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Cesare
De Bello Gallico
libro V, cap 27-52
27
Al colloquio viene inviato C. Arpineio, cavaliere romano, parente
di Q. Titurio, insieme a uno Spagnolo, un certo Q. Giunio, che in
passato, per incarico di Cesare, si era già più volte recato da
Ambiorige. A essi Ambiorige parlò come segue: ammetteva i molti
debiti di riconoscenza nei confronti di Cesare (grazie al suo
intervento era stato sollevato dal tributo che pagava
abitualmente agli Atuatuci, popolo limitrofo; Cesare gli aveva
restituito suo figlio e il figlio di suo fratello, che, inclusi
nel novero degli ostaggi, erano tenuti asserviti in catene dagli
Atuatuci); quanto all'assedio al campo romano, aveva agito non di
iniziativa o volontà propria, ma costretto dal popolo, e la sua
sovranità stava in questi termini: la sua gente aveva nei suoi
confronti gli stessi diritti che aveva lui nei confronti della
sua gente. Il popolo, d'altro, canto, era insorto perché non
aveva potuto opporsi alla repentina formazione di una lega dei
Galli. E prova evidente di ciò era la sua debolezza: non era
tanto sprovveduto da confidare, con le proprie truppe, in una
vittoria sul popolo romano. Si trattava, piuttosto, di un piano
comune a tutti i Galli: era stato deciso di assediare, in quel
giorno, tutti i campi invernali di Cesare, in modo che nessuna
legione fosse in grado di soccorrerne un'altra. Come potevano dei
Galli, con facilità, opporre un rifiuto alla proposta di altri
Galli, soprattutto quando sembrava mirare alla riconquista della
libertà comune? Se, dunque, prima aveva aderito alla lega dei
Galli per amor di patria, adesso teneva conto del suo dovere per
i benefici ricevuti da Cesare: avvertiva, supplicava Titurio, in
nome dei loro vincoli d'ospitalità, di provvedere a porsi in
salvo con i propri soldati. Un forte esercito di mercenari
germani aveva attraversato il Reno: sarebbero giunti nell'arco di
due giorni. Spettava ai Romani la decisione di far uscire dall'accampamento
i soldati prima che i Galli vicini se ne accorgessero, e condurli
da Cicerone o da Labieno, distanti l'uno circa cinquanta miglia,
l'altro poco più. Prometteva e giurava dar via libera sul
proprio territorio. Agendo così, avrebbe provveduto al bene
della propria gente, perché veniva liberata dal campo romano, e
ricambiato i servigi di Cesare. Ciò detto, Ambiorige si
allontana.
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Arpineio e Giunio riferiscono le parole di Ambiorige ai legati,
che, turbati dagli eventi repentini, stimavano di dover dar peso
alle informazioni, per quanto fornite dal nemico. Li spingeva,
soprattutto, una considerazione: era ben poco credibile che un
popolo così oscuro e debole come gli Eburoni avesse osato, di
propria iniziativa, muovere guerra a Roma. Perciò, rimandano la
questione al consiglio di guerra, dove si verificano forti
contrasti. L. Aurunculeio, seguito da molti tribuni militari e
dai centurioni più alti in grado, era dell'avviso di non
prendere iniziative avventate e di non lasciare i quartieri d'inverno
senza ordine di Cesare; spiegavano che, essendo il campo
fortificato, era possibile tener testa alle truppe dei Germani,
per quanto numerose; lo testimoniava il fatto che avevano retto
con grandissimo vigore al primo assalto e avevano inflitto al
nemico gravi perdite; la situazione delle scorte di grano non era
preoccupante; nel frattempo, sia dai campi più vicini, sia da
Cesare sarebbero arrivati rinforzi; infine, cosa c'era di più
avventato o vergognoso che deliberare su questioni gravissime,
per suggerimento dei nemici?
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A ciò Titurio obiettava, gridando, che si sarebbero mossi tardi,
con le forze avversarie ormai più consistenti per l'arrivo dei
Germani oppure dopo qualche disastro negli accampamenti vicini.
Avevano poco tempo per decidere. Riteneva che Cesare fosse
partito per l'Italia, altrimenti i Carnuti non avrebbero preso la
decisione di eliminare Tasgezio, né gli Eburoni, se lui era
presente in Gallia, avrebbero marciato sul campo con tanto
disprezzo per le nostre forze. Le proposte del nemico non c'entravano,
si trattava di valutare la situazione: il Reno era vicino; la
morte di Ariovisto e le nostre precedenti vittorie avevano
costituito un gran dolore per i Germani; la Gallia bruciava per
le molte umiliazioni subite, per dover sottostare al dominio del
popolo romano, per l'antica gloria militare oscurata. Infine, ma
chi poteva convincersi che Ambiorige avesse assunto una decisione
del genere senza uno scopo ben preciso? La sua proposta era
sicura in entrambi i casi: se non si verificava nulla di grave,
avrebbero raggiunto la legione più vicina, senza rischi; se,
invece, la Gallia era tutta d'accordo con i Germani, l'unica
speranza di salvezza era riposta nella rapidità. Il parere di
Cotta e di chi dissentiva, a cosa portava? Se per il presente non
rappresentava un pericolo, certo avrebbero dovuto temere la fame,
in un lungo assedio.
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Mentre così si discuteva, da una parte e dall'altra, visto che
Cotta e i centurioni più alti in grado si opponevano con tenacia,
Sabino disse: "E va bene, se proprio lo volete", e a
voce più alta, per essere sentito da un gran numero di soldati,
proseguì: "Non sarò certo io quello che, in mezzo voi, si
lascia spaventare di più dalla paura della morte; ma saranno
loro a giudicare e a chiedere conto a te, se succede qualcosa di
grave, loro, che se tu lo consentissi, potrebbero raggiungere
dopodomani l'accampamento più vicino e affrontare le vicende
della guerra insieme agli altri, invece di crepare per mano
nemica o sfiniti dalla fame, abbandonati e lontani da tutti".
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Si alzano dal consiglio, prendono nel mezzo entrambi i legati e
li pregano di non portare la situazione al massimo rischio con il
loro dissenso ostinato; la faccenda era facile sia rimanendo, sia
levando le tende, purché tutti fossero dello stesso avviso e
partito; in caso di disaccordo, invece, non intravedevano alcuna
speranza di salvezza. La discussione prosegue fino a notte fonda.
Alla fine Cotta, turbato, si dà per vinto: prevale il parere di
Sabino. La partenza viene annunciata per l'alba. Il resto della
notte la passano a vegliare, ogni soldato valuta che cosa possa
prendere con sé e quali oggetti dell'accampamento invernale
debba abbandonare per forza. Le pensano tutte pur di non
garantire, la mattina dopo, una partenza priva di rischi, e di
aumentare il pericolo con la stanchezza dei soldati, dovuta alla
veglia. All'alba lasciano il campo, non come se fossero stati
persuasi dal nemico, ma quasi che avessero accolto il
suggerimento di un amico di provata lealtà, Ambiorige. L'esercito
in marcia formava una schiera interminabile, con numerosissimi
bagagli.
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I nemici, quando dall'agitazione notturna e dalla veglia
prolungata, si resero conto che i nostri preparavano la partenza,
tesero insidie da due lati, nella boscaglia, su un terreno
favorevole e coperto, a circa due miglia dal campo, in attesa
dell'arrivo dei Romani. Allorché il grosso del nostro esercito
era ormai entrato in un'ampia valle, all'improvviso, dai fianchi
della medesima sbucarono i nemici e iniziarono a premere sulla
retroguardia, a impedire all'avanguardia di salire, costringendo
i nostri a combattere in condizioni assolutamente sfavorevoli.
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Solo allora Titurio, che nulla aveva previsto, cominciò ad
agitarsi, a correre qua e là, a disporre le coorti, ma sempre
impaurito: sembrava che tutto gli venisse a mancare, come per lo
più accade a chi è costretto a decidere proprio mentre l'azione
è in corso. Cotta, invece, che aveva pensato all'eventualità di
un attacco durante la marcia e che, perciò, non era stato
fautore della partenza, non risparmiò nulla per la salvezza di
tutti e, chiamando e incoraggiando i legionari, durante la
battaglia, svolgeva le funzioni di comandante e di soldato. La
lunghezza della colonna rendeva più difficile provvedere a tutto
personalmente e impartire gli ordini necessari in ogni settore
della battaglia, perciò i comandanti diedero disposizione,
passando la voce, di abbandonare i bagagli e di assumere la
formazione a cerchio. La manovra, anche se in circostanze del
genere non è riprovevole, si risolse in un danno: diminuì la
fiducia dei nostri soldati e rese più arditi i nemici, perché
sembrava che fosse stata fatta per estremo timore e
scoraggiamento. Inoltre, accadde l'inevitabile: i soldati,
ovunque, si allontanavano dalle insegne, ciascuno correva ai
bagagli per cercare e riprendersi le cose più care, tutto
risuonava di grida e pianti.
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I barbari, invece, si dimostrarono avveduti. Infatti, i loro capi
passarono ordine a tutto lo schieramento che nessuno si
allontanasse dal proprio posto: era preda riservata per loro
tutto ciò che i Romani avessero abbandonato, quindi dovevano
pensare che tutto dipendeva dalla vittoria. Il loro coraggio era
pari al loro numero. I nostri, benché abbandonati dal
comandandante e dalla Fortuna, tuttavia riponevano ogni speranza
di salvezza nel proprio valore, e ogni volta che una coorte
muoveva all'assalto, in quel settore cadeva un gran numero di
nemici. Appena se ne accorge, Ambiorige passa voce di scagliare
dardi da lontano, senza avvicinarsi, cedendo là dove i Romani
avessero sferrato l'attacco: grazie alle loro armi leggere e all'esercizio
quotidiano avrebbero potuto infliggere ai Romani gravi perdite;
quando i nostri si fossero ritirati verso le insegne, dovevano
inseguirli.
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L'ordine venne scrupolosamente eseguito dai barbari: quando una
coorte usciva dalla formazione a cerchio e attaccava, i nemici
indietreggiavano in gran fretta. Al tempo stesso era inevitabile
che quel punto rimanesse scoperto e che sul fianco destro
piovessero dardi. Poi, quando i nostri iniziavano il ripiegamento
verso il settore di partenza, venivano circondati sia dai nemici
che si erano ritirati, sia dagli altri che erano rimasti fermi
nelle vicinanze. Se, invece, volevano tenere le posizioni, non
avevano modo di esprimere il proprio valore, né di evitare, così
serrati, le frecce scagliate da una tal massa di nemici. Comunque,
pur travagliati da tante difficoltà e nonostante le gravi
perdite, resistevano e, trascorsa già gran parte del giorno - si
combatteva dall'alba ed erano ormai le due di pomeriggio - non si
piegavano a nulla che fosse indegno di loro. A quel punto T.
Balvenzio, che l'anno precedente era stato centurione primipilo,
soldato coraggioso e di grande autorità, viene colpito da una
tragula, che gli trapassa tutte e due le cosce; Q. Lucanio, anch'egli
primipilo, mentre combatteva con estremo valore, perde la vita
nel tentativo di recare aiuto al figlio circondato; il legato L.
Cotta, mentre stava incitando tutte le coorti e le centurie,
viene colpito da un proiettile di fionda in pieno volto.
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Scosso da tali avvenimenti, Q. Titurio, avendo scorto in
lontananza Ambiorige che spronava i suoi, gli invia il proprio
interprete, Cn. Pompeo, per chiedergli salva la vita per sé e i
legionari. Ambiorige alla richiesta risponde: se Titurio voleva
un colloquio, glielo concedeva; sperava di poter convincere le
truppe circa la salvezza dei soldati romani; Titurio stesso,
comunque, non avrebbe corso alcun rischio, se ne rendeva garante
di persona. Titurio si consiglia con Cotta, ferito: gli propone,
se era d'accordo, di allontanarsi dalla battaglia e di recarsi
insieme a parlare con Ambiorige: sperava di riuscire a ottenere
salva la vita per loro e per i soldati. Cotta risponde che non si
sarebbe mai recato da un nemico in armi e non recede dalla sua
decisione.
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Ai tribuni militari che, al momento, aveva intorno a sé e ai
centurioni più alti in grado, Sabino dà ordine di seguirlo.
Essendosi avvicinato ad Ambiorige, gli viene ingiunto di gettare
le armi: esegue l'ordine e comanda ai suoi di fare altrettanto. E
mentre trattavano delle condizioni di resa e Ambiorige, di
proposito, tirava in lungo il suo discorso, a poco a poco Sabino
viene circondato e ucciso. A quel punto, com'è loro costume, i
nemici levano alte grida di vittoria, si lanciano all'assalto,
scompaginano i ranghi dei nostri. L. Cotta cade combattendo sul
posto, come la maggior parte dei nostri. Gli altri si rifugiano
nell'accampamento da cui erano partiti. Tra di essi, L.
Petrosidio, aquilifero, attaccato da molti avversari, gettò l'aquila
all'interno del vallo e cadde battendosi da vero eroe dinanzi all'accampamento.
I nostri, a malapena, riescono a reggere agli attacchi nemici
fino al calar delle tenebre; di notte, senza più speranze di
salvezza, si tolgono la vita tutti, sino all'ultimo. I pochi
superstiti raggiungono, per vie malsicure tra le selve, il campo
del legato T. Labieno e lo informano dell'accaduto.
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Imbaldanzito dalla vittoria, Ambiorige con la cavalleria si
dirige verso gli Atuatuci, che confinavano col suo regno. Non
interrompe la marcia né di notte, né di giorno e ordina alla
fanteria di tenergli dietro. Illustrato l'accaduto e spinti gli
Atuatuci alla ribellione, il giorno seguente raggiunge i Nervi e
li spinge a non perdere l'occasione di rendersi per sempre liberi
e di vendicarsi dei Romani per le offese ricevute. Racconta che
due legati erano stati uccisi e il grosso dell'esercito eliminato;
non era affatto difficile cogliere di sorpresa la legione che
svernava con Cicerone e distruggerla; promette il suo aiuto nell'impresa.
Con tali parole persuade facilmente i Nervi.
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Così, inviano subito emissari ai Ceutroni, ai Grudi, ai Levaci,
ai Pleumoxi, ai Geidumni, tutti popoli sottoposti alla loro
autorità, raccolgono quante più truppe possono e piombano all'improvviso
sul campo di Cicerone, che ancora non sapeva della morte di
Titurio. Anche Cicerone si trova di fronte, com'era inevitabile,
all'identica situazione: alcuni legionari, addentratisi nei
boschi in cerca di legname per le fortificazioni, vengono colti
alla sprovvista dall'arrivo repentino della cavalleria nemica.
Dopo averli circondati con ingenti forze, gli Eburoni, i Nervi e
gli Atuatuci, con tutti i loro alleati e clienti, stringono d'assedio
la legione. I nostri si precipitano alle armi e salgono sul vallo.
Per quel giorno riescono a resistere, ma a stento, perché i
nemici riponevano ogni speranza nella rapidità dell'attacco ed
erano convinti che, ottenuta quella vittoria, sarebbero sempre
usciti vincitori.
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Senza indugio Cicerone invia una lettera a Cesare, promettendo
grandi ricompense a chi fosse riuscito a recapitarla. Le vie, però,
erano tutte sorvegliate e i messi vennero intercettati. Di notte,
con il legname procurato per le fortificazioni, i Romani
costruiscono, con incredibile rapidità, almeno centoventi torri
e terminano le strutture difensive non ancora approntate. L'indomani
i nemici, raccolte truppe ben più numerose, riprendono l'assedio
e riempiono la fossa. I nostri resistono nello stesso modo del
giorno prima. L'identica situazione si ripete nei giorni
successivi. Di notte i lavori non vengono sospesi, neppure per un
istante; non è concesso riposo né ai malati, né ai feriti.
Tutto il necessario per l'assedio del giorno seguente lo si
prepara di notte; sono approntati molti pali induriti al fuoco e
giavellotti pesanti in gran quantità; le torri vengono munite di
tavolati, dotate di merli e parapetti di graticci. Cicerone
stesso, pur essendo di salute molto cagionevole, neanche di notte
si concedeva riposo, tanto che i soldati si accalcarono intorno a
lui e lo costrinsero, a forza di insistere, a prendersi un po' di
respiro.
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Allora i capi e i principi dei Nervi, che avevano possibilità di
contatto con Cicerone per ragioni di amicizia, gli chiedono un
colloquio ed egli lo concede. Descrivono la situazione negli
stessi termini in cui Ambiorige l'aveva presentata a Titurio:
tutta la Gallia era in armi; i Germani avevano attraversato il
Reno; il campo di Cesare e tutti gli altri erano sotto assedio.
Riferiscono anche la morte di Sabino: la presenza di Ambiorige ne
costituiva la prova. Sarebbe stato un errore aspettare rinforzi
da chi disperava della propria situazione; tuttavia, contro
Cicerone e il popolo romano non avevano alcun risentimento, solo
non accettavano più quartieri d'inverno nei loro territori e non
intendevano che tale abitudine si radicasse; concedevano ai
Romani la possibilità di lasciare il campo sani e salvi e di
recarsi, senza alcun timore, dovunque volessero. A tali parole
Cicerone risponde semplicemente che non era consuetudine del
popolo romano accettare condizioni da un nemico armato; se
avessero acconsentito a deporre le armi, prometteva il suo
appoggio per l'invio di messi a Cesare: sperava, dato il senso di
giustizia del comandante, che avrebbero viste esaudite le loro
richieste.
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Svanita tale speranza, i Nervi cingono il campo romano con un
vallo alto dieci piedi e una fossa larga quindici. Negli anni
precedenti, per i frequenti contatti con noi, avevano appreso
tale tecnica e adesso erano istruiti da alcuni prigionieri del
nostro esercito; ma, privi degli attrezzi di ferro adatti, erano
costretti a fendere le zolle con le spade e a trasportare la
terra con le mani o i saguli. Ma anche da ciò, comunque, si poté
capire quanto fossero numerosi: in meno di tre ore ultimarono una
linea fortificata per un perimetro di quindici miglia. Nei giorni
successivi, sempre sulla base delle istruzioni dei prigionieri,
cominciarono a preparare e costruire torri alte come il vallo,
falci e testuggini.
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Il settimo giorno d'assedio si levò un vento fortissimo: i
nemici iniziarono a scagliare proiettili roventi d'argilla
incandescente e frecce infuocate contro le capanne che, secondo l'uso
gallico, avevano il tetto ricoperto di paglia. I tetti presero
subito fuoco e, per la violenza delle raffiche, le fiamme si
diffusero in ogni punto del campo. I nemici, tra alte grida, come
se avessero già la vittoria in pugno, cominciarono a spingere in
avanti le torri e le testuggini, a tentar di salire sul nostro
vallo con scale. I nostri, nonostante il calore sprigionato
ovunque dalle fiamme e il nugolo di dardi che pioveva su di loro
e sebbene si rendessero conto che tutti i bagagli e ogni loro
bene era perduto, diedero una tal prova di valore e presenza di
spirito, che nessuno si mosse e abbandonò il vallo in fuga, anzi,
non girarono neanche le teste: tutti si batterono con estrema
tenacia e straordinario coraggio. Per i nostri fu il giorno più
duro in assoluto, ma col risultato che, proprio in esso, i nemici
subirono il maggior numero di perdite, tra morti e feriti, perché
si erano ammassati proprio ai piedi del vallo e gli ultimi
impedivano ai primi la ritirata. Le fiamme erano un po' calate e,
in una zona, una torre nemica era stata spinta contro il vallo; i
centurioni della terza coorte ripiegarono dal settore in cui si
trovavano e ordinarono a tutti i loro di retrocedere, poi con
cenni e grida cominciarono a chiamare il nemico, sfidandolo a
entrare: nessuno osò farsi avanti. Allora i nostri, da ogni
parte, scagliarono pietre e i Galli vennero dispersi; la torre fu
incendiata.
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In quella legione militavano due centurioni di grande valore, T.
Pullone e L. Voreno, che stavano raggiungendo i gradi più alti.
I due erano in costante antagonismo su chi doveva esser anteposto
all'altro e ogni anno gareggiavano per la promozione, con rivalità
accanita. Mentre si combatteva aspramente nei pressi delle nostre
difese, Pullone disse: "Esiti, Voreno? Che grado ti aspetti
a ricompensa del tuo valore? Ecco il giorno che deciderà le
nostre controversie!" Ciò detto, scavalca le difese e si
getta contro lo schieramento nemico dove sembrava più fitto.
Neppure Voreno, allora, resta entro il vallo, ma, temendo il
giudizio di tutti, segue Pullone. A poca distanza dai nemici,
questi scaglia il giavellotto contro di loro e ne colpisce uno,
che correva in testa a tutti; i compagni lo soccorrono, caduto e
morente, proteggendolo con gli scudi, mentre tutti insieme
lanciano dardi contro Pullone, impedendogli di avanzare. Anzi, il
suo scudo viene passato da parte a parte e un veruto gli si
pianta nel balteo, spostandogli il fodero della spada: così,
mentre cerca di sguainarla con la destra, perde tempo e, nell'intralcio
in cui si trova, viene circondato. Subito il suo rivale Voreno si
precipita e lo soccorre in quel difficile frangente. Su di lui
convergono subito tutti i nemici, trascurando Pullone: lo credono
trafitto dal veruto. Voreno combatte con la spada, corpo a corpo,
uccide un avversario e costringe gli altri a retrocedere
leggermente, ma, trasportato dalla foga, cade a capofitto in un
fosso. Viene circondato a sua volta e trova sostegno in Pullone:
tutti e due, incolumi, si riparano entro le nostre difese, dopo
aver ucciso molti nemici ed essersi procurati grande onore. Così
la Fortuna, in questa loro sfida e contesa, dispose di essi in
modo che ognuno recasse all'antagonista aiuto e salvezza e che
non fosse possibile giudicare a quale dei due, per valore,
toccasse il premio per il valore.
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Quanto più l'assedio diventava, di giorno in giorno, duro e
insostenibile (soprattutto perché la maggior parte dei soldati
era ferita e il numero dei difensori si era ridotto a ben poca
cosa), tanto più di frequente venivano inviate lettere e messi a
Cesare: alcuni di loro, catturati, vennero uccisi tra i supplizi
al cospetto dei nostri soldati. Nell'accampamento c'era un Nervio,
di nome Verticone, persona di nobili natali: fin dall'inizio dell'assedio
era passato dalla parte di Cicerone e gli aveva giurato fedeltà
assoluta. Verticone persuade un suo servo a portare una lettera a
Cesare e gli promette la libertà e grosse ricompense. Costui
porta fuori dal campo la lettera legata al suo giavellotto: Gallo,
tra Galli, si muove senza destare alcun sospetto e raggiunge
Cesare, informandolo dei pericoli che incombono su Cicerone e la
sua legione.
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Cesare, ricevuta la lettera verso le cinque di pomeriggio, invia
immediatamente nelle terre dei Bellovaci un messaggero al
questore M. Crasso, il cui campo invernale distava circa
venticinque miglia; gli ordina di mettersi in marcia con la
legione a mezzanotte e di raggiungerlo in fretta. Crasso lascia
il campo con l'emissario. Cesare ne invia un altro al legato C.
Fabio e gli comunica di guidare la legione nei territori degli
Atrebati, da dove sapeva di dover transitare. Scrive a Labieno di
venire con la legione nelle terre dei Nervi, se la sua partenza
non era di danno per gli interessi di Roma. Ritiene di non dover
aspettare il resto dell'esercito, stanziato un po' troppo lontano;
dai campi invernali più vicini raccoglie circa quattrocento
cavalieri.
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Le staffette, verso le nove di mattina, lo informano dell'arrivo
di Crasso ed egli, per quel giorno, avanza di circa venti miglia.
Destina Crasso a Samarobriva e gli attribuisce il comando della
legione perché lasciava lì le salmerie dell'esercito, gli
ostaggi delle varie popolazioni, i documenti ufficiali e tutto il
grano trasportato per affrontare l'inverno. Fabio con la sua
legione, secondo gli ordini, senza perdere troppo tempo, si
ricongiunge con lui mentre era in marcia. Quando Labieno era
ormai al corrente della morte di Sabino e della strage delle
coorti, i Treveri giungono con tutto l'esercito: egli ebbe paura,
se lasciava il campo con una partenza simile a una fuga, di non
riuscire a tener testa all'assalto dei nemici, tanto più che li
sapeva imbaldanziti per la recente vittoria. Perciò, scrive a
Cesare il pericolo a cui si troverebbe esposta la legione guidata
fuori dall'accampamento, gli illustra le vicende accadute tra gli
Eburoni e lo informa che la fanteria e la cavalleria dei Treveri,
al gran completo, si erano insediate a tre miglia di distanza dal
suo campo.
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Cesare approvò la decisione di Labieno e, benché, così, caduta
la speranza di contare su tre legioni, dovesse accontentarsi di
due, continuava a pensare che l'unica via di salvezza comune
consistesse nella rapidità di azione. A marce forzate raggiunge
la regione dei Nervi. Qui, dai prigionieri apprende che cosa
succede nel campo di Cicerone e come la situazione sia critica.
Allora, offrendogli un forte compenso, persuade uno dei cavalieri
galli a portare a Cicerone una lettera. La scrive in greco, per
evitare che i nemici, in caso di intercettazione, scoprissero i
nostri piani. Dà ordine al Gallo, se non fosse riuscito a
penetrare nel campo romano, di scagliare all'interno delle
fortificazioni una tragula, con la lettera legata alla correggia.
Nella missiva scrive che era già in marcia con le legioni e che
presto sarebbe giunto; esorta Cicerone a mostrarsi all'altezza
dell'antico valore. Il Gallo, temendo il pericolo, scaglia la
tragula secondo gli ordini ricevuti. Il caso volle che si
conficcasse in una torre e che per due giorni i nostri non se ne
accorgessero. Il terzo giorno viene notata da un soldato, divelta
e consegnata a Cicerone. Egli legge attentamente la missiva e poi
ne comunica il contenuto pubblicamente, con grande gioia di tutti.
Al tempo stesso si scorgevano, in lontananza, fumi di fuochi:
ogni dubbio sull'arrivo delle legioni venne fugato.
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I Galli, informati del fatto dagli esploratori, tolgono l'assedio
e con tutte le truppe, circa sessantamila armati, si dirigono
contro Cesare. Cicerone, grazie all'intervento del solito
Verticone - se n'è già parlato - trova un Gallo che recapiti
una lettera a Cesare, visto che era possibile, e lo avverte di
muoversi con cautela e attenzione; nella missiva spiega a Cesare
che il nemico si era allontanato e che, in forze, stava
dirigendosi contro di lui. La lettera, verso mezzanotte, perviene
a Cesare, che informa i suoi e li incoraggia in vista della
battaglia. L'indomani, all'alba, sposta l'accampamento e,
percorse circa quattro miglia, avvista la massa dei nemici tra
una valle e un corso d'acqua. Era molto rischioso combattere su
un terreno sfavorevole e avendo truppe così esigue; allora,
sapendo che Cicerone era stato liberato dall'assedio, in tutta
serenità non riteneva necessario stringere i tempi. Si ferma
dunque e fortifica il campo nel posto che offriva più vantaggi;
sebbene l'accampamento fosse già, per sé, di modeste
proporzioni (era per appena settemila uomini e, per di più,
privi di bagagli), lo rende ancor più piccolo stringendo al
massimo i passaggi, per indurre il nemico al più profondo
disprezzo. Nel frattempo, mediante esploratori inviati in tutte
le direzioni, esamina quale sia il percorso più agevole per
attraversare la valle.
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Quel giorno si verificarono solo scaramucce di cavalleria nei
pressi del corso d'acqua, mentre entrambi gli eserciti tenevano
le proprie posizioni: i Galli in quanto aspettavano l'arrivo di
truppe ancor più numerose, non ancora giunte; Cesare nella
speranza di riuscire, simulando timore, ad attirare sul suo
terreno i nemici per combattere al di qua della valle, dinnanzi
al campo, o, in caso contrario, per riuscire, una volta esplorate
le strade, ad attraversare la valle e il corso d'acqua con minore
pericolo. All'alba la cavalleria avversaria si avvicina al campo
e attacca battaglia con i nostri cavalieri. Cesare, di proposito,
ordina ai suoi di ritirarsi e di rientrare all'accampamento. Al
tempo stesso, comanda di rinforzare con un vallo più alto tutti
i lati del campo e di ostruire le porte; dà ordine ai soldati di
eseguire le operazioni con estrema precipitazione e di simulare
paura.
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I nemici, attirati da tutto ciò, varcano il fiume con le loro
truppe e le schierano in un luogo sfavorevole. Mentre i nostri
abbandonano il vallo, gli avversari si avvicinano ancor più e da
tutti i lati scagliano dardi all'interno delle fortificazioni.
Poi, mandano araldi tutt'intorno al campo e annunziano quanto
segue: era consentito a chiunque lo volesse, Gallo o Romano, di
passare dalla loro parte, senza alcun pericolo, entro le nove di
mattina; scaduto il termine, nessuno ne avrebbe più avuto la
facoltà. Disprezzarono i nostri a tal punto, che alcuni dei loro
cominciarono a smantellare il vallo con le mani, altri a riempire
i fossati, perché non ritenevano possibile un'irruzione dalle
porte, ostruite per finta da una sola fila di zolle. Allora
Cesare, con una sortita da tutte le porte, lancia la cavalleria
alla carica e mette in fuga gli avversari, senza che neppure uno
riuscisse a combattere e resistere: ne uccide molti, li costringe
tutti a gettare le armi.
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Cesare ritenne rischioso spingersi troppo in là, perché si
frapponevano selve e paludi, e si rendeva conto che non c'era
modo di infliggere agli avversari il benché minimo danno. Così,
quel giorno stesso, senza nessuna perdita, raggiunge Cicerone.
Qui, con stupore, vede le torri costruite, le testuggini e le
fortificazioni dei nemici; quando la legione viene schierata, si
rende conto che neanche un soldato su dieci è illeso; da tutti
questi elementi giudica con quanto pericolo e con quale valore
sia stata affrontata la situazione: loda pubblicamente per i suoi
meriti Cicerone e i soldati, chiama individualmente i centurioni
e i tribuni militari che - lo sapeva per testimonianza di
Cicerone - si erano distinti per singolare valore. Dai
prigionieri apprende altri particolari sulla fine di Sabino e
Cotta. Il giorno seguente riunisce le truppe, descrive l'accaduto,
ma rincuora e rassicura i soldati; spiega che il rovescio, subito
per colpa e imprudenza di un legato, doveva essere sopportato con
animo tanto più sereno, in quanto, per beneficio degli dèi
immortali e per il loro valore, il disastro era stato vendicato;
la gioia dei nemici era stata breve, quindi il loro dolore non
doveva durare troppo a lungo.
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