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SONO MOLTI I PREGIUDIZI TRA MEDICI E INFERMIERI

La morte cerebrale non deve impaurire

In occasione della recente approvazione, da parte di un ramo del Parlamento, del nuovo testo di legge sui trapianti, accanto alle vivaci polemiche sul cosiddetto principio del silenzio-assenso, sono emersi nella stampa una volta di più dubbi e timori riguardanti la morte cerebrale. Per esempio un commentatore autorevole di Repubblica, Umberto Galimberti, si è chiesto se coloro che vengono dichiarati morti in base ai criteri della morte cerebrale siano veramente morti e ha invocato una parola chiara da parte di qualche luminare della medicina.

In singolare contrappunto, qualche giorno dopo, in occasione della lunga agonia di re Hussein di Giordania, si sono letti sui giornali articoli titolati «Re Hussein clinicamente morto» nei quali si precisava che il corpo del sovrano continuava a essere ventilato artificialmente in attesa del decesso naturale.

 

E' ovvio che messaggi ambigui di questo tipo non possono che confondere l'opinione pubblica e fomentare dubbi e timori che sono già largamente presenti in chi, ed è la maggioranza, non ha le idee ben chiare in proposito.

 

Il discorso di Galimberti in realtà prendeva spunto da ciò per poi sostenere una tesi a lui cara e più volte ribadita, quella dell'espropriazione, della dimensione mitico-simbolica del mondo da parte della tecnica e della fine ormai consumata della civiltà umanistica.

 

Non si vuole fare una disamina di questa posizione filosofica, che si ispira a quella di Martin Heidegger, peraltro semplificandone l'originalità e la complessità.

 

Ci si soffermerà invece sulla morte cerebrale.

 

E' importante che nell'opinione pubblica vi sia una chiara comprensione di questo concetto, e non solo perché l'incertezza sulla morte cerebrale non può non essere di ostacolo allo sviluppo della donazione d'organo e dell'attività di trapianto, attività i cui meriti non sono contestati quasi da nessuno (neppure da Galimberti), ma anche e soprattutto perché è cruciale per tutti sapere come si muore oggi, da quando la medicina dispone di potenti mezzi di sostegno vitale.

 

 

Un fatto paradossale è che, pur non essendo molto complesso, il concetto di morte cerebrale è spesso frainteso anche in ambiente medico e infermieristico, come hanno dimostrato indagini sociologiche condotte sia negli Stati Uniti sia in Italia.

 

Si può morire in due modi principali: per lo più il meccanismo della morte è scatenato dall'arresto del cuore; l'arresto della circolazione porta all'anossia di tutti gli organi, in primo luogo dell'encefalo, che cessa di funzionare: il respiro cessa così dopo pochi secondi.

 

Più di rado (in caso di lesione cerebrale primitiva) la morte inizia per arresto del respiro; in assenza di ventilazione artificiale, si sviluppa subito una diffusa anossiemia che poi, nel giro di alcuni minuti, porta all'arresto cardiaco.

 

Se invece è possibile intervenire con le misure di rianimazione cardiorespiratoria, può accadere che, nelle lesioni cerebrali primitive che mettono l'organo definitivamente fuori funzione, l'arresto del respiro che ne conseguirebbe sia mascherato dalla ventilazione artificiale; non sviluppandosi anossiemia, l'attività cardiaca viene mantenuta e il meccanismo abituale della morte viene interrotto, ma ciononostante il malato non presenta più alcun segno di attività del sistema nervoso centrale: è questa la morte cerebrale, descritta per la prima volta nel 1959 con il termine di coma dépassé in pazienti sottoposti a ventilazione artificiale.

 

Da quanto detto, è chiaro che la morte cerebrale non può verificarsi che in ospedale oppure in ambiente medicalizzato e che le condizioni necessarie di questo nuovo modo di morire sono due: che la morte sia causata da una gravissima lesione primitiva dell'encefalo e che il paziente sia sottoposto alla rianimazione respiratoria.

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In pratica, ciò accade in una assai piccola percentuale di pazienti che muoiono in ospedale.

 

Un pregiudizio molto diffuso anche fra i medici è che si parli di morte cerebrale solo quando entra in gioco la possibilità di espiantare gli organi dal cadavere: il concetto di morte cerebrale sarebbe perciò in certo modo strumentale all'attività di trapianto.

 

n realtà non è così, o meglio: se è vero che storicamente la necessità di disporre di organi da trapiantare è stata uno dei motivi che hanno spinto il celebre Comitato di Harvard a proporre nel 1968 il concetto di morte cerebrale (brain death), non è meno vero che tale condizione era già stata descritta nove anni prima, in un momento in cui non si eseguivano ancora trapianti per mancanza di efficaci terapie antirigetto, e che essa continuerebbe a verificarsi anche in futuro, qualora lo sviluppo della tecnologia degli organi artificiali rendesse superfluo il trapianto di organi naturali.

 

Dunque la morte cerebrale non è un escamotage per rendere possibili i trapianti, ma un nuovo modo di morire, legato al mutato contesto della medicina moderna.

 

Di più, la riflessione sulla morte cerebrale è servita a chiarire alcuni elementi che erano rimasti oscuri nella nozione tradizionale di morte: il criterio cardiaco tradizionale di morte, pur essendo empiricamente valido per i tempi in cui fu elaborato, non coglieva il nocciolo essenziale della morte, che si identifica con la perdita irreversibile dell'attività dell'encefalo.

 

 

Che dire delle lamentele sulla perdita della valenza simbolica della morte?

 

Va riconosciuto che la morte tradizionale era abbastanza facile da riconoscere da parte del profano, mentre il riconoscimento della morte cerebrale è una vera e propria diagnosi medica che richiede, fra l'altro, il ricorso a esami strumentali.

 

E' vero però che anche in passato i dubbi sul vero momento della morte erano assai gravi e diffusi: il timore della morte apparente e della possibile sepoltura di soggetti non ancora morti è stato condiviso da larghi strati della popolazione, specie nella seconda metà del Settecento e in tutto l'Ottocento.

 

Questo timore è stato fugato solo dall'intervento del medico (oggi obbligatorio per legge) nell'accertamento della morte e non per questo la morte ha perso il suo significato emotivo-simbolico.

 

 Quanto alla morte cerebrale, essa è certamente più misteriosa, in quanto il suo esatto momento non può essere colto dal profano, ma la perdita dell'essere amato non viene per questo resa meno dolorosa.

 

In maniera generale, lo sviluppo della medicina contemporanea continua a creare situazioni nuove e sconcertanti per affrontare le quali manca l'esperienza; le idee, gli atteggiamenti e le emozioni tradizionali spesso non si rivelano appropriati.

 

Questi mutamenti del sentire morale sono difficili da realizzare e la tentazione di esorcizzarli condannando le nuove pratiche può essere forte.

 

Tuttavia, troppo grandi sono i vantaggi che la medicina ha arrecato all'uomo per poter pensare di rinunciarvi al fine di non mettere in questione le nostre abitudini.

 

La sfida è quella di dare un senso, una dimensione simbolica alla nuova realtà modificata dalla scienza e dalla tecnologia, rinunciando alla tentazione di un impossibile ritorno al passato.

 

Carlo Alberto Defanti

Divisione neurologia

Ospedale Niguarda

Milano

(da © Tempo Medico n. 624 del 10 marzo 1999)

 

Approfondimenti in internet

Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della provincia di Pesaro-Urbino. In questo sito sono illustrati i passi diagnostici per eseguire l'accertamento di morte cerebrale.