Alessandro Manzoni

 

Scrittore italiano, Milano 1785-1873. Nato dall'irrequieta e spregiudicata Giulia Beccaria, figlia del celebre autore del trattato Dei delitti e delle pene, Ebbe quasi certamente come padre naturale Giovanni Verri, ma fu riconosciuto da Pietro Manzoni, un mediocre gentiluomo campagnolo che, a 49 anni, aveva sposato la ventitreenne Giulia: un matrimonio infelice, conclusosi, nel 1792, con la separazione legale. Traumatizzata dall'abbandono della madre, l'infanzia di Alessandro si svolse nella segregazione dei collegi, presso i somaschi, a Merate e a Lugano, e presso i barnabiti, al Longone di Milano, dai quali uscì con un'ottima educazione classica e con ferventi spiriti anticlericali e giacobini. Del 1801 è un poemetto di gusto montiano, Il trionfo della libertà, dove il sedicenne Manzoni celebra la recente rivoluzione, trionfatrice sui mostri della Tirannia e della Superstizione; seguiranno, con altre poesie minori, l'elegante idillio Adda, 1803 e i quattro Sermoni, 1803-04, di ispirazione oraziana, con echi di G. Parini, V. Alfieri e G. Gozzi. L'amicizia con V. Cuomo aveva intanto avviato alla conoscenza di G.B. Vico il giovane Manzoni, distogliendolo dalle idee giacobine. Nel 1805 morì Carlo Imbonati, lasciando erede delle proprie sostanze Giulia Beccaria, che conviveva con lui a Parigi: Alessandro raggiunse nella capitale francese la madre e, per difenderla dalle maldicenze dei bempensanti, compose il carme In morte di Carlo Imbonati, 1805-06, il testo più significativo della sua preistoria poetica, gia improntato al culto della riflessione "sentir e meditar" e al "santo vero". A Parigi Manzoni frequentò gli "ideologi" P.J.G. Cabanis, A.L.C. Destutt de Tracy, D.J. Garat, ultimi esponenti della fervida stagione illuministica, e strinse una salda amicizia con lo storico C. Fauriel, sebbene più anziano di lui, testimoniando così ancora una volta una inconscia ricerca del padre. Nel 1808 Manzoni scandalizzò la più gretta società ambrosiana sposando, lui aristocratico e di famiglia cattolica, la borghese calvinista Enrichetta Blondel: il matrimonio fu celebrato con il rito evangelico, ma, quando nacque la primogenita Giulia, questa ricevette il battesimo secondo il rito cattolico. Desiderosa di conoscere la religione nella quale sarebbe stata educata la figlia, Enrichetta si affidò alla guida dell'abate giansenista E. Degola e finì con l'abiurare il calvinismo per abbracciare il cattolicesimo. Nel 1810 il matrimonio fu ricelebrato secondo il rito cattolico, coronando la conversione di Manzoni, che si colloca sotto il segno dell'"illuminazione" di tipo pascaliano, avvenuta, secondo voci non rifiutate dallo scrittore, per una improvvisa folgorazione nella chiesa di San Rocco, a Parigi (o in seguito alla crisi di agorafobia per aver smarrito la moglie tra la folla parigina in festa, in occasione delle nozze di Napoleone con Maria Luisa: episodio arbitrariamente collegato al precedente dalla leggenda manzoniana), anche se, in uno spirito pensoso come quello del Manzoni, lungo era stato il travaglio riflessivo che l'aveva portato alla fede. Congedatosi dal neoclassicismo con il poemetto Urania, 1809 e ritornato a Milano, Manzoni compose i primi quattro Inni sacri, La Resurrezione, 1812; Il nome di Maria, 1812-13; Il Natale, 1813; La Passione, 1814-15; ispirate dal proposito di realizzare una poesia oggettiva e corale, aliena dal soggettivismo della tradizione petrarchesca, tali composizioni risentono, nel tono enfatico, dell'entusiasmo del neofita, e mostrano una eccessiva soggezione al linguaggio biblico e una mancata unità tra le parti storiche e quelle meditative e celebrative. La caduta di Napoleone nel 1814 e l'avventura militare di Gioacchino Murat nel 1815 ispirano, rispettivamente, Aprile 1814 e Il proclama di Rimini: due canzoni incompiute che esprimono la delusione politica di Manzoni, trasformatasi, nel 1817, in vera e propria crisi in seguito all'alleanza di Trono e Altare, stretta dalla Chiesa con le monarchie assolute all'inizio della Restaurazione. Di tale crisi portano il segno le prime due redazioni, 1817 e 1819, della Pentecoste, inno civile in forma sacra, teso a ricordare alle autorità ecclesiastiche che la lotta dei popoli per la libertà è una lotta essenzialmente religiosa. La stessa persuasione libertaria, ricondotta alla legge divina, che condanna i tiranni e gli usurpatori, anima l'ode Marzo 1821, scritta nel 1821 e pubblicata nel 1848, che si risolve in un nobile, anche se enfatico, appello alla libertà di tutti i popoli, contro il sistema della Santa alleanza. Manzoni, intanto, accoglie nella sua casa personalità della cultura romantica come E. Visconti, T. Grossi, G. Berchet e C. Porta, ed esprime la sua approvazione alle dottrine degli scrittori del "Conciliatore", diventando così il caposcuola del romanticismo italiano. E siccome è centrale, nella poetica romantica, la questione del genere tragico, Manzoni la affronta lavorando, dal 1816 al 1819, al Conte di Carmagnola, 1820. Il teatro manzoniano costituisce una novità assoluta nel quadro della cultura ottocentesca, perché ignora i melodrammi amorosi, tipici del gusto del tempo, sulla base di una condanna dell'immoralità della tragedia classica, trasmessa a Manzoni dai moralisti francesi del "gran secolo", J.B. Bossuet, P. Nicole e anche da J.J. Rousseau; tale immoralità dipende inoltre, secondo Manzoni, dalla fedeltà alle unità pseudo-aristoteliche di tempo e di luogo, che coinvolgono direttamente lo spettatore, indotto a consentire alle passioni portate sulla scena. Affrancarsi dalle regole classicistiche del "tempo" e del "luogo" significa, per Manzoni, consentire allo spettatore di essere giudice più che complice dell'azione: un obiettivo che si può raggiungere con una tragedia cristiana e storica, centrata sul dolore incolpevole dell'uomo giusto, sul modello di Cristo. Un eroe innocente è appunto il Carmagnola, ingiustamente condannato dal Senato veneziano, che è l'evidente simbolo del potere dispotico della Restaurazione; ma molto più convincente artisticamente è, nella tragedia, la figura del senatore Marco, amleticamente scisso tra l'amicizia verso il Carmagnola e la fedeltà alla "ragion di Stato", e pessimisticamente convinto, alla fine, che qualsiasi scelta si risolverà in colpa. Un pessimismo giansenistico (derivazione dal movimento religioso ereticale che affermava l'assoluta necessità della grazia per la salvezza, concessa da Dio solo ad alcuni eletti) pervade dunque il Carmagnola, indebolito però dalla manichea contrapposizione del bene al male e dal linguaggio ibrido, che mescola espressioni familiari a costrutti aulici; è tuttavia notevole il "coro"  (inteso dall'autore come "cantuccio", in cui egli può esprimere un personale commento all'azione rappresentata): condannando la battaglia fraticida di Maclodio, Manzoni esalta la fratellanza cristiana tra gli uomini, in un ritmo incalzante che ha la suggestione degli squilli di tromba di un melodramma di G. Verdi. Ai grandi moralisti francesi Manzoni ritorna scrivendo, nel 1819, le Osservazioni sulla morale cattolica, per confutare le accuse rivolte dal ginevrino J.C.L. Sismondi alla Chiesa cattolica come responsabile di aver ritardato l'unificazione politica italiana: trasferendo la polemica dal piano storico a quello morale, Manzoni si limita a un'apologia del cattolicesimo priva di vigore speculativo, ma, in compenso, enuncia chiaramente il principio di una fede non contrapposta alla ragione e non in contrasto con l'eredità dell'illuminismo. Alla cultura francese Manzoni attinge ancora in occasione del suo secondo soggiorno parigino, 1818 - 20, che gli consente di riprendere il dialogo con Fauriel e di accostarsi ad altri storici liberali come J.N.A. Thierry, L.A. Thiers, V. Cousin; a Parigi, Manzoni scrive la celebra Lettre à Monsieur Chauvet sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie, 1820, Lettera a Monsieur Chauvet sull'unità di tempo e di luogo nella tragedia, pubblicata nel 1823, suo capolavoro critico; respingendo le censure al Carmagnola del critico francese J.V. Chauvet, che ne attribuiva i difetti all'abbandono delle regole classiche, Manzoni esamina acutamente il rapporto tra storia e poesia, assegnando a quest'ultima, come oggetto, il vero storico e differenziandola dalla storia per la sua peculiare funzione di "divinare" le più segrete passioni che si agitano dentro il cuore dei personaggi. A Parigi, Manzoni cominciò a lavorare a una tragedia medievale ispirata agli studi di Thierry sull'antagonismo tra oppressori e oppressi, ripensato in chiave attualizzante (il rapporto tra Lombardi e Austriaci):  il progetto si concretò a Milano, nel 1820, con la stesura dell'Adelchi, terminato nel 1822. Sullo sfondo dell'Adelchi è il dramma corale di un "volgo disperso", deluso nell'attesa di un liberatore straniero: uno stato di abiezione che trova espressione nell'altissimo pathos del coro"Dagli atri muscosi, dai fori cadenti", dove si avverte la cupa atmosfera dell'oppressione politica seguita al fallimento dei moti del 1820-21. Ma i protagonisti della tragedia non sono degli umili: sia Carlo e Desiderio, campioni della "ragion di Stato", sia Adelchi ed Ermengarda, incolpevoli vittime di un sistema di violenza, appartengono a una casta aristocratica e guerriera; e non sono umili nemmeno il diacono Martino, che è quasi un profeta biblico, e il soldato Svarto, che è un eroe machiavellico, teso a uscire dall'anonimato per entrare nel mondo dei potenti. Tragedia di personaggi d'eccezione, l'Adelchi esprime una esplicita condanna nei confronti di una società iniqua, come quella della Restaurazione, regolata anch'essa da una "feroce forza" che "fa nomarsi dritto", cioè da un potere assoluto inteso come dominio prevaricatore sui deboli: eroe dell'inazione, Adelchi comprende, in punto di morte, la machiavellica legge secondo cui "non resta che far torto o patirlo" e si congeda malinconicamente dalla politica e dalla storia; e l'esortazione del suo fedele scudiero Anfrido "soffri e sii grande", in segreta affinità con il pessimismo leopardiano, condensa epigraficamente il nucleo ispiratore dell'opera. Una tragedia nella tragedia è, infine, il dramma di Ermengarda, che, in un linguaggio passionale ricco di echi di J. Racine, confessa, nel celebre delirio, l'intensità del suo amore inappagato, congiungendo in un nodo inestricabile misticismo e sensualità e che annuncia, nello stupendo coro "Sparsa le trecce morbide", il messaggio della "provvida sventura", cioè di un dolore inteso come mezzo arcano e imperscrutabile della Provvidenza. Il Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia, che correda l'Adelchi, non è un'aggiunta erudita alla lettura della tragedia: percorso da una ammirazione, di affiato vichiano, per il vitalismo dei barbari, esso si collega alle Osservazioni nella difesa del ruolo storico di mediazione del papato, scagionato così dall'accusa di aver ostacolato l'unità politica italiana. A G.Vico si riconduce anche la visione della storia secondo la logica superiore della "Provvidenza" che pervade il Cinque maggio, 1821: non un'ode civile, come si è a lungo pensato in riferimento agli scorci potenti e alle sintesi folgoranti con cui è rievocata la grandezza di Napoleone, ma un vero e proprio "inno sacro", il cui supremo protagonista è Dio, trionfatore nei cuori degli uomini; trova così piena applicazione, in questo capolavoro poetico (influenzato dalle suggestive orazioni funebri di J.B. Bossuet), la teoria manzoniana della poesia dotata di una forza di penetrazione nei drammi intimi della coscienza che sono preclusi agli storici di professione. Alla visione biblica del Dio "che atterra e suscita" del Cinque maggio subentra, nella redazione ultima della Pentecoste, 1822, la visione evangelica e paolina di un Dio-amore e di uno spazio liturgico che abbraccia tutta l'umanità, rifondando la società sulla libertà morale del cristianesimo, che prende il posto della libertà politica sostenuta nelle due prime redazioni dell'inno. Tra il 1821 e il 1823, dopo aver rinunciato a una terza tragedia, Spartaco, Manzoni lavora fervidamente al Fermo e Lucia, che è considerato ormai dalla critica più recente, più che l'abbozzo del capolavoro, un'esperienza narrativa autonoma. Suggerito all'autore dalla lettura della secentesca Storia patria del canonico G. Ripamonti e dell'opera di M., Gioia Sul commercio dei commestibili, nonché dalla suggestione dell'Ivanhoe di W. Scott (con il netto rifiuto, però, da parte di Manzoni, degli elementi pittoreschi, tipici nel romanziere scozzese), il Fermo e Lucia prende lo spunto dalla vicenda di un matrimonio impedito di due operai brianzoli per descrivere le storture del potere feudale nella campagna e di quello spagnolo a Milano: rispetto ai Promessi sposi, Manzoni si mostra, in questa prima stesura del romanzo, molto più partecipe delle ragioni dei poveri, e rappresenta i loro persecutori in una luce più sinistra e i loro difensori ( a cominciare da fra Cristoforo) in atteggiamento molto più risentito e combattivo. Se gli umili, come Fermo e Agnese, sono personaggi più grezzi di quel che saranno il Renzo e l'Agnese dei Promessi sposi, è pur vero che i due "romanzi nel romanzo", la storia della Monaca di Monza e quella del Conte del Sagrato, rivelano una ispirazione di scrittore tragico che non arretra dinanzi al tema del male e del peccato, fino agli abissi della perversione e dell'orrore. Manca però l'unità tra le varie parti, eccessiva è l'ampiezza delle parti storiche e troppo ibrida è la lingua. Accanto al Fermo, si svolge pertanto, oltre a nuovi studi di poetica ( Lettera sul romanticismo, 1823), un'attenta riflessione sul problema linguistico, e la conseguente decisione di riscrivere il romanzo, che Manzoni pensò dapprima di intitolare Gli sposi promessi, e che poi pubblicò con il titolo più dimesso de I promessi sposi, dal 1825 al 1827: la seconda stesura o "ventisettanta", eliminati i difetti strutturali del Fermo e Lucia, segna il passaggio, sul piano linguistico, dal milanese al toscano; ma è un toscano ancora molto letterario e libresco: di qui la famosa "risciacquatura in Arno", in occasione di un soggiorno a Firenze nel 1827, e l'inizio di una terza fase di elaborazione del romanzo, che porterà all'edizione definitiva del 1840. Rispetto a Fermo e Lucia, i Promessi sposi si differenziano notevolmente, soprattutto per la diversa conclusione: mentre il primo romanzo si chiudeva con un generico riferimento al piccolo benessere raggiunto, in terra veneta, dai due protagonisti, i Promessi sposi continuano il discorso, narrando come l'operaio Renzo diventi piccolo imprenditore ed esprima il proprio nuovo credo politico, dichiarando di aver imparato a non mettersi nei tumulti e a non predicare in piazza. Questo "sugo di tutta la storia" permette di riconoscere il vero asse del romanzo nella descrizione del crollo della vecchia società feudale ( don Rodrigo e l'Innominato prima della conversione ), sulle cui macerie è ipotizzata una nuova società borghese di tipo liberal-cattolico, da costruire senza violenza e senza il contributo delle masse popolari, che devono essere guidate dalla missione evangelica della Chiesa, mediatrice tra le classi sociali; il compito di rendere più umano il potere e di indurre le classi subalterne a rinunciare a farsi giustizia da sole è affidato a un religioso scalzo come fra Cristoforo e a un principe della Chiesa come Federigo Borromeo, mentre il peso dell'ironia o della condanna si abbatte sui religiosi deboli ( don Abbondio, suor Gertrude ) e una durissima polemica, anche se non esplicita, è condotta contro il conformismo reazionario dei gesuiti. Un altro elemento, assente nel primo romanzo, è il fattore economico: Manzoni applica fedelmente, nella descrizione della carestia, i principi della dottrina liberista del libero scambio, facendosi portavoce, anche per tal via, degli interessi della nuova borghesia ottocentesca. Dove invece Manzoni supera ogni limite di classe, è nella descrizione della peste, perché qui l'eguaglianza sociale, temuta dall'autore, cede il passo all'eguaglianza di tutti in quanto mortali: ne nasce quella religiosa "poesia della morte" in cui Manzoni è sempre grandissimo. In questa chiave interpretativa, è centrale la figura di Renzo, per il suo calarsi negli inferi di una Milano del malgoverno e della sommossa, poi della peste bubbonica: Renzo, infatti, è "il personaggio che impara nel viaggio" (S. Nigro), che entra nella storia, mentre Lucia esprime un intransigente rifiuto a ogni tentazione di agire sul piano storico (si veda l'episodio del matrimonio forzato), confidando esclusivamente nella forza della sua fede. E la fede di Lucia rispecchia quella drammatica, di timbro pascaliano, di Manzoni, messa alla prova da gravi lutti (per la morte di Enrichetta, nel 1833, e ne nacquero gli stupendi frammenti del Natale del 1833, e della primogenita Giulia nel 1834) in quel decennio 1830-40 che, non a caso, vide la fine dell'attività creativa, anche se numerosi furono gli scritti di altro genere: il discorso Del romanzo storico (avviato nel 1830 e pubblicato nel 1845), dove, pur negando la possibilità di "componimenti misti di storia e di invenzione", Manzoni compie un sensibile passo in avanti, prima di F. De Sanctis, verso la conquista dell'autonomia dell'arte; la lettera al Coen, 1832, dove il commercio è significativamente definito un'attività più utile della letteratura; il Sentir messa, 1836, dove si propone, per risolvere l'annosa questione della lingua, l'uso vivo di Firenze, depurato dai caratteri prettamente dialettali. Altri lutti domestici colpirono Manzoni dopo il 1840: la morte delle figlie Sofia e Matilde, della madre Giulia, della seconda moglie Teresa Borri Stampa, che aveva sposato nel 1837, dei figli Filippo e Pietro; ed è significativo che, in tale doloroso contesto, l'unico frammento poetico, Ognissanti, 1847, riveli la suggestione della Ginestra leopardiana. Oltre ai numerosi interventi sul problema della lingua (lettera a G. Carena, Sulla lingua italiana, 1850; relazione Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, 1868; Appendice alla relazione del ministro della Pubblica istruzione E. Broglio, 1869), Manzoni scrisse, in questo periodo, il dialogo filosofico Dell'invenzione, 1849, d'impronta rosminiana (che segue le idee filosofiche di Rosmini, 1797-1855, fondatore dell'ordine religioso detto Congregazione della Carità), come la seconda edizione delle Osservazioni sulla morale cattolica, 1855, peraltro interessante per la confutazione dell'utilitarismo di J. Bentham. Ma le opere più importanti dell'ultimo Manzoni sono la Storia della colonna infame, pubblicata in coda all'edizione "quarantan" dei Promessi sposi, e il Saggio comparativo su la rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859 (avviato nel 1862 e rimasto incompiuto). Romanzo di un delitto giudiziario, la Storia della colonna infame svolge il tema del processo agli untori già affrontato da P. Verri nelle Osservazioni sulla tortura: mentre però Verri aveva attribuito il terribile eccidio di innocenti all'iniquità delle istituzioni, Manzoni attribuisce moralisticamente ogni responsabilità alle singole coscienze dei giudici, non cogliendo i rapporti ideologico-sociali tra la sfera del "privato" e quella pubblica. Non più che un aspetto del liberalismo moderato di Manzoni è il saggio storico sulle due rivoluzioni, quella francese, del 1789, considerata illegittima e ingiusta nel fine e nei mezzi, e quella italiana del 1859, apprezzata per aver promosso la libertà e la pace civile. Ma il moderato Manzoni era anche un deciso avversario del potere temporale dei papi, e non esitò a scandalizzare i cattolici intransigenti e filistei votando, nel 1861, in qualità di senatore del Regno d'Italia, in favore del trasferimento della capitale da Torino a Firenze e accettando, nel 1872, la cittadinanza onoraria offertagli dal comune di Roma. Il 22 maggio 1873, Manzoni morì. Nell'anniversario della sua scomparsa, G. Verdi, massimo rappresentante, accanto a Manzoni, del nostro romanticismo, gli dedicò, in memoria, una Messa da requiem. L'arco della vita quasi nonagenaria di Manzoni si protende tra la fine dell'ancien régime e l'inizio dell'età umbertina, attraversando le vicende intellettuali e politiche del giacobinismo e dell'età napoleonica, della Restaurazione e del Risorgimento; alla sua esistenza, schiva e appartata, fa da contrappeso la complessa biografia interiore di uno scrittore la cui presenza è egemone non solo nel romanzo, nella poesia e nel teatro, ma anche nella linguistica e nella teoria letteraria, nella filosofia e nella morale, nella storia politica e nell'economia.