo
social-marxista non possono soddisfare le aspirazioni dell'uomo, perché si
fermano alla natura e alla società, la liberazione dal bisogno e
dall'oppressione non bastano, l'uomo ha bisogno di una liberazione morale e di
una redenzione religiosa per liberarsi dalla "pena di vivere", dalla
miseria esistenziale, dall’assurdo della sofferenza e della morte. La
condizione umana è quella che è, propria di una creatura, fatta ad immagine di
Dio, ma decaduta dal suo ruolo, ferita nel suo essere, ed in condizione di
pena; rifiutare questa condizione è impossibile, si è liberi "in"
questa condizione e non "da" questa condizione; accettarla
semplicemente non basta, perché è umanamente inspiegabile, bisogna superarla in
un umanesimo eroico che solo la fede può alimentare e sostenere con il realismo
di personalità perfettamente compiute: i santi.
E' questo l'esistenzialismo di S. Tommaso, che riconosce l'esistenza
senza negare l'essenza, che attribuisce alla persona una dignità assoluta, ma
insieme sottolinea i suoi limiti, e la pone in un rapporto di redenzione con
l'Assoluto, senza disperazione e senza presunzione. La perfezione non è nel
successo o nel possesso, ma nell'amore, che accetta di esistere in un rapporto
di servizio verso gli altri e di riconoscenza verso Dio, che soffre e lotta con
l'umanità per liberarla dal male.
(Meridiani
dell'Educazione - Collana di Pedagogia straniera contemporanea diretta da Aldo
Agazzi- JACQUES MARITAIN - LA SCUOLA EDITRICE - 1962)
Un messaggio educativo illuminato ed ispirato dalla visione cristiana della
vita, che è tale anche in chi non si riconosce cristiano, ma questa pedagogia
non può se non dirsi cristiana per la concezione della dignità umana che
l'anima. In un proposito di concorrere ad una riunificazione organica dei veri
valori che costituiscono la dignità umana universale. La visione filosofica del
neo tomismo, riportata alle esigenze di una società democratica. (J.Maritain,
Pour une philosophie de l'educatio, A. Fayard, Paris, 1959, pagg. 252.) Maritain
afferma la necessità di una fondazione filosofica della pedagogia, circa il
fine dello sviluppo umano e della educazione. Ora i mezzi della sociologia e
della psicologia sono validi solo se vengono riferiti al fine della vita umana.
Ora accettare un atteggiamento ateleologico significa negare lo stesso concetto
dell'educazione, che implica uno sviluppo finalizzato. L'educazione non è fine
a se stessa, ma ha come fine l'uomo. Maritain rifiuta ogni fenomenismo ed
afferma che non si conosce per conoscere indefinitivamente, né si vuole per
volere incessantemente, ma si conosce per possedere il vero e si vuole per
raggiungere il bene, cioè l'essere. Per questo non esiste una pedagogia
asettica ma essa deve dipendere dalla filosofia. La pedagogia segue i flussi ed
i riflussi delle correnti filosofiche; infatti essa non è una scienza autonoma,
ma dipende dalla filosofia. Così ogni pedagogia che escluda la metafisica è una
pedagogia della morte. "Certo la psicologia è uno degli aspetti
fondamentali della pedagogia; tuttavia la conoscenza del soggetto non è che il
presupposto della scienza dell'educazione: è chiaro che l'adulto deve adattarsi
al fanciullo, ma l'educazione propriamente detta non comincia che quando il
fanciullo si adegua all'educatore, alla cultura, alla verità, al sistema di
valori che egli ha la missione di trasmettergli. L'esperienza pratica è
indispensabile, ma essa stessa non si giustifica che in relazione ai principi
che la dirigono. Metodi, programmi, organizzazione, tecniche educative, tutto
questo è senza dubbio importante ma resta secondario. Ciò che viene in primo
piano è la verità di cui è testimone l'educatore, il tipo ideale di vita che
domina la sua intelligenza e la sua personalità. Ciò non significa forse che
per sua natura la pedagogia è funzione della filosofia, della metafisica? Non
vi è pedagogia neutra". Ogni pedagogista adora un Dio: Spencer la natura,
Durkheim e Dewey la società, Wundt la cultura, Emerson l'individuo. Oppure
tutto si riduce ad adattarsi al fanciullo, a lasciar fare in ogni cosa la
natura, ovvero negare la pedagogia. Di fatto le grandi battaglie pedagogiche si
combattono oggi fuori delle frontiere propriamente pedagogiche: sul terreno
della filosofia. Solo agganciandosi alla filosofia, la pedagogia potrà
acquistare il suo carattere di scienza autentica, di cui il positivismo offre
solo una derisoria contraffazione". Ma una autentica pedagogia tiene conto
della realtà del soggetto educato e della sua destinazione soprannaturale.
L'uomo buono per natura, come afferma Rousseau, non è mai esistito, l'uomo concreto
si trova o in grazia o in disgrazia in rapporto a Dio. Tuttavia una educazione
che non finalizzasse ai Valori Eterni, non completerebbe l'uomo che è chiamato
ad andare oltre la civiltà e la storia, è destinato ad andare verso Dio. Così
solo la religione monoteista può essere propositiva di vera pedagogia. Pur
nella distinzione tra religione e cultura, tra natura e grazia, tra ragione e
fede, distinzione ma non opposizione o dissociazione tra vita religiosa e vita
civile, conseguenti al naturalismo ed al laicismo, che hanno minato alla radice
la nostra società. L'umanesimo integrale esige un'educazione integrale, che
sappia rispettare la globalità dello sviluppo umano nei suoi diversi fattori
biologici, psicologici e spirituali e soprannaturali nell'unità del processo
educativo. Unità che esige il rispetto e la autonomia di ogni livello. Solo la
persona può educare la persona, e
l'educazione è un incontro personale, sullo sfondo culturale
dell'ambientazione storica. "Desidererei che ci fossero delle giornate di
studio in cui gli studenti in filosofia ed in teologia potessero incontrare i
rappresentanti delle più diverse scuole di pensiero, scienziati, artisti,
missionari, sindacalisti, imprenditori..." Il personalismo pedagogico non
solo rivaluta la funzione e il valore dell'educatore, quanto sottolinea la
persona dell'educando, concedendole il diritto di iniziativa e di
organizzazione. "Gli studenti dovrebbero costituire dei gruppi di studio autonomi per la ricerca ed il lavoro,
e delle squadre di disciplina spontanea, per la disciplina morale e politica
della vita scolastica. In questi gruppi gli studenti potrebbero esercitare le
virtù civiche e sociali, in primo luogo l'amore del prossimo, cosicché la
scuola, nella sua struttura tradizionale non può educare il comportamento
morale e sociale, sarebbe in grado di provvedere a quelle virtù etiche e
civiche, che sarebbe compito specifico della famiglia e della società, ma per
la quale la famiglia è spesso impreparata ed ha sempre meno tempo a
disposizione, e della quale purtroppo, la società degli adulti, tutta presa
alla ricerca dell'utile non si interessa." Per Maritain il gruppo è
fondamentale, perché rappresenta la mediazione tra l'individuo e la grande
società, nel gruppo è possibile una educazione sociale e democratica, lontana
dagli equivoci dell'individualismo e del collettivismo, ma tutto finalizzato
alla pienezza esuberante della personalità individuale. "Una educazione
orientata verso la sapienza, centrata sulle umanità, mirante a sviluppare negli
spiriti la capacità di pensare con rettitudine e di godere della verità e della
bellezza, è un'educazione alla libertà, un'educazione liberale, propriamente
umana ed umanistica." Così tutti gli istituti scolastici devono offrire
una educazione liberale di base. "Studio più intuitivo e concreto,
liberato da ogni fardello di pseudo-scienza. Ma che cosa rispondere alla
difficoltà principale, ossia al fatto che, per un gran numero di ragazzi e
ragazze, la vita intellettuale, le arti liberali e gli studi classici non sono
che oggetto di noia, e che, in conseguenza, l'educazione liberale, in
proporzione della sua estensione ad un numero sempre maggiore di giovani,
sembra destinata a degenerare? Sono lontano dal credere che tutti i ragazzi e
tutte le ragazze in questione siano da catalogare tra gli incapaci... Una
chiara massima in questo campo è, come dice Mortimer Adler, che "la
migliore educazione per la persona più dotata è, sotto forme equivalenti, la
migliore educazione per tutti". Dobbiamo però stare molto attenti a non
considerare l'attività intellettuale come la migliore possibile, perché allora
faremmo caste di uomini più importanti. "Contro un tale pregiudizio
consideriamo S. Paolo che si è guadagnato la vita come tessitore di tende,
senza parlare di Gesù stesso che era falegname". E' interessante rilevare
come questo principio di una educazione liberale per tutti sia una conseguenza
della concezione cristiana della vita che vuole in tutti rispettata la dignità
spirituale e la fondamentale uguaglianza di fronte a Dio. Lo studente non deve
essere un contenitore capiente di informazioni, ma deve avere una conoscenza
universale che gli apra il gusto della verità e della bellezza". "In
altre parole, l'educazione popolare deve diventare liberale, e l'educazione liberale
deve diventare popolare." Maritain critica l'agnosticismo dello stato
liberale: "società senza idea di se stessa e senza fede in se stessa,
disarmata nell'ordine intellettuale come nell'ordine politico davanti a coloro
che vorrebbero usare della libertà per distruggere la libertà". Lo Stato
ha il dovere di insegnare ai cittadini le regole di vita, concordemente accettate dalla società stessa. Le
motivazioni di queste scelte riguardano la coscienza personale e non lo Stato.
A ciascun gruppo religioso o spirituale presente nelle società, quel comune
codice di regole pratiche debbono essere insegnati da appartenenti al gruppo
stesso. Anche se il principio della
libertà nell'educazione ha una limitazione: non si può insegnare l'errore, non
si può educare al male. L'educando ha diritto alla verità ed al bene. La
libertà non consiste nell'ignoranza e nemmeno nell'indeterminatezza, quando
piuttosto alla cosciente e deliberata adesione alla verità oggettiva. Il libero
arbitrio in pedagogia non può in alcun modo essere disponibile nei confronti
del male o dell'errore. D'altronde l'educando non potrebbe essere libero di
scegliere il proprio destino se non fosse messo di fronte alla verità.
L'educando è libero di scegliere o di rifiutare la propria fede religiosa, solo
se ha ricevuto una fede religiosa, perché in pedagogia non si può rifiutare ciò
che non si conosce. Così proprio una scuola agnostica o neutra, come vorrebbero
i laicisti, violerebbe il principio della libertà, perché non porrebbe
l'educando in condizione di fare la sua scelta. "L'idea tomista dell'uomo
coincide con quella greca, giudea e cristiana: è quella di un uomo come animale
dotato di ragione, la cui suprema dignità consiste nell'intelligenza; di un
uomo come libero individuo in relazione personale con Dio, la cui suprema
rettitudine consiste nell'ubbidire volontariamente alla legge di Dio; di un
uomo come creatura peccatrice e ferita, chiamata alla vita divina e alla
liberazione apportata dalla grazia, la cui suprema perfezione consiste nell'amore".
E' chiaro il personalismo dell'educazione, contro la tesi naturalistica che
vuol ridurre l'educazione protesa a soddisfare utilitaristicamente i propri
bisogni ed interessi, a discapito della ricerca del bene, e contro le tesi
socialiste, che trasformano l'uomo ad "allevamento di un animale per
l'utilità dello Stato". Questo spirito immanentistico nega il valore della
persona umana, perché ne nega la sua trascendenza, rinchiudendo l'uomo nel
circolo mortale di una esistenza fenomenologica. L'inarrestabile crisi
contemporanea è la conseguenza del progressivo laicizzarsi della cultura fino
all'ateismo, che promette un illusorio paradiso terreno. La società
contemporanea è il frutto della dissoluzione della cultura e della civiltà
cristiana medioevale. Il personalismo pedagogico e l'umanesimo integrale
rappresentano il ritorno alla Trascendenza, ai Valori Eterni ed Assoluti,
rifondano il senso di Dio e il rispetto della persona umana. Non si negano le
esigenze di attivismo, non si rifiutano i contributi scientifici, ma si
incarnano in una visione spirituale dell'uomo e della storia. (J. Maritain, Pour une philosophie de l'éducation, A.
Faayard, Paris, 1959 pagg. 252)
"Un'ultima
osservazione dev'essere fatta, data la presente situazione della cultura, il
primo servizio che la religione può attendersi dalla scuola, è che la scuola
restauri negli studenti l'integrità della ragione, della ragione naturale.
Finché l'insegnamento, nel suo complesso, tanto nella scuola che nell'università,
è permeato da una visione filosofica che non si affida che all'esperienza
sensibile, ai fatti, alle cifre, che dissolve la ragione e nega il suo
specifico potere di conoscenza, come
pure le certezze più valide di cui l'intelligenza umana è capace (e la prima di
queste è la conoscenza razionale dell'esistenza di Dio); finché si coltiva
un'informazione caotica in luogo di un sapere integrale e dell'unità
spirituale, il terreno stesso e gli strati naturali sui quali possono
prosperare le convinzioni religiose presso i giovani resteranno ingrati e
sterili. Ora, forse che l'attività della ragione è capace da se stessa di
raggiungere le sue piene dimensioni naturali senza l'equilibrio superiore
creato nella coscienza comune dalla fede e dalla ispirazione religiosa? Forse
che la filosofia è capace, nella concreta realtà, di raggiungere la sua piena
integrità razionale senza gli stimoli interni e l'incremento che riceve dalla
conoscenza teologica? E' un'altra questione, che io qui mi limito a ricordare
(Maritain in De la philosophie chrétienne - Parigi, Desclée de Brouwer, 1933).
Se si risponde che in effetti ragione e filosofia richiedono di essere aiutate
in tal modo, bisognerà dire che la civiltà umana e la sua guarigione dipendono
da un complesso di cause che secondo la parola di Aristotele, "si causano
l'una, l'altra". In ogni caso, sarebbe un non senso richiedere ai membri
del corpo insegnante di essere più sapienti della cultura generale del loro
tempo e dei suoi grandi rappresentanti, e di sapere compensare essi stessi la
deficienza di questi ultimi e il fatto che gli scienziati non hanno compiuto il
lavoro costruttivo che l'umanità attendeva da loro. Ciò vuol dire che il
problema più cruciale cui è interessato il nostro sistema educativo non è un
problema di educazione, ma un problema di civiltà."
Dal Big-Ben nasce la materia, ovunque essa arriva nascono
le categorie di spazio e di tempo. Dal Big-Ben, si sono formate le galassie,
esse continuano a fuggire le une dalle altre espandendosi nel vuoto. Ma se gli
angeli come i demoni possono spostarsi in un attimo in un qualsiasi punto dello
spazio e non del tempo, infatti questo movimento nel tempo caratterizza solo la
onnipotenza divina. Gli angeli quindi, possono a seconda della loro natura,
attraversare diverse dimensioni (materiale, psichica e spirituale), ma non
possono comunque svincolarsi dallo spazio interdimensionale e dal tempo, non
possono gestire il vuoto o vivere in esso, non possono andare avanti o indietro
nel tempo. Mentre noi umani siamo condizionati dallo spazio dimensionale e dal
tempo, loro (gli spiriti) sono condizionati solo dal tempo.
Gli angeli sono condizionati a vivere il
presente e non possono oltrepassare la materia cosmica e pluridimensionale e
quindi non possono gestire il vuoto. Lo spazio e il tempo sono così in continua
generazione, perché l'universo fisico è in continua espansione nel vuoto fino
ad annientarsi. Tutto ciò che è nato è
destinato a morire! Con l’universo nato dal Big-Ben tutti gli esseri in esso
formati moriranno. Ma Dio ha intenzione di assumesse la sua famiglia umana e
angelica e di sottrarla al destino dell’universo.
OGGI
1/3/92 NON HO ANCORA CONCEPITO L'UNIVERSO METAFISICO SE QUALCUNO HA UN PENSIERO
Più EVOLUTO DEL MIO, PREGO DI VOLERMELO COMUNICARE.