L'infinito

in Matematica

  

“Da tempo immemorabile l’infinito ha suscitato le passioni umane più di ogni altra questione. E’ difficile trovare un’idea che abbia stimolato la mente in modo altrettanto fruttuoso, tuttavia nessun altro concetto ha più bisogno di chiarificazione  (D. Hilbert).  

Quello che segue è un tentativo di esaminare il concetto matematico di infinito affrontando la sua storia “per problemi”.

I numeri naturali

E’ a partire dai numeri naturali e dai loro rapporti che si è sviluppata nel tempo la Matematica, e per questo vale la pena di cominciare questa riflessione analizzando quale concetto di infinito è connesso con questi enti matematici

La successione crescente dei numeri naturali non ha fine, è infinita perché fissato comunque un numero naturale è sempre possibile trovare un numero maggiore di esso.

E’ una infinità inesauribile che si ottiene aggiungendo sempre ‘uno’ all’ultimo numero determinato; tale tipo di infinito potenziale viene chiamato infinito per aggiunzione. La definizione di infinito potenziale per una successione di elementi è appunto questa: è la possibilità di procedere sempre oltre senza che ci sia un elemento ultimo.  

Si osservi che un infinito pensato come un processo per successive aggiunzioni, è ciò che si pone sempre all’esterno di quello che è già stato unificato dall’intuizione. Kant chiamava “progressus in indefinitum”  l’infinito per aggiunzione che non ammette nessuna limitazione se non quella provvisoria che gli può essere assegnata ad ogni suo passo, prima di procedere al passo successivo.

Se immaginiamo di rappresentare graficamente la successione dei numeri naturali , dovremmo raffigurare una serie di punti separati (ed equidistanti) che si susseguono senza fine perché sarà sempre possibile aggiungerne ancora uno. Si tratta di una successione infinita discreta: fatto un passo è ben chiaro quale deve essere il successivo, tra due elementi consecutivi c’è uno stacco netto, c’è il “vuoto”.

“Tutto sommato”, afferma L. Lombardo Radice, “una successione infinita discreta, sempre riconducibile alla ripetizione infinita del ‘più un altro’ è un oggetto mentale di tutto riposo “; Hegel chiamava questa prima e più elementare manifestazione delll’ infinito potenziale “la cattiva o mala infinità”.

   I numeri razionali

Ma l’infinito potenziale può manifestarsi in forme meno elementari come nel caso dei numeri razionali. Infatti l’insieme dei numeri razionali non è un insieme discreto, esso è invece denso: tra due numeri razionali, per quanto vicini, ce ne sono infiniti maggiori del più piccolo e minori del più grande; ad esempio, sono infiniti i numeri razionali compresi tra 0 ed 1: sono tutte le frazioni che hanno il numeratore più piccolo del denominatore. 

Se poi consideriamo, il segmento di estremi 0 ed 1 ed associamo ogni frazione tra essi compresa ad un punto di tale segmento,  possiamo osservare che tali frazioni rappresentano infinite divisioni del suddetto segmento.

L’infinito potenziale espresso dai numeri razionali è perciò un infinito ottenuto per divisione;  la caratteristica di tale infinito, che Kant chiamava “regressus in infinitum”,  è che esso è interamente contenuto in una totalità limitata: dividendo all’infinito un segmento in parti sempre più piccole,  risulta evidente che tutti gli elementi della divisione sono in realtà già assegnati e presenti, prima ancora che la stessa divisione abbia inizio; appartenendo ad una forma limitata essi non possono sfuggire e non possono che essere ritrovati durante un processo all’infinito che inevitabilmente il raggiunge tutti.

La differenza tra “progressus in indefinitum” e “regressus in infinitum” secondo Kant sta proprio in questo: nel primo caso gli elementi vanno cercati al di fuori della totalità parziale, sempre finita, che non si cessa mai di ottenere; nel secondo essi vanno trovati in un tutto preesistente.

 La matamatica greca e l’infinito

Il concetto di infinito è stato elaborato dalla filosofia greca con valenze prevalentemente negative (come si può notare anche dalla parola che lo definisce nelle varie lingue: a-peion in greco, in-finitum in latino, un-endlich in tedesco, ecc.) ed è stato dalla stessa accettato solo come divenire, quindi come infinito potenziale rifiutando pertanto l’idea di un infinito attuale. Lo stesso Aristotele affermava che “... il numero è infinito in potenza, ma non in atto. [...] questo nostro discorso non intende sopprimere per nulla le ricerche dei matematici per il fatto che esso esclude che l’infinito per accrescimento sia tale da poter essere percorso in atto. In realtà essi, stessi allo stato presente, non sentono il bisogno dell’infinito ( e in realtà non se ne servono), ma soltanto di una quantità grande quanto essi vogliono, ma pur sempre finita [...]”.

Il rifiuto dell’infinito attuale nasce dal fatto che i greci ritenevano conoscibile solo ciò che è determinato, finito; tutto ciò che è indeterminato, infinito e perciò inconoscibile è quindi da rifiutare al punto che non solo viene respinta l’idea dell’infinito attuale, ma si accetta l’infinito potenziale solo come processo di ecceterazione, cioè come possibilità di procedere sempre oltre, un passo alla volta, ottenendo ad ogni passo quantità sempre più grandi, ma comunque finite.

Anche la matematica greca: Euclide, Pitagora, Archimede e tutti i grandi matematici di quel tempo rifiutarono ovviamente l’infinito attuale, ritenendo lecita solo la concezione dell’infinito come divenire. Su diversi fronti della matematica, tuttavia, questa concezione dell’infinito entrò in crisi, suscitando dei problemi spesso insormontabili per i matematici del tempo e creando i presupposti per il superamento della stessa, superamento che inizierà a partire dai primi decenni del seicento ad opera di Galileo Galilei.

Ci soffermiamo ora proprio su tre gandi problemi che misero in crisi i matematici greci ed il loro modo di concepire l’infinito: la scoperta dei segmenti incommensurabili, i paradossi di Zenone (prenderemo in considerazione il più famoso: Achille e la tartaruga), la rettificazione della circonferenza.

 Pitagora e i segmenti incommensurabili

Uno dei dogmi del pitagorismo era stata la concezione secondo cui l’essenza di tutte le cose, sia in geometria, sia nelle questioni pratiche e teoriche della vita umana era spiegabile in termini di arithoms, cioè di proprietà intrinseche dei numeri interi e dei loro rapporti. Essi credevano che i corpi fossero costituiti di corpuscoli tutti uguali tra loro e disposti in forme geometriche. Questa convinzione in ambito geometrico portava a ritenere che anche i punti avessero un’estensione (sia pure piccolissima). Da ciò essi deducevano che un segmento dovesse essere formato da un numero finito di punti. Pertanto il rapporto di due segmenti doveva risultare uguale al rapporto di numeri interi che esprimevano quante volte il punto era contenuto in ciascuno dei due segmenti. In altre parole essi pensavano che il punto fosse il sottomultiplo comune a tutti i segmenti; cioè che tutti i segmenti fossero tra loro commensurabili ( Def: due grandezze omogenee si dicono commensurabili quando ammettono una grandezza omogenea alle prime due che è contenuta un numero intero di volte in ciascuna di esse). 

Applicando il Teorema di Pitagora al triangolo rettangolo isoscele essi furono però costretti ad ammettere l’esistenza di grandezze incommensurabili: scoprirono infatti l’incommensurabilità della diagonale del quadrato rispetto ad un suo lato.

Detti l e d il lato e la diagonale di un quadrato supponiamo per assurdo che essi siano commensurabili cioè che il loro rapporto l/d sia esprimibile mediante una frazione p/q con p e q numeri interi.

 Per il Teorema di Pitegora è

 d2 = l2+l2     da cui     d2/l2 = 2l2/l2 = 2    ma è anche    d2/l2 = p2/q2   da cui   p2/q2 = 2   cioè

                  (*)     p2 = 2q2

 ma allora p2  è pari e contiene il fattore 2 un numero pari di volte (è elevato al quadrato), mentre  2q2  contiene il fattore 2 un numero dispari di volte (indipendentemente dal fatto che q sia pari o dispari); è quindi assurdo supporre vera la (*)  e l’assurdo nasce dall’aver supposto d e l commensurabili.

Ma se d ed l sono incommensurabili, cosa succede se si tenta di determinare il rapporto l/d?

Riportando sulla diagonale prima l, poi 1/10 l, poi 1/100 l,...    si ha:

     l<d;      1,4 l<d;     1,41 l<d;   ...

 e così via all’infinito; cioè il rapporto tra grandezze incommensurabili è espresso mediante un numero decimale illimitato aperiodico (se fosse periodico sarebbe riducibile a frazione) che viene chiamato numero irrazionale.

L’esistenza di grandezze incommensurabili e conseguentemente dei numeri irrazionali  contraddiceva non solo le convinzioni filosofiche dei pitagorici, ma metteva anche in crisi il concetto di infinito della filosofia greca; non c’è da meravigliarsi perciò del fatto che fu proibito ai membri della setta di rivelare ad altri queste scoperte considerate blasfeme e sconcertanti.

Il numero irrazionale, inoltre, sembrava contraddire la verità per cui nulla esiste se non ciò che è attuale, infatti, pur sembrando sprovvisto di un’esistenza attuale (non può essere esibito come l’insieme di “tutte” le sue cifre), esso rappresenta indubbiamente  “qualcosa”.

 Achille e la Tartaruga

Uno dei più famosi paradossi dell’infinito potenziale è quello di “Achille e la tartaruga” in cui Zenone di Elea (500 a.C.) sembra dimostrare l’impossibilità del moto.

Supponiamo che Achille sia due volte più veloce della tartaruga e che entrambi gareggino lungo un percorso di un metro. Supponiamo inoltre che Achille dia mezzo metro di vantaggio alla tartaruga.

Quando Achille avrà percorso mezzo  metro, la tartaruga si troverà più avanti di Achille di  un quarto di metro; quando Achille avrà percorso quel quarto, la tartaruga si troverà avanti di un ottavo di metro e così via all’infinito cioè Achille non raggiungerà mai la tartaruga.

Se osserviamo il percorso di Achille troviamo che esso è dato da infiniti tratti che costituiscono la successione

   1/2 ;     1/2 + 1/4 = 3/4;     3/4 + 1/8 = 7/8;     7/8 + 1/16 = 15/16;    ...    ;      (2n - 1)/2n

 ed è facile osservare che questa successione tende a 1. Vediamo così che una somma di quantità finite in un numero illimitato non è necessariamente finita.

D’altro canto i tratti di strada percorsi da Achille nel tentativo di raggiungere la tartaruga sono dati dalla succesione

    1/2;     1/4;     1/8;    1/16;   ...   ;   1/2n

 ed anche questa successione tende a 1.

Cosa significa però l’espressione “tende a 1”?

Significa che se chiamo sn  la somma dei primi n tratti percorsi da Achille allora sn , per quanto grande sia n , non supera mai 1, numero al quale si avvicina sempre di più.

Sempre più,  anzi quanto si vuole:  la differenza tra 1 ed sn , per n opportunamente grande, si fa più piccola di un qualsiasi numero per quanto piccolo da noi scelto.

E’ questa una proprietà caratteristica del Limite definito nell’Ottocento da Weierstrass.

Con la nozione matematica di limite si può dunque disporre della soluzione del paradosso infatti, pur conservando l’idea di un processo e di una potenzialità illimitata, il limite ha il potere di risolvere tale potenzialità in una unità formale.

E’ perciò possibile esprimere concretamente la soluzione finale di un processo illimitato senza rinunciare al carattere potenziale di quest’ultimo: l’inesauribilità di questo processo resta un fatto irrinunciabile, ma non per questo dobbiamo accontentarci di soluzioni approssimate. Il valore 1 è un limite che “comprende” tutta la successione  (2n  - 1)/2n , è una soluzione della potenzialità di sviluppo di tale successione, pur mantenendosi sempre al di fuori di questa.

  La rettificazione della circonferenza

Il problema della rettificazione della circonferenza, cioè di riuscire a calcolare la lunghezza della circonferenza, ha appassionato molti eminenti filosofi dell’antica Grecia, Questo problema venne risolto in modo soddisfacente e non contraddittorio rispetto alle convinzioni del tempo da Eudosso di Cnido (400 - 350 a.C.). Mediante il “suo” Metodo di esaustione egli infatti fornì il lemma che costituisce la base di tale metodo: date due grandezze aventi un certo rapporto (cioè nessuna delle quali sia zero) è possibile trovare un multiplo dell’una che superi l’altra.

I matematici precedenti avevano suggerito di risolvere il problema inscrivendo e circoscrivendo alla circonferenza dei poligoni aventi un numero di lati sempre crescente; in tal modo ogni lato si approssima sempre di più all’arco di circonferenza sotteso e il perimetro dei poligoni si approssima alla misura della circonferenza.

Nasceva però a questo punto un problema: è possibile sostenere che “alla fine“ i poligoni si identificheranno con la circonferenza e che i rispettivi lati potranno essere considerati archi “infinitesimali” della stessa?

Antifonte affermava che questo era possibile, ma così facendo confutava il concetto di infinito come infinito potenziale contraddicendo così il pensiero di Aristotele: le asserzioni di Antifonte portavano infatti a considerare la circonferenza come un poligono con un numero infinito di lati e ad accettare perciò la stessa come un infinito attuale. Aristotele ovviamente contestò le affermazioni di Antifonte: egli affermò infatti che l’insieme dei poligoni inscritti (e circoscritti) nella circonferenza è un insieme illimitato nel senso che per ogni poligono con un numero comunque elevato di lati ne esisterà un altro con un numero di lati ancor più elevato che non potrà coincidere con la circonferenza perché ammetterà dopo di se’ un ulteriore poligono con un numero di lati ancora maggiore ... riproponendo quindi il concetto di infinito come processo di ecceterazione e quindi come infinito potenziale.

Come precedentemente detto il problema della rettificazione della circonferenza poté essere risolto solo grazie al Lemma di Eudosso, mediante una reductio ad absurdum (provando che il risultato non può non essere quello, si dimostra infatti, poiché due negazioni affermano, che deve necessariamente essere quello).

Supponiamo infatti che la lunghezza C della circonferenza di raggio r non sia 2pr, ma sia un numero più piccolo cioè

                                                               (1 )        C < 2pr

Ma allora per il Lemma di Eudosso è possibile trovare un poligono inscritto nella circonferenza con un numero sufficientemente grande di lati, il perimetro del quale, certamente minore della circonferenza, ha misura maggiore di C .

Supponiamo al contrario

                                     (2 )     C  > 2pr

 ma allora è possibile, analogamente a quanto visto prima, trovare un poligono circoscritto alla circonferenza il cui perimetro è minore di C.

essendo perciò assurdo supporre sia (1 ) che (2) non resta che affermare che

                                              C = 2pr

 “Questo procedimento ineccepibile dal punto di vista logico-formale non è altro che il panno logico con il quale l’infinito potenziale nasconde le vergogne dell’infinito attuale. E’ qui evidente un problema fondamentale risolto da Cantor nell’Ottocento: è possibile solo una suddivisione del continuo in un numero quanto si voglia grande di parti, solo una infinità potenziale di suddivisioni, oppure si può pensare il continuo come una infinità in atto di componenti ultime, altissime, indivisibili?” (L. Lombardo Radice).

 Galilei e l’infinito

Il primo a mettere in discussione il concetto di infinito così come era stato elaborato dalla filosofia greca fu Galileo Galilei. Egli affermò la possibilità di ridurre un continuo limitato (ad esempio un segmento) in infiniti elementi “primi” non “quanti” (cioè senza estensione), indivisibili. Poiché infatti un segmento può essere diviso in quante si vuole parti ancora divisibili, si deve necessariamente ammettere che esso sia composto da infinite parti, ma se queste parti sono infinite allora devono necessariamente essere “non quante”, cioè prive di estensione, perché infinite parti estese hanno un’estensione infinita, mentre il segmento ha un’estensione limitata.

L’infinito in atto, allora, non può non essere pensato ed il segmento non è altro che una sua manifestazione. Un’altra espressione dell’infinito attuale è allora la circonferenza: poiché infatti è possibile “piegare” un segmento a formare un quadrato o un qualunque poligono regolare con un qualsivoglia numero di lati, allora piegandolo a formare un cerchio si può benissimo dire di “aver ridotto all’atto quelle parti infinite che prima, quando era un segmento dicevamo esser di lei contenute in potenza”. Possiamo infatti “vedere” la circonferenza come un poligono con un numero infinito di lati.

Galilei fu però anche il primo a rendersi conto dei paradossi che nascevano dall’ammettere l’infinito attuale e per questo, pur affermando con forza le sue idee sul piano filosofico, preferì essere più cauto dal punto di vista matematico, rifiutando di utilizzare gli “infiniti indivisibili non quanti” in geometria: egli elaborò infatti dei paradossi che non riuscì a risolvere e questo lo portò ad affermare che “Queste son di quelle difficoltà che derivano dal discorrer che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno a gl’infiniti, dandogli quelli attributi che noi diamo alle cose finite e terminate; il che penso che sia inconveniente...”.

I paradossi proposti da Galilei che qui consideriamo sono due: Il Paradosso dei quadrati e il Paradosso della ruota,

Il Paradosso dei quadrati:

i quadrati sono solo una parte dei numeri naturali. E’ però possibile stabilire una corrispondenza biunivoca tra N e l’insieme dei quadrati, cioè una corrispondenza nella quale ad ogni numero naturale corrisponda uno ed un solo quadrato

     1          2           3           4           5           6          7           8          ...

    |            |            |             |            |            |           |             |

    1          4           9          16         25         36        49         64         ...

 I quadrati sono perciò tanti quanti i numeri naturali e ciò significa che una parte può essere “uguale” al tutto.

Il Paradosso della ruota:

due ruote concentriche, tali che la più grande rotoli sopra una retta, toccano con i loro punti due segmenti di uguale lunghezza

  

facendo fare un giro completo alla circonferenza più grande fino a D, la più piccola arriverà al punto B. Ma   CD = AB. “Or come dunque può senza salti scorrere il cerchio minore una linea tanto maggiore della sua circonferenza...”. Anche in questo caso ciò è dovuto alla possibilità di costruire una corrispondenza biunivoca tra la circonferenza più grande e quella più piccola (e quindi tra un segmento ed una sua parte propria): basterà infatti proiettare dal comune centro i punti della circonferenza più piccola su queli della più grande. Il paradosso sta dunque nella possibilità di stabilire una corrispondenza biunivoca tra un segmento continuo e una sua parte propria.

Come si è accennato sopra Galileo non riuscì a trovare una soluzione ai suoi paradossi e questo fatto lo portò a negare, come matematico, la possibilità di indagare l’infinito: quando “siamo tra gl’infiniti e gl’indivisibili, quelli [gl’infiniti] sono incomprensibili dal nostro intelletto finito per la loro grandezza, e questi [gl’indivisibili] per la loro piccolezza”; tuttavia Galileo, come filosofo, si permise di fare delle congetture “arbitrarie e non necessarie” sulla natura dell’infinito e questo è il suo più grande merito.

 Gli infinitesimi e il calcolo infinitesimale

Un accenno, anche se breve, è opportuno fare allo sviluppo del calcolo infinitesimale (è l’infinito, l’inesauribile, quindi l’infinitamente grande che qui prendiamo in considerazione) soprattutto per ragioni di completezza.

I primi veri e propri strumenti algoritmici per il calcolo con gli infiniti e con gli infinitesimi comparvero nel Cinquecento. Tra i precursori ricordiamo Pier Antonio Cataldi che, elaborò la teoria delle frazioni continue, che, esprimendo una somma di infiniti addendi, sono il prototipo delle serie numeriche. 

Da ricordare ancora J. Keplero, che ricondusse il calcolo dell’area del cerchio alla somma delle aree degli infiniti triangoli isosceli aventi il vertice nel centro del cerchio e come base una corda infinitesima della circonferenza.

Ma soprattutto sono da menzionare i discepoli di Galilei: Cavalieri, Torricelli, Bonaventura ed altri che gettarono le basi del calcolo infinitesimale che venne sviluppato e sistematizzato da Newton e Leibniz.

Questi primi tentativi furono accompagnati da polemiche e discussioni molto accese: si mettevano in dubbio la legittimità del metodo degli indivisibili di Cavalieri, si criticava l’uso spregiudicato delle quantità infinitesime. Il problema fondamentale era la difficoltà a capire e spiegare come procedimenti fondati su basi così insicure e spesso anche contraddittorie, portassero a molti utili risultati soprattutto nella meccanica,  nella astronomia e nelle scienze sperimentali in genere.

Solo nell’Ottocento, grazie all’opera di Chauchy e di Weierstrass, si assistette ad una revisione critica dei fondamenti dell’analisi infinitesimale, la quale venne sistematizzata, raggiungendo un perfetto rigore logico, mediante l’introduzione del concetto di Limite, che permise di eliminare definitivamente l’infinito e l’infinitesimo attuali da tale teoria.

 Le sezioni di Dedekind

R. Dedekind nel 1872 affrontò e risolse come due aspetti di uno stesso problema le due grandi questioni che avevano messo in crisi l’infinito potenziale aristotelico: i numeri irrazionali e il “continuo”.

Egli si chiese che cosa caratterizzasse il continuo rispetto ai razionali.

Galilei e Leibniz avevano affermato che la “continuità” dei punti di una retta fosse dovuta alla loro densità, cioè al fatto che tra due punti qualsiasi esiste sempre un terzo punto.

Tuttavia anche i numeri razionali godono di questa proprietà, ma non formano un continuo; non è possibile cioè costruire una corrispondenza biunivoca tra i punti di una retta e i numeri razionali: infatti si fissi sulla retta r un punto O ed una unità di misura u e si faccia corrispondere ad un numero razionale a il punto P della retta la cui distanza da O sia individuata dal segmento di lunghezza a.

                                                                                      

 Si crea così una corrispondenza tra i punti della retta ed i numeri razionali; tale corrispondenza, però, non è biunivoca perché ad infiniti punti della retta non corrisponde alcun numero razionale come nel caso del punto Q del seguente disegno la cui distanza da O è pari alla lunghezza della diagonale del quadrato di lato 1, che come è noto, è  radice quadrata di 2

 

 

     

Per risolvere i due aspetti di questo problema, cioè dare una definizione di continuità e “scoprire” i numeri “mancanti” per creare una corrispondenza biunivoca con la retta, Dedekind procedette nel seguente modo:

1.   fissò assiomaticamente una proprietà che caratterizzasse la continuità della retta;

2.   definì i numeri “reali” in modo da poter costruire una biiezione tra una retta e tali numeri.

Relativamente al primo problema Dedekind stabilì che l’essenza della continuità non sta tanto nella densità dei suoi punti, quanto in una proprietà esattamente contraria, cioè nella particolare natura della divisione di un segmenti in due parti mediante un punto giacente su di esso: in qualsiasi divisione di un segmento (o di una retta) in due classi tali che ciascun punto appartenga ad una ed una sola classe e che  ogni punto della prima classe si trova a sinistra di ciascun punto dell’altra, c’è uno ed un solo punto che determina la divisione.

Il secondo problema fu risolto osservando che ogni numero razionale x individua analogamente una “sezione” del corpo razionale, individua cioè una coppia di classi A1 , A2  tali che ogni numero di A1 è minore di ciascun numero di A2, mentre x è il più grande numero di A1 o il più piccolo di A2; esso risulta comunque univocamente determinato dalla coppia (A1, A2) per cui si può dire che x sia la coppia (A1, A2).

Ma non sempre una coppia (A1, A2) che sia una sezione dei razionali può individuare un numero razionale, così come ad una sezione (cioè ad un punto) della retta non sempre corrisponde un razionale (è il caso del punto Q dell’esempio precedente); ogni volta che ciò accade, allora, è legittimo, pensò Dedekind, “creare” un nuovo numero y che corrisponda alla coppia (A1, A2), cioè che sia esso stesso la coppia (A1, A2). Tale numero è un irrazionale.

La proprietà di continuità del corpo reale (razionali e irrazionali), risulta così collegata alla continuità della retta e tuttavia la definizione di numero reale, e in particolare di numero irrazionale, è del tutto “sganciata”  da una eventuale rappresentazione geometrica; è proprio questo che conferisce agli irrazionali “dignità” di numero: il fatto che la loro esistenza prescinda da una qualsiasi visualizzazione geomerica.

“Tuttavia l’irrazionale non è un infinito attuale in senso categorico, esso è piuttosto l’invisibile soluzione di un processo illimitato e teleologicamente ordinato. E’ perciò opportuno vedere nella ‘sezione’ di Dedekind non tanto un ‘taglio’ che indichi una effettiva locazione del numero, quanto piuttosto una approssimazione successiva a due limiti tra loro adiacenti della classe inferiore A1 e della classe superiore A2  ed è perlomeno discutibile, in linea di principio, configurarsi il limite di tale processo come un’entità realmente osservabile, quale potrebbe apparire un punto geometrico: il numero irrazionale è lo stesso processo” (P.Zellini).

 Cantor e i paradossi dell’infinito attuale

“Chiamiamo equivalenti due insiemi  M ed N, se è possibile porli in una relazione tale che ad ogni elemento di uno di essi corrisponda un elemento e uno soltanto dell’altro”.

Questa definizione di equivalenza, o, come si dice oggi, di equipotenza, è nella sua semplicità ed apparente banalità, una grande scoperta infatti grazie a  questa definizione,

estesa da Cantor anche agli insiemi infiniti, fu possibile risolvere i paradossi che avevano fermato Galilei.

Primo Paradosso: una parte può essere uguale al tutto purché non vi siano ambiguità nel significato che si dà alla parola ‘uguale’: se per uguale infatti si intende identico (per colore, per forma,...) allora certamente una parte non potrà mai essere uguale al tutto, perché il tutto contiene necessariamente qualche elemento che nella parte, proprio perchè parte, non sta. Ma se per uguale si intende equipotente nel senso della definizione di Cantor sopra riportata, cioè uguale per numero, allora questo è possibile. E’ possibile perciò che una parte sia uguale per numero al tutto, ma solo nel caso che gli insiemi siano infiniti: questa è infatti una caratteristica degli insiemi infiniti.

“Definizione: Un sistema S si chiama infinito se è equipotente ad una sua parte propria; nel caso opposto si chiama finito”. Questa definizione apparsa nel quinto paragrafo del libro Il finito e l’infinito di Dedekind, capovolge un modo di pensare millenario: si era sempre definito l’infinito a partire dal finito, come non-finito; ora invece è il finito ad essere non-infinito.

Secondo Paradosso: i punti dello spazio sono tanti quanti quelli di un segmento piccolo a piacere.

Dimostramo questa affermazione in tre momenti:

1. Un quadrato di lato unitario ha tanti punti quanti un suo lato.Si tratta di costruire una corrispondenza biunivoca tra i punti del quadrato e i punti di un suo lato.Su un sistema di riferimento cartesiano sia Q un quadrato di vertici (0,0); (0,1); (1,1), (1,0)

 

 un punto P del quadrato avrà coordinate (x, y) dove x e y sono misure di segmenti non maggiori del lato; essi sono perciò numeri compresi tra 0 e 1 e possono essere scritti in forma decimale:

                        x = 0,a1a2a3...                      y = 0,b1b2b3...        

 dove ai  e bi sono cifre comprese tra 0 e 9 (ad esempio 0,97563...); ci sono allora due possibilità:

·      x e  y  sono numeri razionali (cioè numeri decimali con parte decimale finita o periodica)

·      x e y sono numeri irrazionali (cioè numeri decimali con parte decimale infinita, aperiodica).

Alla coppia ordinata (x, y), che identifica univocamente il punto P, si può far corrispondre il numero reale compreso tra 0 e 1

                            t = 0,a1b1a2b2a3b3...

 che identifica univocamente un punto del lato del quadrato.Viceversa ad un qualunque punto del lato cui corrisponde univocamente il numero

                           t = 0,t1t2t3t4t5t6...

 si può far corrispondere la coppia ordinata

                       x = 0,t1t3t5...                        y = 0,t2t4t6... 

che individua un punto del quadrato.
La corrispondenza biunivoca tra punti del quadrato e punti di un suo lato è così costruita e l’affermazione iniziale è perciò dimostrata.

 

2. Un cubo di lato unitario ha tanti punti quanti un suo lato.

 

 

Analogamente a quanto visto sopra ad un punto P del cubo corrisponde una terna di punti (x, y, z) con x, y e z compresi tra 0 e1. Siano perciò

 

            x = 0,a1a2a3...                 y = 0,b1b2b3...                 z = 0,c1c2c3...

 

si può allora far corrispondere ad essi il punto

 

                          t = 0,a1b1c1a2b2c2a3b3c3...

 

anche esso compreso tra 0 e1. Viceversa al punto

 

                           t = 0,t1t2t3t4t5t6...

 

si può far corrispondere il punto del cubo di coordinate

 

         x = 0,t1t4...                  y  = 0,t2t5...                  z = 0,t3t6...

 

ed anche in questo caso si è costruita una corrispondenza biunivoca tra tutto il cubo ed un suo lato.

3. Lo spazio ha tanti punti quanti un segmento piccolo a piacere.

Basterà pensare di ingrandire il cubo fino a fargli invadere tutto lo spazio. D’altra parte il suo lato, che “è diventato” una retta, contiene tanti punti quanti un segmento piccolo a piacere come fa vedere, meglio di una lunga spiegazione, la figura:

 

 

Conseguenza sorprendente di queste affermazioni è che la dimensionalità non costituisce un criterio per stabilire la potenza di un insieme (infatti segmento, quadrato, cubo, spazio sono tutti equipotenti).

 

 I numeri transfiniti

“Dopo Kant ha acquistato cittadinanza tra i filisofi la falsa idea che il limite ideale del finito sia l’assoluto, mentre in verità tale limite può venir pensato solo come transfinito [...] e precisamente come il minimo di tutti i transfiniti...” (G. Cantor 1885).

L’idea dominante fino a Cantor era stata infatti che se l’infinito esiste allora è unico, è l’assoluto oltre il quale non si può andare. Cantor dimostrò invece che esistono infiniti più grandi e infiniti più piccoli.

Si chiami numerabile ogni insieme che possa essere messo in corrispondenza biunivoca con l’insieme dei numeri naturali N, cioè equipotente ad N, e potenza del numerabile o X 0  tale numero cardinale infinito.

Cantor dimostrò con estrema semplicità due fatti apparentemente straordinari e cioè che i numeri interi (...-3, -2, -1, 0, 1, 2, 3, ...)  e i numeri razionali sono insiemi numerabili.

1. I numeri interi sono un insieme numerabile.

L’affermazione sarà provata se si riuscirà a costruire una corrispondenza biunivoca tra N e Z (= insieme degli interi).

Per fare ciò basterà ordinare gli elementi di Z in modo opportuno (non necessariamente corrispondente a quello naturale):

 

                0     1     -1      2      -2       3       -3       ...

 

la corrispondenza biunivoca con N è presto fatta:

 

                 0          1          2          3          4          5          6         ...

                  |           |           |            |           |            |           |

                 0          1         -1          2         -2         3          -3        ...

 

2. I numeri razionali sono un insieme numerabile.

Anche in questo caso basterà ordinare i razionali in modo “adeguato”, tenendo conto tra l’altro che non esiste un ordinamento naturale, cioè secondo grandezza, per le frazioni visto che tra due razionali se ne può sempre trovare un altro. Converrà ordinare quindi le frazioni nel senso della freccia:

 

 

Si potrà ora costruire una corrispondenza biunivoca tra Q (l’insieme dei razionali) ed N nel modo seguente:

 

                             1           2           3           4           5           ...

                             |            |             |             |            |

                            1/1        2/1        1/2        1/3        2/2         ...

 

Gia da questi esempi si può vedere come molti insiemi che sembrano più grandi dei numeri naturali sono in realtà numerabili, ma non ogni insieme infinito è numerabile.

Dimostrando quest’ultima affermazione il 12 Dicembre 1873 Cantor fece fare un passo avanti al pensiero matematico e filosofico e provò l’esistenza dell’infinito attuale transfinito, sempre accrescibile, non assoluto.

Infatti l’insieme dei punti di un segmento non è numerabile:

si supponga per assurdo che i numeri reali compresi tra 0 e 1 (cioè il segmento di estremi 0 e 1) siano numerabili; essi potranno allora essere espressi come numeri decimali e potranno essere ordinati secondo l’ordine numerabile:

 

                      a1 = 0,a11a12a13...

                      a2 = 0,a21a22a23...

                      ...

 

ma allora il numero

 

                      b = 0,b1b2b3...

 

tale che

            bk = 9    se    akk =1          e                  bk = 1    se    akk >< 1  

è diverso da tutti quelli elencati ed è compreso tra 0 e 1, contro l’ipotesi di aver elencato tutti i numeri reali tra 0 e 1.

Conseguenza di ciò è che i punti di un segmento sono più dei naturali, cioè più di X0 . essi saranno X1 (con X0 < X1) ed X1 si chiamerà potenza del continuo.

“Questa dimostrazione appare degna di nota non solo a causa della sua grande semplicità, ma, specificatamente, anche perché il principio in essa seguito si lascia senz’altro estendere al Teorema generale, che le potenze di insiemi ben definiti non abbia alcun massimo, ossia, il che è lo stesso, che ad ogni insieme dato L può essere messo a fianco un altro indieme M di potenza maggiore di L” (G. Cantor).

Prima di affrontare la dimostrazione del Teorema generale di cui parla Cantor, è opportuno ricordare il seguente teorema:

dato un insieme A di n elementi, tale cioè che

 

                                  | A | = n

 

l’insieme delle sue parti, ossia l’insieme i cui elementi sono i sottinsiemi di A, in simboli P(A), avrà 2n elementi, cioè

 

                                  |P(A)| = 2n

                                                                                                            n

Conseguenza di ciò è che l’insieme delle parti di P(A) avrà allora 22  elementi e così via.

E’ questo dunque il metodo per costruire insiemi di potenza via via crescente all’infinito: partendo dai numeri naturali avremo:

                                                                                         X0

          |N| = X0               |P(N)| = 2X0             |P(PN))| = 22          ...

 

Cantor riuscì così a dimostrare l’esistenza di infiniti numeri transfiniti maggiori di X0.

Egli dimostrò inoltre che 2X0 = X1, cioè che la potenza del continuo ha la stessa cardinalità dell’insieme delle parti di N.

Cantor ipotizzò, ma non riuscì a dimostrarlo, che il continuo è la potenza immediatamente successiva al numerabile (ipotesi del continuo).

 

Le Antinomie

La Teoria di Cantor fece esplodere nuove, clamorose antinomie. Se ne prendono qui in considerazione due: l’antinomia di Russel e l’antinomia di Cantor.

1. Antinomia di Russel:

Alcuni insiemi sono elementi di se stessi, altri non lo sono: l’insieme di tutti gli insiemi con più di 10 elementi è elemento di se stesso, mentre l’insieme di tutti i libri non è elemento di se stesso (non è un libro).

Consideriamo ora l’insieme di tutti gli insiemi che non sono elementi di se stessi. Se esso è un elemento di se stesso, allora non è un elemento di se stesso. Se non lo è, lo è.

Questa antinomia venne accolta con costernazione dal Frege in quanto dimostrava erronea l’ “ipotesi fondamentale” su cui egli intendeva costruire l’aritmetica ( i suoi “Fondamenti dell’aritmetica” basati su tale ipotesi erano già in bozze quando Russel gli comunicò la sua scoperta). Tale “ipotesi fondamentale” può essere così formulata: ogni proprietà definisce l’insieme degli elementi che la verificano (cioè la sua estensione).

L’Antinomia si riferisce all’uso della parola “tutti” come possibilità di costruire, in generale, l’insieme “estensione” di una proprietà.

 

2. Antionmia di Cantor o della classe totale:

Si consideri la totalità degli insiemi, la “classe totale” A, che potremo chiamare l’insieme di tutti gli insiemi. Sia allora P(A) l’insieme delle parti di A. Per quanto precedentemente visto P(A) dovrebbe avere potenza maggiore di A, ma essendo A l’insieme di tutti gli insiemi, esso contiene P(A) come suo elemento, quindi P(A) dovrebbe avere cardinalità non maggiore di A.

Queste Antinomie determinarono una crisi dei fondamenti della Matematica che scosse il mondo matematico al’’inizio del secolo e determinò la nascita di diverse concezioni circa la natura della Matematica:

·      gli Intuizionisti (uno dei maggiori esponenti di questa corrente di pensiero fu Brower) accettarono come vero esclusivamente il Postulato ristretto della Matematica, cioè l’esistenza della successione infinita dei numeri naturali e tutto ciò che da essa conseguiva; rifiutarono il Principio del terzo escluso affermando che una proposizione può essere ne’ vera ne’ falsa, cioè indecidibile e, conseguentemente, negarono valore alle dimostrazioni per assurdo: affermare perciò che esiste un oggetto dotato di certe proprietà significa che c’è un metodo riconosciuto che permette di trovare o di costruire tale oggetto mediante un numero finito di passi

·      i Formalisti (il fondatore di questa scuola di pensiero fu Hilbert) partirono dall’idea che esistenza in Matematica significa coerenza, cioè non contraddizione e poiché la coerenza delle teorie più complesse si riconduceva alla coerenza dell’aritmetica, concentrarono i loro sforzi nel tentativo di formalizzare completamente l’aritmetica. Alcuni svilupparono tale posizione fino alle estreme conseguenze, giungendo alla conclusione che la Matematica non è altro che un gioco privo di significato in cui si gioca concontrassegni privi di significato secondo delle regole formali concordate in partenza

·      i Logicisti (un esponente di rilievo fu Russel) che tentarono di formalizzare la Matematica con la Logica: essi affermavano che i numeri interi sono sufficienti a descrivere i risultati dell’Analisi, ma essi sono stati a loro volta descritti nella Ligica Simbolica di Peano la quale forniva, a loro giudizio, un tessuto logico primario che sembrava avvalorare dall’esterno (al di fuori della Matematica) la Matematica stessa.

Nel 1931 Godel dimostrò tuttavia che la Matematica mostrava comunque delle “aperture”, delle allusioni ad “altro” rispetto a ciò che essa sarebbe in ogni caso riuscita ad esprimere, infrangendo così i sogni dei formalisti che speravano di costruire un mondo chiuso ed esauriente di segni, un sistema formale completo; in altre parole Godel provò che all’interno del sistema esistono certe asserzioni ben precise che non possono essere ne’ dimostrate, ne’ invalidate nell’ambito degli assiomi del sistema; perciò, usando i metodi convenzionali, non si può essere certi che gli assiomi dell’aritmetica non portino a contraddizioni.

Nel 1964 Paul Cohen costruì un sistema formale che verifica tutti gli assiomi “ordinari” e nel quale però l’Assioma del Continuo di Cantor è rifiutata, dimostrando così che è possibile costruire tanto una “Matematica cantoriana” quanto una “Matematica non cantoriana” analogamente a quanto era avvenuto in Geometria un secolo prima con la nascita delle Geometrie non euclidee (che rifiutavano tra i loro assiomi il V Postulato di Euclide).

Nasce così il Metodo Assiomatico moderno che non è soltanto deduttivo (si assumono come verità primitive evidenti alcune proprietà fondamentali, chiamate “postulati” o “assiomi”, dalle quali si deducono nuove proprietà), ma è ipotetico-deduttivo: gli assiomi non sono più verità primitive indimostrabili, ma semplici ipotesi relative ad enti del pensiero non definiti perciò, se si considerano enti concreti che verificano le proprietà espresse dagli assiomi, allora valgono anche le proprietà espresse dai teoremi dedotti da questi per via strettamente logica. Ad ogni interpretazione degli enti primitivi corrisponde un modello (concreto) della teoria assiomatica (di per se’ astratta, formale).

Se l’assunzione del metodo assiomatico moderno comporta la perdita dell’unità: non esiste più la Matematica, ma esistono le Matematiche (come non c’è più la Geometria, ma le Geometrie), apre d’altro canto nuovi vastissimi campi di ricerca e quindi nuove prospettive di progresso sia del pensiero matematico che, conseguentemente, del pensiero scientifico e ed pensiero umano in generale.

a cura di: Maria Chiara Giacomucci

Bibliografia

L. Lombardo Radice      “L’infinito”       Ed Riuniti
P. Zellini        “Breve storia dell’infinito”      Ed. Adelphi
B. Russel       “Introduzione alla filosofia matematica”  
C. B. Boyer     “Storia della matematica”      Ed. Mondadori


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