Giacomo Leopardi

Poeta italiano, Recanati, 1798 - Napoli, 1837. Primogenito del conte Monaldo e di Adelaide dei marchesi Antici, visse un'infanzia intristita da un'educazione rigida e austera, in un ambiente retrogrado, improntato a una religiosità bigotta e spiccatamente reazionaria. Nel 1809 ebbero inizio i sette anni del suo studio "matto e disperatissimo" nella fornitissima biblioteca paterna: le prime esercitazioni letterarie mostravano già le prime aperture al futuro tono idillico, mentre i lavori di filologia classica, imparò da solo il greco e l'ebraico, rivelavano una perizia e una dottrina che desteranno presto stupore e attesa anche in filologi famosi come B.G. Niebuhr. In questi primi anni sul piano politico Leopardi è ancora influenzato dall'ideologia sanfedistica (associazione a impronta reazionaria e antiliberale e clericale) del padre, come appare nell'orazione Agli italiani, 1815, scritta dopo la sconfitta di G. Murat a Tolentino, mentre, in campo filosofico, le sue "dissertazioni", inedite fino al 1984, sono ispirate dal proposito di conciliare la cultura illuministica con il dogma cattolico: significative, in proposito, le prime opere, come la Storia dell'astronomia, 1813 e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, 1815. Nel 1816 Leopardi scrive la cantica Appressamento della morte, prima testimonianza della sua crisi giovanile; l'anno successivo, ha inizio la corrispondenza con P. Giordani, la cui amicizia eserciterà una preziosa funzione liberatoria, orientando il poeta adolescente verso un classicismo progressista di stampo illuministico e alfieriano. Della fine del 1817 è il Diario d'amore, scritto sul modello della Vita di V. Alfieri, testimonianza di una segreta passione amorosa per la cugina Gertrude Cassi. Matura intanto l'ideologia letteraria di Leopardi, nell'incontro - scontro con le teorie romantiche: nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, 1818 egli afferma risolutamente che la poesia è "natura" e non "ragione", corrispondendo vichianamente all'infanzia e non alla maturità dello spirito, e che la stessa categoria del "patetico", sbandierata come novità dai romantici, ci riporta alla lezione dei classici, che seppero trattarla con ben diversa sobrietà ed eleganza, vivendola nel rapporto diretto con la natura. La distanza di Leopardi dai romantici è evidente anche nelle canzoni civili poste alle soglie dei Canti, All'Italia e Sul monumento di Dante, 1818, lontanissime dalla coeva poesia politica di A. Manzoni e di  G. Berchet. Anno cruciale è, per Leopardi, il 1819: sul piano biografico, è l'anno del primo manifestarsi di una grave malattia agl'occhi e della tentata fuga da Recanati, il cui fallimento lo getta in uno stato di spaventosa prostrazione; sul piano ideologico, è l'anno della conversione dal "bello" alla "filosofia", sulla spinta dell'influsso di J.J. Rousseau e di Madame de Staël: si delinea allora, nello Zibaldone, una raccolta di pensieri, appunti, ricordi, stesa dal 1817 al 1832, una serie di antitesi che costituiscono il "sistema" leopardiano: natura - ragione, bello - vero, immaginazione - sentimento, poesia - filosofia; fondamentale è, in particolare, l'antitesi tra la natura, regno del "bello" e della felicità, e la ragione, regno del "vero" e dell'infelicità: ne consegue un capovolgimento sia della mentalità illuministica, volta a esaltare la ragione, sia delle stesse posizioni assunte da Leopardi nel Discorso di un italiano: ora la condizione dei primitivi appare al poeta irrecuperabile, e ne deriva la rinunzia alla poesia dell'immaginazione, propria degli antichi, e l'accettazione della poesia sentimentale o filosofica, cara ai romantici, ma privata di ogni illusione di progresso. Intimamente legati alla crisi del 1819 sono gli idilli: "L'infinito, Alla luna, La sera del dì di festa, La vita solitari, Il sogno, Lo spavento notturno", che, composti dal 1819 al 1821, segnano una rinuncia alla poesia civile e una più immediata espressione di "situazioni, affezioni, avventure storiche" dell'animo. Nell'idillio più complesso e perfetto, L'infinito, spesso interpretato in chiave mistico - spiritualistica, la matrice è invece sensistica, come chiariscono alcune pagine dello Zibaldone: il senso dell'infinito nasce infatti da un piacere dell'immaginazione, che abolisce deliberatamente ogni limite materiale per naufragare nel mare dei sogni infantili. Accanto al tema dell'"infinito", un'altra acquisizione fondamentale della lirica leopardiana è il motivo della "rimembranza", che ha la sua espressione più pura in Alla luna, mentre, negli altri idilli, comincia a corrodersi il mito della natura benefica, coinvolta nel lamento contro il "cielo", La sera del dì di festa, Il sogno, o contro la "Fortuna", La vita solitaria, o ritorna, nel sogno della luna caduta in un prato, Lo spavento notturno, la situazione di paura che, nell'idillio maggiore, pervade il cuore dinanzi al pensiero dell'infinito. Parallelamente agli idilli, Leopardi persegue negli stessi anni l'esperienza delle "canzoni di stile", dove sentimenti e riflessioni s'intrecciano nell'ambito della poesia "filosofica", propria dei moderni: matrice ideologico - stilistica della futura poesia leopardiana è la canzone Ad Angelo Mai, 1820, dove l'atteggiamento agonistico si avvicenda a quello elegiaco, nella contrapposizione tra i grandi italiani, da Dante ad Alfieri, e il "secol di fango", oppresso dal tedio e dalla coscienza del nulla. Intanto il poeta si è distaccato definitivamente dal cattolicesimo; e, nelle canzoni del 1821, Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel pallone, pone risolutamente il problema di una pedagogia anticristiana, in cui si esalti il vigore del corpo secondo il modello pagano dell'educazione antica. Del 1821 è anche Bruto minore, dove il pessimismo materialistico di Leopardi ha eloquente espressione nella dura polemica contro la divinità e il fato e nella sdegnosa proclamazione della fine delle illusioni: a tale virile titanismo si oppone, in Alla primavera, 1822 e nell'Inno ai patriarchi, 1822, l'accorata elegia di una età fanciulla irrimediabilmente perduta; la stagione delle canzoni filosofiche si conclude, infine, con L'ultimo canto di Saffo, 1822, dove la ripresa della problematica anticristiana del suicidio, già posta nel Bruto minore, avviene nell'ottica autobiografica della coscienza dell'infelicità fisica, che, da lamento individuale, diviene in Leopardi strumento di conoscenza. La tensione poetica si affievolisce verso la fine del 1822, in connessione con il deludente soggiorno a Roma: al disagio provocato dalla grande città, dove i rapporti umani appaiono a Leopardi inautentici, si aggiunge il disgusto per una società oziosa e frivola, cui il poeta oppone la laboriosità e la semplicità degli operai trasteverini. Il disimpegno politico, successivo al fallimento dei moti del 1820-21, ha intanto allontanato ulteriormente Leopardi dalla poesia civile: frutto di tale stato d'animo di desolato riflusso è la canzone Alla sua donna, 1823, nella cui orchestrazione ritornano, sotto forma di altissimo gioco letterario, formule e modi della poesia stilnovistica e petrarchesca. Allo stesso lucido e pacato pessimismo sono improntate le Operette morali, composte in gran parte nel 1824, cui è premessa la Storia del genere umano, che ne enuncia il motivo di fondo, l'impossibile felicità degli uomini, sostenuta sulla base di una rigorosa "teoria del piacere": poiché il piacere appartiene al passato e al futuro, mai al presente, altro non resta agli uomini se non il tedio, identificato, nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, con il "desiderio puro della felicità" e contro il quale l'unico antidoto è la ricerca di una vita intensa, fino ai limiti dell'avventura e del rischio, Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez; immuni dal tedio sono solo gli animali, come gli uccelli, poetici "cantori della terra", Elogio degli uccelli; e ad un animale fantastico, stilizzata immagine di orientale fascino, è affidato, nel Cantico del gallo silvestre, il canto solenne del sonno perpetuo degli uomini e della fine dell'universo: un universo concepito antropocentricamente dalla folle presunzione degli uomini: Dialogo di un folletto e di uno Gnomo; Dialogo della Terra e della Luna. Il vertice lirico delle Operette è il "Coro dei morti" nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie: un'operetta la cui "moralità" è da ricercare nel contrasto tra la poesia allucinata e gelida dei morti e la prosa, tra impaurita e curiosa, delle battute di Ruysch; il vertice ideologico è il Dialogo della Natura e di un islandese, dove esplode l'accusa contro la malvagia indifferenza della Natura "matrigna", prima formulazione del "pessimismo cosmico". Con tale svolta antinaturalistica, tramonta la prima poetica leopardiana, e poesia e filosofia si incontrano, in un nesso ormai inscindibile tra la ricerca del bello e quella del vero. Nel luglio del 1825 Leopardi lascia Recanati, accogliendo l'invito dell'editore milanese A.F. Stella di dirigere un'edizione critica delle opere di Cicerone: Leopardi pubblicherà per lo Stella, modificando il progetto iniziale, un commento a Petrarca e due Crestomazie della prosa e della poesia, tra i primi esempi in Italia, svolgendo inoltre un'intensa attività di traduttore: pregevole, in particolare, la sua traduzione del Manuale di Epitteto, che segna un fuggevole incontro con la morale stoica. Milano appare a Leopardi una città "antisociale": più gradito è il soggiorno a Bologna, dove stringe rapporti con letterati come C. Pepoli, destinatario dell'epistola Al conte Carlo Pepoli, 1826-27, e corteggia la contessa Teresa Malvezzi. Ma a Firenze, dove conosce G.P. Vieusseux, G. Capponi e gli esuli napoletani P. Colletta e A. Poerio, Leopardi non riesce a nascondere la sua estraneità al compromesso cattolico - liberale sostenuto dai suoi amici toscani e declina l'offerta di Vieussuex di tenere nell'"Antologia" una rubrica fissa. In questa fase il pessimismo materialistico continua ad essere al centro delle riflessioni dello Zibaldone e si traduce, in un celebre brano del 22 aprile 1826, nel tema della souffrance. Ma è proprio la souffrance delle creature a far insorgere nel poeta una sensibilità nuova di tenerezza e di pietà, da cui scaturiscono i "grandi idilli", i quali, tuttavia, non sono da considerarsi un'esperienza esclusivamente affettiva, scissa dal pensiero: mentre infatti si rinsalda, da una parte, il pessimismo nichilistico, si rafforza, dall'altra parte, la convinzione sensistica e materialistica della necessità del piacere come unico fine della vita. Tale duplice sistema si rispecchia esemplarmente nel Dialogo di Plotinio e di Porfirio, un'operetta del 1827, che, contro le ragioni del suicidio, sostiene, in un discorso tra i più alti e vibranti di Leopardi, la necessità di vivere e di "tenerci compagnia l'un l'altro": il titanismo del gesto di Bruto minore si è così trasferito nel titanismo delle idee e anche l'impassibile "assenza" delle Operette del 1824 è superata. A Pisa il poeta scrive Il Risorgimento, 1828, credendo di ritrovare in "versi all'antica", il "cuore antico di una volta": in realtà, il rifiorire dei ricordi non è mai disgiunto dalla persuasione materialistica della vanità delle illusioni; svanisce pertanto il compiacimento autobiografico dei primi "idilli" e, anzi, la stessa definizione di "grandi idilli", usata a partire da F. De Sanctis, per indicare i canti pisano - recanatesi del 1828-29, è impropria e ambigua, attribuendo una implicita funzione consolatoria al canto leopardiano, il cui esito è, invece, sempre tragico. In A Silvia la figura della fanciulla morta precocemente diviene il simbolo dello svanire delle speranze giovanili all'"apparir del vero", mentre, nelle Ricordanze, il sentimento amaro del "mai più" sottrae alla "rimembranza" la dolcezza di un tempo, traducendosi infine in un altro simbolo femminile, quello di Nerina; nei "miti del borgo", Il passero solitario; La quiete dopo la tempesta; Il sabato del villaggio, infine, sul quadro idillico del mondo contadino prevale la materia riflessiva, che, nella Quiete e nel Sabato, assume l'incisiva esemplarità della "parabola". Ormai fuori dal clima idillico si colloca l'ultima lirica del ciclo pisano - recanatese, il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, dove il momento riflessivo assume un dominante rilievo, fino all'epigrafe dell'ultimo verso: "è funesto a chi nasce il dì natale", dura sentenza del pessimismo cosmico. Il periodo dal 1830 alla morte costituisce una fase del tutto nuova, sia alla biografia di Leopardi che, uscito definitivamente dal "borgo selvaggio", vive le intense esperienze dell'amicizia con A. Ranieri, insieme al quale si trasferisce a Napoli nel 1833, e dell'amore per la fiorentina Fanny Targioni Tozzetti, sia nella sua ultima produzione poetica, contrassegnata da uno stile energico e vibrante, alieno dalla morbidezza melodica dell'idillio. Rimane fermo, sul piano filosofico, l'orientamento ateo e materialistico, ma è nuovo il fermento di ribellione, l'atteggiamento fieramente contestativo e agonistico, che ha la sua prima espressione nel Pensiero dominante, la cui musica martellata e robusta, decisamente anti-idillica, traduce l'ossessione esclusiva di una passione sconvolgente. Allo stesso modo, in Amore e morte, la fratellanza tra "eros" e "thanatos" sbocca nell'invocazione di una morte laica, attesa senza timore e senza le illusorie consolazioni della religione. Anche in Consalvo, malgrado il vistoso cedimento sentimentale al tono della novella romantica, traspare un'esperienza di amara solitudine, mentre in Aspasia il tono irridente e vendicativo non offusca la sofferta intensità di un'angoscia erotica, che ricorda Lucrezio. Il "ciclo di Aspasia" si conclude con i versi nudi e vibranti di A se stesso, dove la rivolta titanica del poeta si svolge più ampiamente nell'ultima delle Operette, il Dialogo di Tristano e di un amico, composta nel 1832 insieme con l'arioso e bellissimo Dialogo d'un venditore d'almanacchi e di un passeggere: nato dalle ceneri dello Zibaldone, che si chiude appunto nel 1832: Leopardi ne estrarrà più tardi una raccolta di Centoundici pensieri, Tristano-Leopardi difende la sua "filosofia dolorosa", ma vera, ed enuncia l'esigenza di "mutare radicalmente lo stato moderno della società" e di rimediare a un'educazione insidiata da pregiudizi spiritualistici, ribadendo infine il suo supremo distacco dinanzi alla morte. Si spiega allora, alla luce di questa attesa leopardiana di un mutamento radicale, l'aspra diffidenza del poeta verso il compromesso cattolico-liberale, che si esprime, nella Palinodia al marchese Gino Capponi, sotto forma di disprezzo verso una civiltà industriale e scientifica fondata sul saccheggio e sullo sfruttamento: atteggiamento che tocca la sua espressione più originale e complessa nei Paralipomeni della Batracomiomachia: raccontando le vicende della guerra tra i topi (i liberali) e le rane (i reazionari) che chiamano in loro aiuto i granchi (gli Austriaci), Leopardi sferza l'odiosa repressione reazionaria, ma non risparmia i suoi strali alla presuntuosa insensatezza dei cattolici liberali, fiduciosi solo in un mondo trascendente, satiricamente rappresentato nella descrizione dell'"inferno topesco", capolavoro di macabro umorismo. La nuova poetica leopardiana trova ulteriori conferme nella riflessione spoglia e severa delle due "sepolcrali", Sopra un bassorilievo antico e sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna, e nel tono immateriale e disincarnato del Tramonto della luna; e ha il suo capolavoro nella Ginestra, dove Leopardi rivolge un messaggio di solidarietà contro la Natura matrigna, rifiutando i miti spiritualistici del "secolo superbo e sciocco" e ricollegandosi alla grande ideologia illuministica che, trasformata in una filosofia popolare, potrà restituire l'uomo a se stesso. Nella grandiosa orchestrazione della Ginestra, Leopardi interpreta in modo inquietante e stimolante la crisi storica della società borghese, investendo in pieno la nostra condizione novecentesca. Il riconoscimento dell'attualità di Leopardi è stato a lungo ostacolato dalla mancata comprensione del suo pensiero, soprattutto per l'aspra censura di B. Croce, ma, negli ultimi anni, la critica ha operato in proposito un capovolgimento di posizioni, dalla svolta impressa agli studi leopardiani da W. Binni alla rivalutazione, per opera di C. Luporini e di S. Timpanaro, della portata storica e potenzialmente progressista del pessimismo materialistico leopardiano. Il riesame critico di quel grande libro segreto che è lo Zibaldone ha di recente indotto alcuni studiosi a riconoscere nel pensiero leopardiano alcune significative coincidenze con il "pensiero negativo" che fa capo a F. Nietzsche, non a caso fervido ammiratore di Leopardi, e con la psicoanalisi: è proprio l'esperienza del negativo che incrina, infatti, nel grande poeta recanatese, le ragioni dell'ottimismo illuminista; ed è la sua teoria del piacere, inteso come luogo della perpetua insoddisfazione dell'uomo, a ritornare nelle più acute indagini della ricerca psicoanalitica, da S. Freud di Al di là del principio del piacere a H. Marcuse di Eros e civiltà. La divaricazione tra Leopardi "lirico" e Leopardi "filosofo" è stata superata dal riconoscimento dell'incontro, in lui, tra "pensiero poetante" e "poesia pensante" (A. Prete), nel quadro di una critica radicale alla cultura della Restaurazione, che ha sorprendenti analogie con i risultati della "teoria critica della società" di M. Horkheimer e T. Adorno: Leopardi smaschera infatti la barbarie nascosta nella "civiltà", il cui costo, in un'esemplare riflessione del 1821, egli indica nella disuguaglianza e nello sfruttamento, chiedendosi come si possa chiamare civile un rapporto sociale che funziona solo "al prezzo dell'infelicità regolare di una metà degli uomini". Critico implacabile della concorrenza reciproca su cui si regge il mondo borghese, Leopardi è nel contempo persuaso che la causa dell'infelicità umana è la realtà fisico-biologica, basata sui dati ineliminabili della malattia, della vecchiaia, della fugacità del piacere: la lotta contro la natura acquista pertanto, nel suo pensiero, il carattere di una lotta disperata, ma combattuta con strenuo vigore.