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Pinella Molina, che, nel numero di febbraio, ha descritto con competenza e partecipazione alcuni aspetti della letteratura maghrebina, ci ha fatto avere questa coinvolgente testimonianza proveniente da Algeri.
L'autrice, un'insegnante e scrittrice algerina, è venuta a Genova nel '96 per
partecipare ad un Convegno sulla letteratura dei paesi mediterranei, proprio su
invito della Molina, che aveva avuto modo di apprezzare una sua raccolta di
racconti pubblicata in Francia.
È
nata subito una viva simpatia, scaturita anche dalla gioiosa gratitudine di
Rabia per l'opportunità che le era stata offerta di rompere l'isolamento e
incontrare altri scrittori e alimentata poi da una ricca corrispondenza, tanto
più preziosa quanto maggiori sono gli ostacoli da superare.
La mia vita in sospeso
Rabia Abdessemed
Prima
del nefasto 1991 che ha visto l'esplosione alla luce del sole del flagello che
ancora affligge il mio paese, flagello che alcuni chiamano integralismo, altri
terrorismo, altri ancora banditismo, la felicità era il motore perpetuo e
naturale della vita, con le sue frustrazioni e le sue gratificazioni, al ritmo
del tempo che scorre, tranquillamente.
Oggi,
felicità è sopravvivere.
Ogni
giorno che passa mi trova stupita per il fatto che siamo ancora in vita, io e
tutti i miei.
Per
il fatto di avere ancora la possibilità, per quanto legata a un filo, che altri
non hanno più, di respirare, di dormire, di mangiare, di godere ancora di
necessità che io credevo riservati solo agli esseri inferiori.
Tutto
mi sembra provvisorio, fittizio, incerto. La mia vita è in sospeso. Vorrei
poter cessare di esistere, cadere in letargo fino a che durerà questa guerra
empia. Non riprendere il corso dei giorni fino a quando non sarà terminata.
Perché
per noi, se essa continuerà, non ci sarà futuro.
Il
futuro è oggi.
È
iniziato al sorgere del sole e finirà al tramonto. Dopo aver chiuso le nostre
porte sui nostri figli rientrati a casa.
Si può uscire per andare al lavoro o a scuola ed esservi riportati morti per la
sera. Forse neppure riportati. Scomparsi. Si può morire fulminati
dall'esplosione di una bomba, dilaniati da una raffica di mitra, decapitati da
un pugnale vendicatore. Nessuno è risparmiato: uomini, donne, vecchi, bambini.
Ragazzi
come i miei figli.
Così,
come milioni di donne in questo paese, sono spaventata e trepidante e aspetto
la fine dell'incubo.
Non facciamo più progetti, né a breve né a lungo termine.
Vivacchiamo,
cercando di apparire normali.
Per
strada la gente va e viene, si dà da fare, fa acquisti, parla come se niente
fosse.
Come
se volesse ignorare la morte perché essa li ignori, per sfidarla con
l'indifferenza.
E
tuttavia, è vicina, presente e inesorabile, pronta a falciare delle vite. Un
anno fa sono stata testimone, a cento metri da casa mia, dell'assassinio di una
giovane donna, insegnante di francese, davanti alla scuola dove prestava servizio.
Mentre
si affrettava per non essere in ritardo, due giovani, forti, belli, l'hanno
presa di mira, hanno scaricato le loro pistole, una nella testa della donna,
l'altra nelle spalle e lasciato il suo corpo, scosso dai fremiti, esposto alla
vista dei suoi allievi attoniti. Poi sono tranquillamente ripartiti.
La
donna aveva 38 anni e quattro figli. Lì per lì, tutto il quartiere fu in
effervescenza. Lo spazio di un mattino.
Il
giorno dopo, più nulla faceva ricordare il dramma.
Chi
si ricorda ancora di lei?
Si è conquistata il diritto
alla formula consacrata dagli imam: "Polvere, è ridiventata polvere”.
Che
Dio la riceva nel suo paradiso immenso".
Questa
orazione funebre così secca mi è diventata intollerabile.
È
troppo spesso usata per girare pagina e facilitare l'oblio.
Evito più che posso di uscire.
Anch'io
sono un'insegnante, anche se in pensione.
Anch'io
ho insegnato spesso in francese.
Posso
essere un bersaglio, come questa povera donna e il pensiero che il mio corpo
sarà lasciato in balia di sguardi impudichi là, a terra, mi ripugna.
Ma
sono costretta ad uscire. Per fare le mie compere. Molto presto mi affretto ad
andare (io corro) a cercare il pane e il giornale. Poi il latte che viene
consegnato a qualunque ora, ad ora imprecisata.
Poi
vado al mercato. Tutto ciò per salvaguardare mio marito.
Perché
io ho paura per lui. È più conosciuto di me, è stato preside di un grande
liceo, poi alto funzionario di un ministero. Ha potuto mostrarsi severo con un
allievo o un collaboratore, che potrebbero cogliere l'occasione per vendicarsi.
Perché
si rischia di essere fatti fuori per niente: per una parola di troppo, un gesto
di troppo. Per ciò che si è, per ciò che si è stati.
La
morte è distribuita gratuitamente.
Malgrado tutto, mio marito continua ad essere prudente.
Ma
i nostri figli non lo sono affatto.
Provate
a trattenere all'interno della casa cinque ragazzi dai 24 ai 32 anni! Le
ragazze si lasciano persuadere più facilmente, ma i maschi...
Spesso
si attardano la sera dopo il lavoro o l'università.
Essi
mi trovano, ciascuno a sua volta, piantata davanti al portone, ad attenderli
con ansiosa impazienza. Quando anche l'ultimo è arrivato, solo allora rientro
in casa. Quando finalmente li vedo tutti davanti a me, incolumi, vivi.
Sono
una madre chioccia, è proprio il caso di dirlo.
Ma
contrariamente alle galline, neppure di notte dormo, o molto poco.
Quando
uno dei miei figli stava facendo il corso di specializzazione in medicina
interna, doveva essere di guardia all'ospedale, parecchie notti la settimana.
Passavo
quelle notti ad attendere l'alba. Al minimo rumore di motore che sentivo
davanti alla casa, il mio cuore cessava di battere.
Non
so perché, ero convinta che mi si venisse ad annunciare che era stato
"abbattuto". La mia vicina della casa di fronte deve avere lo stesso
problema: la vedo spesso passeggiare nel suo cortile, anche col brutto tempo,
aspettando il ritorno di uno dei figli.
Un'altra delle mie ossessioni è la mancanza di medicine per mio marito che deve
assumere a vita dell'insulina, farmaco molto difficile da reperire.
Su
tutti i giornali compaiono appelli disperati per medicine indispensabili ai
malati gravi.
Ci
capita di percorrere chilometri e chilometri in macchina, sostando a tutte le
farmacie, per acquistare una scatola di insulina qua, un'altra là.
Pagata a peso d'oro.
Ne
facciamo scorte per sei mesi. Io non sono tranquilla se non quando la provvista
è nel frigo, a portata di mano. Ma spesso si verificano delle interruzioni di
corrente, e allora addio stock ...
In questi momenti difficili, dove ogni incidente diventa un problema di vita o
di morte, ci affidiamo disperatamente alle notizie.
I
media locali sono piuttosto reticenti.
Per
fortuna o sfortuna, esiste il "telefono arabo", cioè le voci che si
spandono.
Se
è avvenuto un attentato da qualche parte, un quarto d'ora dopo si sa in tutta
la città, o in tutto il paese.
Le
voci si diffondono senza mai sbagliare.
Immediatamente
anche il telefono vero (quando funziona), entra in azione.
Tutti
telefonano a tutti.
Ai
parenti, agli amici, ai conoscenti.
Per
rassicurare o per rassicurarsi.
E
anche dall'estero, confluiscono le telefonate, moltiplicandosi.
È
molto confortante e nello stesso tempo infinitamente stressante.
In
questo modo, nostro malgrado, alimentiamo un clima di psicosi opprimente.
Continuiamo a nutrirci comunque.
La
vita è cara, troppo cara, ma abbiamo imparato ad accontentarci di poco.
Le
donne algerine hanno trovato un rimedio per sopperire alla scarsità dovuta alle
ristrettezze.
Hanno
inventato ricette inedite e miracolose.
Come
ottenere il formaggio senza burro, cucinare il couscous senza carne, ottenere
gradevoli biscotti senza mandorle, ricavare lo zucchero dalle caramelle ridotte
in polvere, ecc. ...
Mi
è successo di incontrare in un negozio altre donne sconosciute che mi hanno
insegnato una ricetta nuova che metto subito in pratica.
Sono
sempre stata una cuoca da poco, ma faccio di necessità virtù.
Ho
constatato, imparando per forza di cose, che cucinare occupa la mente e
impedisce di rifletter troppo.
Tuttavia,
rimpiango profondamente i tempi migliori in cui esercitavo la mente e lo
spirito assistendo a conferenze, concerti, mostre.
Mio marito, i miei figli ed io eravamo appassionati di cultura.
Non
mancavamo ad alcuna manifestazione culturale da qualunque parte provenisse.
Nessuno ha più il coraggio di organizzarle ora.
Sono
proibite dagli integralisti col pretesto che favoriscono l'idolatria e il
paganesimo.
Per
fortuna ci rimane la televisione straniera, più esattamente la televisione
francese da cui, via satellite, riceviamo molti canali.
Abbiamo
la fortuna di risiedere in un quartiere protetto, perché vi si sono installate
molte sedi d'ambasciata.
In altri quartieri le installazioni di
antenne paraboliche sono state manomesse e minacciati di morte i proprietari
nel caso si ostinassero a mantenere queste antenne diaboliche come "gli
altri" le chiamano.
Un diversivo che nessuno fortunatamente potrà impedire alla mia famiglia, è la
lettura.
È
la cosa più importante per noi.
Entrambi
professori, entrambi bilingue, mio marito ed io abbiamo cominciato la nostra
vita coniugale mettendo in comune i nostri rispettivi libri.
Allora
non esistevano donne la cui corbeille di nozze fosse costituita soltanto da
libri.
Io
non avevo che questi.
Né
corredo, né gioielli, né biancheria, né abiti da sera.
Solo libri, buoni e bei libri.
Avevo
detto al mio futuro marito: "Non ho che questo"; mi rispose:
"Vieni con i tuoi libri.
Tu
e loro mi basterete".
Poi,
insieme, abbiamo considerevolmente arricchito la nostra biblioteca.
I nostri figli ne hanno saputo approfittare. È tutto ciò che potremo lasciar
loro in eredità. Ciò non li mette a disagio.
Anche
loro, quando vogliono farci felici, ci regalano un libro.
D'altronde
è un regalo divenuto raro da noi.
A
volte piangerei quando, seguendo le trasmissioni letterarie alla televisione
francese, mi rendo conto di quanti romanzi, novelle, racconti, saggi, biografie,
trattati, memorie, vengono pubblicati ogni mese in Francia, ai quali io non ho
accesso.
Qualche volta ci arrivano giornali e riviste per vie traverse: qualcuno,
tornando da Parigi ne porta con sé.
Le
passa ad un amico, che a sua volta le passa ad un altro e così via.
Ci
arrivano con tre o quattro mesi di ritardo.
Poco
importa, noi ne gustiamo la lettura.
I libri quindi ci danno la felicità. Li leggiamo e li rileggiamo, scoprendo
spesso nel rileggerli, dei significati che ci erano sfuggiti prima.
Questo
ci permette di parlarne insieme, con i nostri figli, con gli amici.
Ringraziamo
il cielo allora di poter gioire di questo privilegio che nessun fanatismo ci
può sottrarre: quello di saper leggere in due lingue universali e
insostituibili.
Che
cosa sarei diventata se non avessi saputo leggere, oltre l'arabo, il francese?
Ringrazio
per ciò mio padre che ha sfidato la sua famiglia, la società, tutti i tabù e
tutti i razzismi per offrirmi il più grande tesoro, la più grande forza che una
donna araba possa desiderare: saper leggere.
La lettura è dunque una delle migliori armi di cui dispongo per lottare contro
la stupidità, l'odio, il panico, per dimenticare la realtà.
Prima del terrore ricevevamo e frequentavamo molta gente. Oggi non è più
possibile.
Forse
è un effetto dell'età? In ogni caso, una conseguenza della situazione di
insicurezza in cui stiamo vivendo. La gente per lo più esce e si frequenta
poco.
Anche
i matrimoni, celebrati un tempo con grande fasto, sono diventati cerimonie
intime, come se la gente si vergognasse di festeggiare quando altri muoiono
intorno a loro.
O,
più semplicemente perché temono di attirare l'attenzione di quelli che
considerano la gioia di vivere e il piacere di cantare e ballare, sentimenti
ispirati da Satana stesso.
Per
questo ci si incontra più spesso alle esequie funebri che ai matrimoni.
Ai funerali non capita quasi più di piangere i morti di morte naturale, a casa
propria, nel proprio letto.
Si
piangono, senza lacrime, quelli che muoiono di morte violenta.
Si
manifesta soltanto il proprio dolore con una presenza muta che vuole
sottolineare la condanna della barbarie.
Ogni
volta che posso, partecipo a incontri del dolore, unendomi ad altre donne,
spinte dalla stessa ragione: mimetizzare il rumore della morte con la voce del
silenzio.
I giorni così si susseguono uno uguale all'altro. Così brevi da vivere, così
lenti a fluire. Nessuna interruzione nello scorrere del tempo.
Neppure
durante le feste religiose o nazionali.
Il
Ramadan, il mese consacrato al digiuno, alla preghiera e ai festeggiamenti
notturni, è diventato un mese ancor più triste degli altri, i cui giorni sono,
si può ben dire, lunghi come i giorni senza pane.
Il
terrorismo non rispetta neppure più la tregua tassativa imposta dal Corano
ormai da secoli.
Non uccidere durante questo periodo, non
cacciare. Non far scorrere sangue sotto alcun pretesto. Neppure quello degli
animali.
Questo
comandamento divino è trasgredito senza vergogna. Due anni fa il Ramadan fu il
mese più omicida. Fu anche il mese in cui morì mia madre.
Regnava
un tale terrore che la gente osava appena mettere il naso fuori per andare a
pregare nelle moschee vuote.
Non
ci fu veglia funebre per mia madre.
Soltanto i suoi figli e le sue figlie erano presenti.
Questa
donna che tutti adoravano per la sua gentilezza e la sua generosità ha lasciato
questa terra furtivamente, come di nascosto.
Pochi
l'hanno condotta alla sua ultima dimora.
È vero che abitava nella Casbah, un quartiere
pericoloso, feudo del terrorismo.
Appena qualche anno fa, andavamo a passare i week- ends a 120 km. da Algeri,
nel villaggio di montagna dove mio marito è nato e dove vivono ancora le sue
sorelle.
Ci
piaceva questa escursione attraverso una delle regioni più belle dell'Algerese,
chiamata la Mitidja, di cui i Francesi avevano fatto un paradiso di vigne, di
aranci e limoni.
Salivamo,
in dolce presenza, fino alla montagna che la primavere tappezzava di bianco e
di rosa, alla stagione della fioritura dei mandorli e dei ciliegi.
Non
rivedrò mai più rifiorire i begli alberi: non possiamo più ritornare là. È
un'avventura troppo rischiosa.
Infatti sulla strada che sale lassù, fermano
chi viaggia in auto o in pullman ed effettuano esecuzioni a decine: non più
tardi di ieri, in questo stesso mese in cui io scrivo queste righe.
Mio
marito è molto addolorato.
La
maggiore delle sue sorelle che ha vent'anni più di lui, è malata.
Può
morire da un momento all'altro, senza che lui possa darle l'estremo addio.
Se domani anche noi morissimo, tre dei nostri figli non potrebbero darci
l'estremo saluto.
Si trovano in Europa e non possono rientrare.
Il
terrorismo ha costretto all'esilio molta gente, partita verso orizzonti più
clementi, a dispetto delle feroci leggi sull'emigrazione, che i paesi occidentali
hanno emanato.
Non
credo che torneranno un giorno. È un dramma per l'Algeria, perché i migliori se
ne vanno, i più colti, i più tolleranti.
Per
colmo di tristezza, sono i loro genitori che li spingono a espatriare verso
l'ignoto piuttosto che vederli morire sotto i loro occhi.
È
il nostro caso purtroppo! I miei tre figli se ne sono andati.
Sono
diventati uccelli migratori. Una migrazione in senso contrario.
Sono
sfuggiti al caldo per andare verso il freddo. Due sono a Parigi.
A
soli 1600 km. da qui. Ma noi non possiamo neppure andarli a trovare.
Infatti
non abbiamo il diritto di entrare in Francia, non abbiamo visa e le autorità
francesi rifiutano spesso di concederlo agli Algerini, anche se hanno superato
l'età per essere pericolosi per la loro sicurezza, la loro economia, la loro
cultura.
Io
sono "persona non gradita", una persona indesiderabile in un paese di
cui ho la nazionalità, la cultura e i diplomi e che, sebbene "non
gradito", ha occupato il mio durante 132 anni. Sono i casi della Storia.
Nessuno
ci può far niente.
Ma
la mia amarezza è immensa.
Molti dei problemi che accentuano le mie attuali angosce scaturiscono dalla mia
formazione. È evidente che un numero incalcolato di donne algerine - siamo in
tutto 16 milioni - provano le stesse mie sofferenze.
Ma
spesso esse le sopportano con più rassegnazione e più fatalismo. Povera me! Io
sono una donna araba che ha studiato.
Perciò
sono più vulnerabile. Perché voglio sempre capire le cause e gli effetti,
conoscere le cose nei minimi particolari, perché non ammetto se non ciò che è
razionale e logico.
Al
punto che mi ribello di più all'ingiustizia, rifiuto di dipendere dalla volontà
degli ignoranti, di obbedire alla legge cieca della massa.
La
mia carica emotiva è quindi maggiore, e questo non mi aiuta a superare le mie
paure e le mie angosce.
Sono le parole a farmele dimenticare un po'. Le parole dette e le parole
scritte.
Quelle
cioè che io scrivo nei miei racconti e quelle che dico quando mi capita ancora
di insegnare.
L'insegnamento è la mia vocazione profonda.
Sono
approdata all'insegnamento molto giovane e sono stata professoressa per 34
anni.
Ho
insegnato sempre con passione, con amore, con rabbia qualche volta. In due
lingue, belle entrambe: l'arabo e il francese.
Il
mio bilinguismo non ha mai costituito una remora alla compiutezza della mia
identità arabo-islamica.
Al
contrario esso costituisce per me uno straordinario arricchimento.
Esso
mi ha permesso di perfezionare ancor di più il mio insegnamento e di formare
sia in una lingua che nell'altra, degli allievi che hanno fatto buona riuscita
nella vita.
Una
delle mie gioie più grandi in questo periodo di isolamento, è d'essere fermata
e riconosciuta per strada da molti di loro che mi ringraziano per aver loro
insegnato molte belle cose.
Il
vento della violenza non ha ancora spazzato via tutto per fortuna.
È vero, tutto non è stato ancora spazzato via e non tutto è diventato nero nel
nostro cielo incupito.
Sono
arrivata a questa constatazione tardiva, che la felicità non è un tutt'uno
compatto e ruvido.
È
fatto piuttosto di piccole soddisfazioni che apprezzo tanto più in quanto siamo
circondati dalla cattiva sorte e dalla sofferenza.
È
uno stato di grazia che tocca coloro che scoprono ad un tratto che la vita non
è un lungo fiume tranquillo.
Gli
Algerini della mia generazione hanno visto la loro prima infanzia turbata da
una guerra mondiale, la loro giovinezza sconvolta da una guerra coloniale e la
loro maturità scossa da una guerra civile.
Tre
guerre in mezzo secolo.
Non
è cosa da poco. Alla fine la vita assume un'altra dimensione dove i più piccoli
piaceri diventano felicità immense.
Così, quando mia sorella mi manda suo figlio di quindici anni perché io
completi le sue conoscenze in arabo.
Che
soddisfazione per il mio amor proprio quando, finite le lezioni, se ne va,
avendo ben compreso le mie spie-gazioni.
Andiamo!
non ho perso l'allenamento!
Viva
le regole di grammatica e di coniugazione che cancellano il rumore delle bombe
e dei problemi.
Anche mio marito qualche volta interviene e ciò diventa pretesto per
discussioni appassionanti sui metodi pedagogici che ci riportano ai felici
tempi passati.
Anche la musica contribuisce a dar sollievo alla mia angoscia.
Un'amica
che sa che io amo molto la musica operistica mi ha prestato una registrazione
di Barbara Hendricks e una di Luciano Pavarotti.
Me
ne sono riempita le orecchie per dimenticare il grido delle sirene delle
ambulanze e delle macchine della polizia che tutto il santo giorno percorrono
le strade in lungo e in largo.
L'altro giorno, mio figlio maggiore che è un bravo violinista, è uscito in
giardino con la sua viola e si è messo a suonare una "nouba", un
pezzo di musica andalusa, la nostra musica classica ancestrale.
Io
sono ancora spaventata dalla sua audacia.
È
pazzo. Attirerà l'attenzione dei malintenzionati per i quali la musica è
un'arte perversa.
Ma
ecco che tutte le finestre e i balconi che danno sul nostro giardino, si
riempiono di gente sorpresa di udire un così bel concerto di questi tempi.
Quando
il pezzo finisce, tutti applaudono. Io ho represso lo spavento e non ho potuto
fare a meno di fremere di consolazione all'idea che non tutto è morto
nell'animo dei miei compatrioti.
Piaccia
o no agli integralisti, la musica è necessaria alla vita. Può essere la Vita
stessa.
Quando
essa tace, s'insedia il silenzio della morte.
Spesso mi sembra che il mio cuore stia per scoppiare per l'angoscia, la
malinconia, la ribellione. Mio marito conosce bene questo tipo di crisi che
all'improvviso si impadroniscono di me e fanno scorrere le mie lacrime.
Riesce
a calmarmi grazie al giardino.
È un buon giardiniere, lui, molto amante
degli alberi e dei fiori.
Allora,
mi chiama dal fondo del giardino: "Vieni qui presto: la mimosa comincia a
fiorire!" Da noi, due sono le stagioni benedette che ci avvicinano
teneramente alla natura.
La stagione del gelsomino in estate, la
stagione della mimosa in inverno.
Ogni
mattino in estate, e per tre mesi, mio marito sfoltisce gli arbusti coperti di
gelsomino e raccoglie un cesto di fiori bianchi dal profumo così penetrante che
impregnerà la casa per tutta la giornata.
Quanto
alla mimosa, dall'odore acuto e dai fiori leggeri, ne taglia immense bracciate
che offriamo alle vicine dei quartieri.
Se
ci capita di dimenticarne una, essa viene a esigere il dovuto, la accontentiamo
senza difficoltà, anzi.
I fiori
sono così rari da noi oggi.
Siamo
fieri di aver conservato il privilegio di possederne e di offrirne.
Il
piacere di dare garantisce all'essere umano la sua dimensione più autentica,
soprattutto quando, intorno a lui, alcuni suoi simili agiscono come bestie
selvagge.
Il piacere di ricevere, poi. Questa settimana ho ricevuto lo stesso giorno, tre
lettere.
Una dalla mia amica francese, una dalla mia
amica italiana e una dalla Svizzera, di mia nuora Souad. Che giorno felice!
"Madame Rabia", mi ha detto il postino porgendomele, "è raro che
una donna da noi riceva tanta posta dall'estero.
È
fortunata lei". È vero, ne convengo, ho molta fortuna.
È
come se grazie a questo postino, si aprisse per me una finestra su un mondo
dove regna l'affetto e l'amicizia, un mondo dove la paura è bandita.
Quando parlo di paura, non vuol dire che io abbia paura per la mia persona.
Ho
paura di perdere gli esseri che mi sono cari, ma non di morire io stessa.
Sono
musulmana e penso che la morte non sia un ritorno verso il nulla, verso
l'infinito, la pace, che hanno preceduto la mia nascita.
Perché
dovrei aver paura di tornare da dove sono venuta?.
Ma
ciò di cui ho paura, terribilmente paura, è di morire di una brutta morte,
infertami col ferro e col fuoco, nel sangue e nel fango.
Sgozzata
o decapitata o insozzata o ridotta in poltiglia.
È
questa la mia paura.
Dio
mio, "proteggimi", come ha detto il poeta,"proteggi quelli che
io amo, fratelli, parenti, amici e i miei stessi nemici, in questa malvagità
trionfante", sì che non dobbiamo mai vedere, Signore, questa morte
ghermirci.
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