Esempi di bufale matematiche e didattiche

di

Mauro Cerasoli

Università di L’Aquila

 

Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra

Giovanni, VIII,7

 

 Qualche anno fa il solito critico d’arte, cioè colui che non sa dipingere, né scolpire, ma che critica gli artisti, pubblicò l’ennesimo articolo dall’altisonante titolo “Su alcuni errori nei libri di testo”, s’intende di Matematica, e per la scuola. Che ci siano libri di testo con errori è ben noto, come fece notare Galileo, in virtù dell’ovvio teorema che non esiste un libro senza errori. Infatti, come facilmente si dimostra,  anche se tutti coloro che hanno letto un dato libro dicessero: in questo libro non ci sono errori, ciò non basterebbe ad affermare matematicamente che, in realtà, quel libro non ha errori. Ma scovare errori è facile: prima o poi qualcuno se ne accorge e l’errore salta fuori. Molto più difficile invece è scovare le bufale, cioè quei mezzi errori, mezze verità, sviste didattiche, sulle quali si può discutere perché opinabili, dipendenti dal capo tribù, vere per una parrocchia ma non per l’altra e così via. Vogliamo provare a vederne qualcuna?

Il teorema di Pitagora La prima bufala che i matematici hanno rifilato ai media forse è stata la famosa truffa di Talete a proposito delle olive e dei frantoi. Un’altra più famosa è quella di Pitagora che voleva mettere a credere che ci sono soltanto i numeri naturali. Purtroppo aveva torto. Anche Tolomeo, convinto come tanti altri che la terra fosse al centro dell’universo, si interessò, e non da solo, di curve molto più complicate della circonferenza e delle ellissi, le epicicloidi. Infatti Alfonso X, detto il Savio, re di Castiglia, autore del famoso Libros de Acedrez, dados e tablas, non credendo alla bufala, soleva ripetere a proposito del sistema solare: “ Se Dio mi avesse chiamato a consiglio, le cose avrebbero avuto un miglior ordine”. Ma la bufala del teorema di Pitagora è molto più semplice.

Essa consiste nel continuare a ripetere che “in un triangolo rettangolo la somma dei quadrati dei cateti è uguale al quadrato dell’ipotenusa”. E l’errore non sta nel fatto, come suggeriscono illustri esperti nello spaccare il capello in quattro e nel cercare il pelo nell’uovo, che bisogna dire “quadrati delle lunghezze dei cateti”. Molto più semplicemente la bufala consiste in:

a)      dimenticare spesso di dire che è vero anche il viceversa: se la somma dei quadrati di due lati di un triangolo è uguale al quadrato del terzo lato, allora l’angolo tra i primi due è retto;

b)      che questa versione del teorema di Pitagora è quella che viene sfruttata regolarmente dai muratori, progenitori dei matematici, fin dal tempo in cui l’uomo abbandonò le palafitte e mise i primi mattoni e blocchi di pietra a forma di parallelepipedi retti rettangoli. Per squadrare un terreno, cioè per disegnare un angolo retto. La terna pitagorica più usata era 8m, 6m e 10m.

 

Il mito della verità e del ragionamento I docenti di matematica credono fermamente che l’insegnamento della loro disciplina sia fondamentale per la formazione del cittadino, conducendolo sul viale alberato della verità e del retto ragionamento. Questa idea l’ho creduta anch’io per tanti anni, poi, un giorno, mi sono accorto che era una bufala. Alla gente comune, al popolo, a quelli che una volta si chiamavano in greco oi polloi, e che oggi la tv chiama  i media, della verità e del giusto ragionamento non importa un bel nulla.

I primi film di Fellini, sceneggiati da Ennio Flaiano, erano belli, e lo sono ancora, perché trattavano più il sogno che la verità. Come si spiegano l’oroscopo, ora anche sui canali televisivi di stato, e i milioni di giocatori del lotto che puntano notevoli somme sul numero ritardatario? Come si spiegano col ragionamento i miliardi del superenalotto?

Anche una versione di latino o di greco, direbbe la collega di lettere, giustamente, insegna a ragionare. E una partita di scacchi? Non ha scritto Hardy [GHH] a pag.68 che “ I problemi di scacchi cantano le lodi della matematica”? E allora perché si ritiene che insegni a ragionare più lo sviluppo di un prodotto di polinomi, o il calcolo di un integrale o di un determinante, che non invece un bel problema del tipo “ il bianco muove e matta in tre mosse”? Ma in un qualunque gioco di carte, dal tresette al poker, non si ragiona? E allora giochiamo a carte e a scacchi, se vogliamo imparare a ragionare, non con le bambole. Ricordiamoci poi quello che diceva Aristotele nell’Etica Nicomachea: non è possibile o non è facile mutare col ragionamento ciò che da molto tempo si è impresso nel carattere.

La matematica è la scienza della verità! Dove sono le verità di Ustica e della morte di  Kennedy? Della scomparsa di Majorana e dell’esistenza degli UFO?  Non cantava Caterina Caselli negli anni sessanta “La verità mi fa male lo sai?…l’ho pagata cara la verità” parafrasando i proverbi “Non mi dire il vero se no mi si alza il pelo” e “Se dici la verità perdi gli amici”?

Conoscete la barzelletta dei due turisti in mongolfiera che, a un certo punto del viaggio, si erano persi sulle montagne? Si abbassano quasi a terra e chiedono ad un tizio che passeggiava: dove siamo? L’uomo riflette qualche minuto e poi risponde: “su una mongolfiera!”. Al che un turista replica: “ma lei è un matematico?”. “Sì”, risponde l’uomo che andava a passeggio per i boschi, “come ha fatto ad indovinare?”. “Semplice”, ribatte l’altro sul pallone gonfiato: “lei, come tutti i matematici,  ha pensato molto, ha detto la verità, ma non serve a niente!”.

Soltanto un grande ha sentenziato, e poteva giustamente farlo, “Ego sum lux mundi via veritas et vita”.

 

I famigerati logaritmi  Cosa vuol dire la parola logaritmo? Si legge quasi ovunque nei libri di testo, di qualunque ordine e grado di scuola o di università, il significato seguente che risale a due massime autorità nel campo della didattica: Ugo Amaldi e Federigo Enriques [AF]. Cito la nota a piè pag.312: “Secondo Euclide, se il numero a si considera come ragione (o rapporto) di due grandezze, i numeri a2, a3, … diconsi ragione duplicata, triplicata,… di a. Così per an, n si dirà il numero della ragione (logou aritmos in greco) e di qui venne il nome di logaritmo, che risale allo scozzese Giovanni Napier o Neper (Neperus) al quale si deve l’invenzione dei logaritmi.”

Il discorso non fa una piega, pare che i termini corrispondano, ma come al solito, i matematici fanno i conti senza l’oste. Infatti nel 1988, durante un viaggio in Grecia, patria di Euclide ma non di Giovanni Napier, ebbi da un oste la ricevuta fiscale di un pranzo dove il conto si chiamava, e credo che si chiami ancora oggi a dieci anni di distanza, logariasmos. Forse logaritmo vuole significare ragionamento (logos) con i numeri (aritmos), cioè conto, calcolo?  Qualcuno ha confuso il termine ragione, inteso come latino ratio, rapporto, con quello greco logos, che vuol dire ragionamento?

Passo la questione e la ricevuta fiscale dell’oste agli epistemologi, ai filologi, agli storici e a tutti coloro che vorranno togliermi il dubbio. Con l’occasione varrà la pena di indagare se assioma ed assi cartesiani, parole nobili della matematica, abbiano a che fare con i volgari assi del mazzo di carte, come suppongo.

 

Il gioco della zara di Dante

Talvolta l’etimologia aiuta la comprensione del significato dei termini: non lo dimentichiamo. Un esempio particolare può essere il mare di sciocchezze, dette in passato, a proposito del famoso passo di Dante, all’inizio del canto VI del Purgatorio:

Quando si parte il gioco della zara,

colui che perde si riman dolente,

ripetendo le volte, e tristo impara…

Nel commento di non ricordo quale critico di Dante si leggeva quanto segue: “ Il gioco della zara, oggetto di insistenti e severi quanto inutili divieti degli stati comunali, era diffusissimo nel Trecento. Si faceva gettando su un tavoliere tre dadi e consisteva nell’indovinare in anticipo i numeri risultanti dalle loro possibili combinazioni. Quei numeri, al di sotto del 7 e al di sopra del 14, come il 3, il 4, il 17, il 18, che potevano nascere da una sola, anziché da più combinazioni, erano considerati nulli: (e però, quando vengono quelli punti, diceno li giocatori zara, quasi dican nulla, come zero nell’abbaco (Buti))”.

      E qui ci facciamo due risate. Intanto non è vero che il 4 e il 17 vengono con una sola combinazione (come farà notare Galileo) : 4 si può fare in tre modi, 1+1+2, 1+2+1, 2+1+1, e così pure 17 con 5+6+6, 6+5+6, 6+6+5. Inoltre può anche essere che zara significhi nulla, perché assomiglia a zero, ma come la mettiamo con il fatto che, guarda caso, in arabo dado si dice zahr, in spagnolo si dice azar (dove la prima a ricorda l’articolo arabo al), che in fracese hasard vuol dire azzardo, cioè avere a che fare con qualcosa di casuale, simile a ciò che avviene giocando a dadi? E cosa vorrebbe significare bizzarro se non qualcosa o qualcuno che si comporta come due dadi, cioè in modo tale da non poterne prevedere le mosse? Quindi niente a che fare col nulla ma col caso, cioè col dado.

      Questa storia mi ricorda un po’ quella della parola cosa, la più usata dagli italiani. Quasi tutti i professori di lettere, e di matematica, credono che venga dal latino causa. Pochi sanno che viene da un termine arabo, che si ritrova nel francese chose anche nella pronuncia, che stava ad indicare, e credo ancora oggi, l’incognita nelle equazioni. Infatti la ics, che si utilizza comunemente per indicare l’incognita, si legge in un modo che, un po’ storpiato, porta allo stesso suono di cosa. Infine, le tanto nominate cosa1 e cosa2 di memoria politica italiana, non erano forse delle incognite?

           

L’iperbole dei minimi quadrati Un’altra bufala legata al logaritmo si ritrova nel problema dell’interpolazione col metodo dei minimi quadrati. Ma andiamo con ordine. Il primo esempio di curva di regressione, in quasi tutti i libri di testo, compreso uno dei miei, mea culpa, mea culpa, è la retta dei minimi quadrati di equazione y=ax+b. Come è ben noto, dati i numeri reali xi ed yi per i=1,2,…,n, si tratta di determinare i coefficienti a e b tali da rendere minima la somma di quadrati

 

åi [yi – (axi+b)]2

 

Naturalmente ora bisogna calcolare le derivate parziali rispetto ad a e b, uguagliarle a 0, ecc. ecc. Dopo alcuni calcoli noiosi vengono trovate le formule che danno i due coefficienti: che nessuno ricorda mai a mente e che sono praticamente utilizzate solo nel calcolo automatizzato.

Dal punto di vista didattico c’è da dire che in questo contesto è necessario utilizzare le funzioni di due variabili: argomento che, in genere, non viene svolto nelle scuole medie superiori. E’ vero che la retta è la curva più frequentemente usata nelle applicazioni e che, con una trasformazione logaritmica, altre curve vengono ricondotte alla retta, ma perché non iniziare con una curva che dipende da un solo parametro invece che da due come la retta? Ad esempio l’iperbole equilatera di equazione y = a/x ? Che tra l’altro è un modello per tanti fenomeni fisici, a cominciare da una delle più antiche, la legge di Boyle-Mariotte? In tal caso infatti la somma dei quadrati da minimizzare diventa

 

åi (yi – a/xi)2

 

e, derivando rispetto ad a, si trova che il valore che minimizza la somma è

 

a = åi (yi/xi)/åi xi-2

 

Ma allora perché questa formula non compare nei libri di statistica? Perché la curva  y = a/x appartiene alla famiglia del tipo curva di potenza, di equazione y = axb, per b = -1. Passando ai logaritmi, essa diventa logy = loga + b logx, che è una funzione lineare in logy e logx, quindi riconducibile ad una retta. Così il logaritmo fa fuori l’iperbole equilatera e tutto rientra nel minestrone della retta dei minimi quadrati.

 

Ancora pi greco Quando introduco il metodo Monte-Carlo nel mio corso di probabilità, inizio quasi sempre con la stima di p. Infatti, preso un quadrato di lato a, considerato il cerchio inscritto, scelto a caso un punto uniformemente nel quadrato, la probabilità di colpire il cerchio è p/4. Non volevo riferirmi in questo esempio alla bufala che il docente di geometria dimentica quasi sempre di dire che la probabilità è un invariante per omotetie. Infatti la probabilità, rapporto tra l’area del cerchio e quella del quadrato, non dipende dalla lunghezza del lato del quadrato. Non diceva Felix Klein che la geometria (ma anche la matematica in generale) è la scienza che studia le trasformazioni ed i loro invarianti? Ed allora perché nei libri di testo di geometria non c’è scritto che la probabilità è un invariante per omotetie? Misteri della didattica e dei critici d’arte che non lo notano!

            Ma la questione è un’altra: p. Molti colleghi e studenti, di varie università italiane, alla mia domanda: quanto vale p?, hanno risposto candidamente: circa 3,14. Nessuno ha saputo dire perché e, tutti d’accordo, abbiamo concluso che così

a)      ci aveva detto la nostra maestra alle scuole elementari dopo aver seguito tanti corsi di aggiornamento,

b)      aveva confermato il professore di matematica delle scuole medie,

c)      aveva ribadito quello delle superiori,

d)      avevano continuato tutti i professori universitari parlando sempre e solo di p e quasi mai del suo valore numerico approssimato.

Qualche docente, in genere quello di Analisi con qualche sprazzo di mentalità concreta, si spingeva a parlare di una serie convergente a  p, aggiungendo che valeva circa 3,14159, ma senza mai dire come uscivano quelle benedette cifre. Per tali questioni si rimandava a quei matematici strani che passano la vita a cercare la miliardesima cifra di p. In qualche testo poi si poteva trovare un rimando, sempre per la questione delle cifre, ad un capitolo inesistente, per  esempio in [GE].

Infatti l’autore a pag.87, prima dice che “ Geometricamente p è l’area del cerchio di raggio 1”. Peccato che in nessuna parte antecedente del testo sia stata definita l’area (manca un po’ di teoria della misura)  per cui non si capisce cosa sia p, non sapendo che cosa è l’area. Subito dopo l’autore introduce  Am uguale all’area (e ci risiamo) del poligono regolare di  m lati, inscritto nel cerchio di raggio 1. Posto m=2n, viene definita la successione fn = Am. Si dice quindi che p è il limite di fn per  n®¥ e si riportano i valori esatti  f2 = 2, f3 = 2Ö2 e i valori approssimati 3,06 per n = 4 e 3,12 per n=5.  L’autore conclude il paragrafo scrivendo: “Occorre comunque rilevare che per il calcolo di p non viene utilizzata la successione fn ma si fa uso di espressioni derivate dal calcolo differenziale (vedi Cap. VIII, Esercizio 6.3)”. Purtroppo il libro finisce col Capitolo VI.

            Abbiamo cercato di sapere perché le prime cinque cifre di p dopo il 3 sono 14159 consultando un’altra autorità straniera nel campo dell’Analisi Matematica: Walter Rudin [RW]. Anche qui la ricerca non ha portato frutti: a pag.183 si definisce p/2 come la più piccola radice positiva dell’equazione cosx = 0. Poco prima cosx è stato definito come [exp(ix)+exp(-ix)]/2 ed ancora più indietro si era detto che exp(z) = e z è la serie su n³0 di zn/n! .

Ma chi è e? A pag. 63 Walter definisce e al solito modo, come vedremo nella prossima bufala, ma in nessuna parte del suo libro dice quali sono i valori numerici approssimati di  e  e di p. In compenso però, a pag.197, rivela che la costante g di Eulero (Mascheroni non viene nominato) vale circa 0,5772…. E pensare, letta la prossima bufala, che questo libro è stato tradotto in italiano per gli studenti!

 

Il numero 1/e  Nel libro di Rudin, ma in quasi tutti i testi di Analisi Matematica, viene introdotto il numero e come limite della successione (1+1/n)n. In genere si fa vedere che questa succesione è limitata da 3 e che è crescente; così per il noto teorema che ogni successione monotona e limitata ammette limite finito, si definisce il numero e come tale limite. La dimostrazione non è lunga ma comunque prende un po’ di tempo ed una paginetta: tra l’altro bisogna ricorrere inevitabilmente al teorema binomiale per sviluppare la potenza. La successione considerata ha sì una interpretazione finanziaria, o simile, come crescita continua di un capitale unitario al tasso usuraio del 100%, ma ha un difetto: è sempre maggiore di 1 e quindi non ha una interpretazione probabilistica.

Approfittiamo dell’occasione per ricordare ai colleghi che in Matematica, per una espressione algebrica o analitica, non esiste solo l’interpretazione geometrica (geometria analitica o geometria algebrica) ma anche quella probabilistica. Ciò vuol dire che è possibile trovare un fenomeno casuale (sinonimo di spazio geometrico) ed un evento ( analogo di figura) la cui probabilità (analogo di lunghezza, area o volume) è data da quella espressione. Ma forse è meglio chiarire con un esempio concreto. 

            Supponiamo di avere n scatole ed n biglie; tutte le biglie vengono tirate a caso, indipendentemente l’una dall’altra, nelle scatole. Si chiede la probabilità che una scatola qualunque, prefissata, resti vuota. La risposta è (1-1/n)n. Questa successione ha anche il significato finanziario di essere il montante di una lira al tasso negativo (inflazione?) del 100%. Ma è dal punto di vista matematico che essa è molto più facile da studiare rispetto alla più famosa (ingiustamente secondo me) che porta al numero e. Intanto è immediato, senza fare alcun calcolo, che essa è limitata dal numero1. Ancora più semplicemente si vede che è monotona perché per ogni naturale positivo risulta sempre

 

(1-1/n)n < [1-1/(n+1)]n+1

 

Così anche questa successione ammette limite che chiameremo 1/e ecc. ecc.

Ma anche dal fronte della serie di 1/n!, che dà il numero e, vengono delle bufale. Perché la somma parziale è sempre maggiore di 1 e quindi non è una probabilità, né si vede un significato geometrico. Se invece si prende la somma parziale della serie che converge ad 1/e, cioè

 

Pn =   1/0! - 1/1! + 1/2! –1/3! +…+(-1)n/n!

si può dare un significato probabilistico in base al seguente

Teorema. Scelta a caso una permutazione f tra le n! possibili sugli elementi 1,2,…,n, la probabilità che f  non abbia punti fissi, ovvero che per nessun i=1,2,…,n  risulti f(i)=i, è Pn.

Si noti che per n>6 il numero  Pn vale 0,3678… e queste sono le prime quattro cifre esatte di 1/e. A riprova della maggiore importanza del numero 1/e rispetto al numero e, si può aggiungere,  passando alla funzione esponenziale ex, che nella pratica si utilizza più la funzione e-x , cioè (1/e)x  che non l’altra. Basti pensare alla curva di Gauss o alla trasformata di Laplace.

 

Una finta definizione di probabilità Visto che abbiamo parlato di probabilità espressa col numero 1/e, restiamo nel tema, andando a considerare qualche bufala legata a questo concetto ed alle sue varie definizioni che meglio sarebbe chiamare interpretazioni. A pag. 289 di [LBL] si leggono queste amenità: “ Definiamo la probabilità p(E) di un evento E in modo analogo alla definizione della probabilità di un esito (o caso):

p(E) = lim n®¥ [S(E)/n]

 

dove S(E) è il numero dei casi, nelle prime n prove dell’esperimento, in cui ha avuto luogo l’evento E. E’ facile dimostrare che questo limite esiste; in effetti è facile dare una formula per p(E).”

Beati loro! Ma che razza di limite è questo? Come sono definiti i valori della  successione S(E)/n ? Che cosa succederà alla prova (n+1)a ? Qui si confonde il concetto di probabilità con quello di stima di una probabilità sconosciuta. E’ come confondere il concetto di volume  di un solido, definito assiomaticamente secondo la teoria astratta della misura, con quello di volume di una pietra stimato mettendola in un recipiente graduato, pieno d’acqua, e vedendo di quanto si è alzata l’acqua! Simile bufala si ritrova in alcuni testi universitari di metodi matematici e statistici per biologi.

Un altra classica bufala è dimostrare il teorema B a lezione, o in un libro, rifacendosi al teorema A che però non è stato dimostrato nelle precedenti lezioni, né nelle precedenti pagine del libro. La dimostrazione del teorema A sta in qualche altro libro, o in un articolo, quasi sempre di difficile consultazione. E’ il caso, ad esempio, della dimostrazione del teorema del limite centrale nella teoria delle probabilità. Esso afferma che la somma standardizzata di n variabili aleatorie, indipendenti ed equidistribuite, converge in distribuzione alla variable normale standard. Nella dimostrazione di questo teorema spesso, come nel libro di Hoel, Port e Stone a pag.212, per citarne uno a caso, si fa riferimento al teorema di continuità di Levy riportato, senza dimostrazione completa, a pag.208. Domanda: ma perché lambiccarsi il cervello per dimostrare a futuri fisici, ingegneri,  informatici, economisti, biologi, medici ecc. questo teorema quando invece sarebbe molto più salutare fare un mese di esempi di sue applicazioni concrete? Come quelle delle società Gallup o Abacus o Doxa che fanno previsioni così azzeccate in campo politico da indurre i governanti a vietare sondaggi in vista di elezioni? O ancora: perché la Deutsche Bundesbank avrebbe messo la formula e la curva di Gauss sul biglietto di dieci marchi? Misteri della didattica universitaria!

 

Il teorema di Stone-Weierstrass e i polinomi di Bernstein  Nella sua forma originale, questo teorema dice:

Se f è una funzione reale continua su [a,b] esiste una successione pn(x) di  polinomi tale che pn(x)®f(x) uniformemente su [a,b].

Ad esempio Rudin [WR], pag.159. Quasi tutti i testi di analisi matematica riportano questo teorema così, cioè nella forma “esiste”, ma senza dire chi sono questi polinomi che convergono alla funzione. Ricorda un po’ quegli strani teoremi che dicono sotto un mare di condizioni “la soluzione esiste ed è unica” ma Dio solo sa quale essa sia. La persona non addetta ai lavori penserà: esistono ma, chi sa chi saranno: intanto esistono! Già è qualcosa.

            Si dà il caso che S. Bernstein, agli inizi del secolo, quasi cento anni fa, ha dimostrato che quei polinomi sono ad esempio, sull’intervallo [0,1],                              

 

pn(x) = Sk f(k/n)Cn,k xk(1-x)n-k

 

dove la somma su k è estesa da 0 ad n  e Cn,k è il coefficiente binomiale n sopra k. Oggi chiamati in suo onore polinomi di Bernstein della funzione f(x). L’esperto di probabilità ci riconosce nascosta la distribuzione binomiale: infatti la dimostrazione che tali polinomi convergono uniformemente alla funzione  f(x)  è una delle più belle applicazioni della legge debole dei grandi numeri (Feller [WF], vol.II,  pag. 219. E così, ma ci sono altri esempi illustrativi, si dovrà ritenere che è falso il detto che gira in molti dipartimenti di matematica italiani: “Qualunque analista può insegnare la probabilità”.

Molto più giusto sarebbe il detto: “L’Analisi dovrebbero insegnarla i probabilisti”.

           

L’addizione e la geometria Ci sono delle bufale così nascoste che possiamo chiamare criptobufale o cimici. Spesso appaiono come luoghi comuni, cioè come cose dette e ridette sulle quali tutti sono d’accordo. Ad esempio, che le quattro operazioni elementari siano l’addizione, la sottrazione, la moltiplicazione e la divisione. Tutti gli insegnanti, dalle elementari all’università, alla domanda “qual è l’operazione più semplice” rispondono: l’addizione. Posta la domanda in un altro modo, ci si accorge che qualcosa non va. Chiediamo infatti: qual è stata la prima operazione scoperta o inventata dall’uomo (o da un animale)? Ora la risposta non è più l’addizione ma l’operazione di max o di min. Dati due numeri naturali x ed y, l’uomo ha prima confrontato questi due numeri, cioè prima si  chiesto chi è min(x,y) e max(x,y) e poi ha imparato a fare x+y. Infatti quando il maschio dominante di un branco di x scimmioni, incontrava un altro branco formato di y scimmioni, della stessa o di un’altra razza, si domandava: chi è più grosso, x oppure y ?. Sono convinto che il più delle volte, come capitava ai ragazzi della via Paal, il capo branco prendeva le seguenti decisioni:

a)      se x<y, si dava alla fuga,

b)      se x>y si gettava addosso all’altro branco con l’intenzione di rapirgli le femmine e altro.

Era così importante questa operazione che chi non la faceva ci rimetteva di brutto. Pensate un attimo alla seconda guerra mondiale: se Mussolini avesse confrontato il numero x di tonnellate di acciaio prodotte dagli Stati Uniti (con l’acciaio si fanno i cannoni, i carri armati, gli aerei, le corazzate, le portaerei, ecc.) con il numero y di tonnellate dello stesso prezioso metallo prodotte in Italia, sicuramente avrebbe evitato di buttarsi nell’avventura che è andata a finire come tutti sappiamo.

            Un’altra cimice bufalina è quella legata al significato della parola geometria. Come tutti sanno, in greco significa  misura della terra. Ora nel catalogo del Mathematical Review, la prestigiosa rivista americana che pubblica tutte le recensioni di articoli di matematica, il termine misura compare nell’area dell’Analisi Matematica, e non della Geometria. Infatti per misurare ci vogliono i numeri, quelli irrazionali anche, caro Pitagora, cioè l’Analisi Matematica. La geometria infatti non è nata come misura della terra, stando a quello che scriveva Erodoto, il quale come tutti i  letterati non aveva le idee chiare sulla matematica, in particolare sulla geometria.

            L’uomo, prima di misurare i suoi terreni, li ha seminati: ha fatto gli orti. Ora orto, da cui ortogonale, significa dritto, a piombo, squadrato, cioè così come vengono messi i filari di viti, gli oliveti, i frutteti e le piante di pomodori, di cavolo o di lattuga. In altre parole i filari devono essere allineati, paralleli. E questi sono i concetti primitivi della geometria: i concetti di parallelismo, di ortogonalità e di incidenza, non di misura. Gli spazi metrici vengono dopo gli spazi di incidenza. E’ più facile dire quando due segmenti sono paralleli che non quanto misura un segmento o la sfera.

            Prima di chiudere ricordiamo la bufala dedicata alle  geometrie non euclidee. Tutti ne parlano dimenticando  quelle geometrie non euclidee, come le geometrie finite o la teoria dei grafi, che hanno avuto l’ardire di togliere l’infinità dei punti di una retta dagli assiomi di Euclide. Gli esperti di geometrie non euclidee, quasi sempre, si limitano a parlare solo dell’assenza dell’assioma delle parallele. Potenza dell’infinito!

 

Statistica

Sai ched’è la statistica?

Chiedeva Trilussa in una sua famosa poesia e continuava

E’ na cosa

che serve pe’ fa’ un conto in generale

de la gente che nasce, che sta male,

che more, che va in carcere e che spòsa.

Ma pe’ me la statistica curiosa

è dove c’entra la percentuale,

pe’ via che, lì, la media è sempre uguale

puro co’ la persona bisognosa.

Me spiego: da li conti che se fanno

seconno le statistiche d’adesso

risurta che te tocca un pollo all’anno:

e, se nun entra ne le spese tue,

t’entra ne la statistica lo stesso

perché c’è un antro che ne magna due.

Molti docenti di statistica ritengono che questa disciplina sia un “insieme di metodi aventi per oggetto lo studio di fenomeni collettivi” stando a quanto si legge sul vocabolario Zingarelli. Più precisa è la definizione di statistica nell’ambito della Fisica, come statistica di Maxwell-Boltzmann, Bose-Einstein, Fermi-Dirac: “legge probabilistica di distribuzione delle particelle di un sistema, che permette di calcolare le proprietà macroscopiche del sistema quando l’elevato numero delle particelle non consente lo studio di ogni singola particella” . Più avanti si legge che, in senso estensivo, la statistica è una “raccolta organica e ordinata di dati”. E qui siamo più vicini alla verità: infatti la probabilità sta ai dadi come la statistica  sta ai dati. In quest’ultima frase sembra che ci siano troppi “sta”. Ma non se ne può fare a meno!

Il primo sospetto sul significato di statistica relativo allo studio di fenomeni collettivi mi venne quando notai che anche statica inizia come statistica, ma che questa si interessa dello studio di corpi fissi, che stanno fermi. Così senza volerlo, mi vennero in mente tutte queste parole: stabile, stadera, stadio, staffa, stagno (come laghetto), stalattite, stalla, stallo, stampa, stasi, stato (da cui alcuni credono erroneamente che venga la parola statistica), statua, stazione, stazzo, stella, stemma, stile, stima, stipo, stocco, storia, stuoia, costante, costanza, estasi, estate, istante, lista, ostacolo, posta, sosta, per non parlare di quelle straniere: stand, stone, standard, stein, stop, store, star, stau, ecc. Cosa hanno in comune tutte queste parole, dove è sempre presente il termine st  seguito da una vocale? In tutte c’è sempre qualcosa che è ferma. Dal greco stasis. Infatti i dati di cui si occupa lo statistico, o lo storico, sono fermi, immutabili: sul Golgota vi erano tre croci! Né una di più, né una di meno! A proposito di verità, non scriveva Giambattista Vico nella sua De antiquissima Italorum sapientia, bei tempi, “verum ipsum factum”?

 

Italia batte USA: 945 a 535 Il signor Agostino Melega ha scritto a Montanelli, sul Corriere della Sera, un giorno di novembre del 98, “vorrei che qualcuno rispondesse a due domande semplici semplici. Perché l’Italia con 57 milioni di abitanti ha 4 milioni di dipendenti statali, mentre gli Stati Uniti con 263 milioni di abitanti ne hanno 2 milioni? Perché Camera e Senato italiani hanno 630 e 315 seggi, mentre negli USA ne hanno rispettivamente 435 e 100? Bisogna pure tenere presente che gli USA hanno 50 grandi Stati e noi 20 misere Regioni, e che il PIL dell’Italia è uguale a quello della California. Ho il sospetto che nelle risposte ci sia la chiave per capire come mai anche tutti gli altri conti italiani non tornano”.

            I conti non tornano, e sempre di più non torneranno, anche perché stiamo perdendo, anno dopo anno, gli iscritti al Corso di Laurea in Matematica, che dovrebbero, un domani,  insegnare a fare i conti alle future generazioni. Gli iscritti a Matematica sono scesi da 4674 nell’A.A. 91/92 a 2709 nell’A.A. 96/97. Non ho i dati relativi all’anno 97/98 ma un calcolo con la retta dei minimi quadrati dava un valore di 2386 iscrizioni attese. Più drasticamente un calcolo con la parabola dava il valore  di 2188 iscritti. Per il 98/99, se la tendenza a scendere continuava, si aspettavano dai 1626 ai 1998 iscritti.

Il 4 maggio del 1991, sulla Gazzetta Ufficiale, fu pubblicata la tabella XXII del nuovo, si fa per dire, Corso di Laurea in Matematica. Rispetto al 1964, anno della mia iscrizione all’Università, restavano inalterati

a)      il numero di anni di corso, cioè 4,

b)      le stesse 11 materie del biennio e del terzo anno: Analisi matematica I e II, Geometria I e II, Algebra, Fisica generale I e II, istituzioni di analisi superiore, geometria superiore, fisica matematica, obbligatorie per tutti gli indirizzi,

c)      lo stesso numero di esami, o annualità (= due moduli) cioè 15,

d)      il potere dei baroni universitari legati saldamente alle loro cattedre.

La domanda che si poneva il povero padre di famiglia, leggendo la Gazzetta Ufficiale, era: e i computer? Ovvero, questi saggi legislatori, illuminati dall’UMI (Unione Matematica Italiana), si erano accorti o no che per la strada si vendevano i calcolatori? E in quale corso i futuri docenti di Matematica avrebbero imparato a manipolare un computer? Non è paradossale che un laureato in matematico non sappia fare nemmeno 3 per 8 con un computer? Provare per credere!

E non è questa la bufala più grossa che si può rifilare ad una giovane laureata in matematica, cioè quella di non farle mai poggiare le sue delicate manine su una tastiera? Ma si sa, il trattato sulle coniche di Apollonio o le terne pitagoriche, o la disputa Leibniz-Newton sono più interessanti, per un conservatore, del calcolo simbolico svolto dalla TI-89 o di Derive. Per non parlare poi di tutte le discipline matematiche, vecchie e nuove, come Topologia, combinatoria e categorica, Calcolo delle Probabilità, quantistica e non, Statistica, descrittiva e matematica, Matematica Finanziaria ed Attuariale, Ricerca Operativa, Storia della matematica, antica e moderna, Sistemi dinamici, discreti e continui, Teoria dei numeri, analitica e non, Geometria finita, Matematica discreta, ecc. ecc. E nei quattro esami restanti, tra il 3° e 4° anno accademico, come era possibile colmare queste lacune? Forse questo nuovo corso di laurea doveva chiamarsi di ALANFIGE (Algebra Analisi Fisica Geometria), ma non di Matematica. Infatti gli studenti hanno preferito iscriversi ad Informatica. Così oltre che la Matematica imparano anche ad usare un computer.

 

Morale della favola Prima di farci in quattro per dare definizioni precise o dimostrare rigorosamente teoremi, facciamo vedere ai nostri allievi a che cosa serve la matematica. Si eviteranno altre bufale.

 

Bibliografia

[AF] U.Amaldi, F.Enriques, Elementi di Algebra, parte seconda, Zanichelli, 1947, pp.357

[WF] W.Feller, An Introduction to Probability Theory and its Applications, Wiley, 1971, Vol.II pp.669

[GHH] G.H.Hardy, Apologia di un matematico, Garzanti, 1989, pp.110

[GE]  E.Giusti, Analisi Matematica, vol.1°, Libreria Scientifica G. Pellegrini, Pisa, 1979, pp.321

[HPS] P.G.Hoel, S.C.Port, C.J.Stone, Introduction to Probability Theory, Houghton Mifflin C.,1972, pp.297

[LBL] P.Lax, S.Burstein, A.Lax, Analisi matematica, Zanichelli 1986, pp.563

[WR] W.Rudin, Principles of Mathematical Analysis, McGraw-Hill, 1953, 3a ed. 1986, pp.342        


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