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Cesare
De Bello Gallico
libro VI, cap 1-24
1
Per molte ragioni Cesare si attendeva una più grave sollevazione
della Gallia, perciò decide di operare un reclutamento mediante
i suoi legati M. Silano, C. Antistio Regino e T. Sestio. Al tempo
stesso, al proconsole Cn. Pompeo, rimasto nelle vicinanze di Roma
con un comando militare per il bene dello stato, chiede di
radunare e inviargli i soldati che aveva già arruolato e fatto
giurare nella Gallia cisalpina quand'era console. Al fine di
mantenere il buon concetto che i Galli avevano di noi, riteneva
estremamente importante, anche per il futuro, che vedessero quali
erano le risorse dell'Italia: i Romani, se anche subivano un
rovescio in guerra, erano in grado non solo di rimediare in poco
tempo alle perdite, ma addirittura di aumentare il numero degli
effettivi. Pompeo, sia nell'interesse pubblico, sia per ragioni
di amicizia, acconsentì. Completato con celerità l'arruolamento
tramite i legati, prima della fine dell'inverno vennero formate
tre legioni e condotte in Gallia. Cesare raddoppiò, così, il
numero delle coorti rispetto a quelle perse con Q. Titurio e,
grazie alla rapidità e all'entità del reclutamento, dimostrò
di che cosa fossero capaci l'organizzazione e i mezzi di Roma.
2
Dopo l'uccisione di Induziomaro, come abbiamo descritto, i
Treveri affidano il comando ai suoi parenti, che non desistono
dal sobillare i Germani limitrofi, promettendo denaro. Non avendo
ottenuto risultato con i Germani vicini, tentano con i più
lontani. Trovate alcune genti disposte all'azione, a esse si
vincolano con giuramento solenne; quanto al denaro, garantiscono
con ostaggi. Accolgono nella loro lega e patto Ambiorige.
Informato di ciò, Cesare si accorse che, ovunque, erano in corso
preparativi di guerra: i Nervi, gli Atuatuci, i Menapi erano in
armi, uniti a tutti i Germani stanziati al di qua del Reno; i
Senoni non rispondevano alle convocazioni e si accordavano con i
Carnuti e i popoli limitrofi; i Treveri facevano pressione sui
Germani con frequenti ambascerie. Quindi, ritenne di dover
pensare alla guerra più presto del solito.
3
Perciò, prima ancora della fine dell'inverno, radunò le quattro
legioni più vicine e, inatteso, puntò sui territori dei Nervi:
non lasciò ai nemici il tempo di accorrere o fuggire e,
catturati molti capi di bestiame e uomini, che concesse come
preda ai soldati, devastò i campi e costrinse i Nervi alla resa
e alla consegna di ostaggi. Terminate con rapidità le operazioni,
ricondusse le legioni negli accampamenti invernali. Indetto,
secondo il solito, un concilio della Gallia per l'inizio della
primavera, si presentarono tutti, tranne i Senoni, i Carnuti e i
Treveri. Cesare lo considera segno dell'inizio delle ostilità e
della ribellione e, per dimostrare che metteva in secondo piano
ogni altro problema, trasferisce il concilio a Lutezia, città
dei Parisi. Costoro confinavano con i Senoni e a essi si erano
uniti all'epoca dei nostri padri, ma non prendevano parte, si
riteneva, al piano di sollevazione. Comunicato dalla tribuna il
cambiamento di sede, il giorno stesso si dirige, con le legioni,
verso le terre dei Senoni, dove giunge a marce forzate.
4
Saputo del suo arrivo, Accone, responsabile del piano, ordina
alla popolazione di rifugiarsi nelle città. Mentre il tentativo
era in corso, prima che le operazioni fossero ultimate, viene
annunziato che i Romani sono giunti. I Senoni sono costretti a
rinunciare ai loro propositi e inviano un'ambasceria a Cesare per
scongiurarne il perdono: inoltrano la supplica attraverso gli
Edui, che da antico tempo li tutelavano. Dal momento che la
richiesta veniva dagli Edui, Cesare concede volentieri il perdono
e accetta le giustificazioni, ritenendo che quell'estate fosse la
stagione di una guerra imminente, e non dei processi. Esige cento
ostaggi e li affida alla custodia degli Edui. Anche i Carnuti gli
inviano messi e ostaggi, avvalendosi dell'intercessione dei Remi,
di cui erano clienti: ottengono la stessa risposta. Cesare chiude
il concilio e impone alle genti galliche di fornirgli cavalieri.
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Pacificata questa zona della Gallia, Cesare impegna mente e animo,
totalmente, nella guerra contro i Treveri e Ambiorige. Ordina a
Cavarino di assumere il comando della cavalleria dei Senoni e di
seguirlo, per evitare sedizioni dovute al carattere iracondo del
Gallo oppure all'odio che costui si era meritato da parte della
sua gente. Prese tali decisioni, Cesare, sapendo per certo che
Ambiorige non si sarebbe misurato in uno scontro aperto, cercava
di scoprire quali altre soluzioni rimanessero all'avversario. Con
gli Eburoni confinavano i Menapi, protetti da sterminate paludi e
selve, l'unico popolo della Gallia a non aver mai inviato messi a
Cesare per trattare la pace. Cesare conosceva i vincoli di
ospitalità tra Ambiorige e i Menapi ed era pure al corrente che,
tramite i Treveri, il Gallo aveva stretto rapporti d'alleanza con
i Germani. Stimava necessario sottrargli ogni appoggio, piuttosto
che provocarlo a battaglia: non voleva che Ambiorige, sentendosi
perduto, fosse costretto a rifugiarsi nelle terre dei Menapi o a
unirsi ai Germani d'oltre Reno. Con questa intenzione invia a
Labieno, nel paese dei Treveri, tutte le salmerie dell'esercito e
dà ordine a due legioni di raggiungerlo. Dal canto suo, con
cinque legioni senza bagagli marcia sui Menapi. Costoro, senza
neppure radunare truppe, confidando nelle sole difese naturali
del luogo, si rifugiano nelle selve e nelle paludi, ammassandovi
tutti i loro beni.
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Cesare divide le truppe con il legato C. Fabio e il questore M.
Crasso, costruisce con rapidità ponti sulle paludi e avanza su
tre fronti: incendia gli edifici isolati e i villaggi, cattura un
gran numero di capi di bestiame e di uomini. I Menapi, nella
morsa della necessità, gli inviano ambasciatori per chiedere
pace. Cesare riceve gli ostaggi e dichiara che, se avessero
accolto nei loro territori Ambiorige o suoi emissari, li avrebbe
considerati nemici. Sistemata la questione, lascia tra i Menapi,
a sorvegliare la regione, l'atrebate Commio con la cavalleria e
punta contro i Treveri.
7
Mentre Cesare conduceva tali operazioni, i Treveri, raccolte
ingenti forze di fanteria e cavalleria, preparavano l'attacco a
Labieno e alla legione che aveva svernato nei loro territori. Non
distavano, ormai, più di due giorni di cammino da Labieno,
quando vengono a sapere dell'arrivo di due legioni, inviate da
Cesare. Pongono il campo a quindici miglia dai nostri e decidono
di aspettare i rinforzi dei Germani. Labieno, conosciute le
intenzioni dei nemici, spera che la loro imprudenza gli offra l'occasione
per uno scontro: lasciate cinque coorti a presidio delle salmerie,
con venticinque coorti e una forte cavalleria si dirige contro il
nemico. Alla distanza di un miglio dai Treveri fortifica il campo.
Tra Labieno e il nemico scorreva un fiume difficile da guadare,
che aveva le rive scoscese. Né lui aveva intenzione di
attraversarlo, né pensava che lo avrebbero fatto i nemici, tra i
quali ogni giorno cresceva la speranza dei rinforzi. Al consiglio
di guerra Labieno rende noto apertamente che, essendo i Germani
in arrivo, a quanto si diceva, non intendeva esporre a rischi se
stesso, né l'esercito; perciò, il giorno seguente, all'alba,
avrebbe tolto il campo. Ben presto la notizia viene riportata ai
nemici: dei molti cavalieri galli, alcuni erano spinti - com'è
naturale - a favorire la causa del loro paese. Labieno, convocati
di notte i tribuni militari e i centurioni più alti in grado,
espone il suo piano e, per dare con più facilità al nemico l'impressione
di panico tra i nostri, ordina di levare il campo con uno
strepito e tumulto insoliti per l'esercito del popolo romano. Così,
rende la partenza simile a una fuga. Vicini com'erano i due
accampamenti, prima dell'alba i nemici vengono informati anche di
ciò dai loro esploratori.
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La retroguardia era appena uscita dalle fortificazioni, che i
Galli si spronano a vicenda a non lasciarsi sfuggire dalle mani
la preda sperata: sarebbe stato troppo lungo, con i Romani
atterriti, aspettare i rinforzi dei Germani; per la loro dignità
era inammissibile, numerosi com'erano, non osare l'attacco a un
reparto nemico così esiguo e, oltretutto, in fuga e carico di
bagagli. Così, non esitano a varcare il fiume e a venire a
battaglia in posizione di svantaggio. Labieno, avendo previsto
ogni mossa, allo scopo di attirare tutti i nemici al di qua del
fiume continuava nella sua finzione e proseguiva la marcia,
lentamente. Poi, inviate le salmerie un po' più avanti e
avendole disposte su di un rialzo, disse: "Soldati, avete l'occasione
che vi auguravate: tenete in pugno il nemico, in un luogo
malagevole e per loro svantaggioso; date prova, adesso, sotto la
nostra guida, dello stesso valore che più di una volta avete
dimostrato al comandante in capo, fate conto che lui sia qui e
che assista allo scontro di persona". Contemporaneamente
ordina di volgere le insegne contro il nemico e di formare la
linea di battaglia, invia pochi squadroni a presidio delle
salmerie e dispone il resto della cavalleria sulle ali. I nostri
rapidamente, tra alte grida, scagliano i giavellotti sui nemici.
Costoro, quando contro ogni aspettativa videro i Romani volgere
le insegne e avanzare, mentre li credevano già in fuga, non
riuscirono neanche a sostenerne l'urto: al primo assalto
batterono in ritirata e cercarono rifugio nelle selve più vicine.
Labieno li inseguì con la cavalleria, ne uccise molti e ne fece
prigionieri parecchi: pochi giorni dopo i Treveri si arresero.
Infatti, i Germani, che venivano in loro aiuto, avuta notizia
della fuga dei Treveri, rientrarono in patria. Al loro seguito
lasciarono il paese i parenti di Induziomaro, che avevano
istigato alla defezione. A Cingetorige, rimasto fedele fin dall'inizio,
come abbiamo ricordato, fu conferito il principato e il comando.
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Cesare, appena giunto dalle terre dei Menapi nella regione dei
Treveri, decise di varcare il Reno per due motivi: primo, i
Germani avevano mandato aiuti ai Treveri contro di lui; secondo,
non voleva che Ambiorige trovasse rifugio presso di loro. Presa
tale decisione, comincia a costruire un ponte poco più a nord
del luogo in cui, in passato, l'esercito aveva varcato il fiume.
Essendo la maniera di fabbricarlo già nota e sperimentata, l'opera
viene realizzata in pochi giorni grazie al grande impegno dei
soldati. A un capo del ponte, nelle terre dei Treveri, per
impedirne un'improvvisa sollevazione, lascia un saldo presidio e
guida, sull'altra riva, il resto delle truppe e la cavalleria.
Gli Ubi, che in precedenza avevano consegnato ostaggi e si erano
sottomessi, inviano a Cesare un'ambasceria per discolparsi: non
avevano inviato rinforzi ai Treveri, né violato i patti. Gli
chiedono, lo scongiurano di risparmiarli, di non accomunarli ai
Germani nel suo odio, perché non volevano, innocenti, pagare per
chi innocente non era; se chiedeva altri ostaggi, erano pronti a
consegnarli. Cesare, fatta luce sull'accaduto, scopre che i
rinforzi erano stati inviati dagli Svevi. Accetta le spiegazioni
degli Ubi, si informa in modo dettagliato sulle vie d'accesso
alle terre degli Svevi.
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Intanto, pochi giorni dopo, gli Ubi lo avvertono che gli Svevi
stavano concentrando tutte le truppe in un solo luogo e che
imponevano ai popoli sottomessi l'invio di rinforzi di fanteria e
cavalleria. Saputo ciò, Cesare provvede alle scorte di grano,
sceglie un luogo adatto all'accampamento e ordina agli Ubi di
portar via i capi di bestiame e di ammassare ogni bene dalle
campagne nelle città. Sperava che i nemici, barbari e inesperti
com'erano, si lasciassero indurre ad accettare lo scontro anche
in posizione di svantaggio, costretti a ciò dalla mancanza di
viveri. Incarica gli Ubi di inviare molti esploratori nelle zone
degli Svevi per spiarne le mosse. Gli Ubi eseguono gli ordini e,
pochi giorni dopo, riferiscono: tutti gli Svevi, avute notizie più
sicure sull'esercito dei Romani, si erano ritirati lontano, nei
loro territori più remoti, con tutte le truppe e i contingenti
alleati da essi raccolti; lì si trovava una foresta sterminata,
di nome Bacenis, che si estendeva profonda verso l'interno e
formava una sorta di barriera naturale tra i Cherusci e gli Svevi,
impedendo agli uni e agli altri violenze e incursioni: sul
limitare della foresta gli Svevi avevano deciso di attendere l'arrivo
dei Romani.
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Giunti a questo punto, non ci sembra fuori luogo esporre i
costumi della Gallia e della Germania e le differenze tra le due
nazioni. In Gallia non solo tutti i popoli, le tribù e i gruppi,
ma addirittura quasi tutte le famiglie sono divise in fazioni. A
capo di esse sta chi, secondo l'opinione dei Galli, è
considerato più autorevole, ed egli è arbitro e giudice in
tutti gli affari e le deliberazioni. A quanto pare, l'istituzione
risaliva a tempi antichi, al fine di garantire alla gente del
popolo sostegno contro i più potenti. Infatti, il capo di ogni
fazione non permette che la sua gente subisca violenze o raggiri;
in caso contrario, tra i suoi perde ogni autorità. Lo stesso
sistema regola ogni aspetto della vita in Gallia, tant'è vero
che tutti i popoli sono divisi in due fazioni.
12
Al momento dell'arrivo di Cesare in Gallia, una fazione faceva
capo agli Edui, l'altra ai Sequani. Quest'ultimi, di per sé meno
influenti - fin dai tempi antichi la massima autorità era nelle
mani degli Edui, che avevano molti clienti - si erano uniti ai
Germani e ad Ariovisto, attirandoli con grandi elargizioni e
promesse. Riportati diversi successi in battaglia ed eliminati
tutti i nobili edui, i Sequani avevano superato in potenza gli
Edui stessi, al punto da sottrarre loro la maggior parte dei
popoli soggetti, da costringerli a dare in ostaggio i figli dei
capi e a giurare pubblicamente di non intraprendere nulla contro
di loro; inoltre, si erano impadroniti, con le armi, di una parte
del territorio eduo contiguo al loro e avevano ottenuto la
supremazia su tutta la Gallia. Diviziaco, spinto dalla necessità,
si era recato a Roma, dal senato, per chiedere aiuto, ma era
ritornato con un nulla di fatto. L'arrivo di Cesare aveva
prodotto un vero e proprio capovolgimento: gli Edui si erano
visti rendere gli ostaggi, avevano recuperato i vecchi clienti,
ne avevano acquisito di nuovi, grazie a Cesare, perché i popoli
che si ponevano sotto la loro tutela si accorgevano di ricevere
un trattamento migliore e di sottostare a un dominio più equo.
Quanto al resto, il prestigio e la dignità degli Edui erano
cresciuti, i Sequani avevano perso l'egemonia. Al loro posto
erano subentrati i Remi. Il favore di Cesare per gli Edui e i
Remi era identico, lo si capiva, perciò i popoli che, per
antiche inimicizie, non potevano assolutamente legarsi ai primi,
si facevano clienti dei secondi, che li proteggevano con ogni
cura, mantenendo, in tal modo, un prestigio nuovo e assunto di
colpo. Quindi, al momento, la situazione era la seguente: gli
Edui erano considerati i primi in assoluto, i Remi occupavano, in
dignità, il secondo posto.
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In tutta la Gallia ci sono due classi di persone tenute in un
certo conto e riguardo. La gente del popolo, infatti, è
considerata quasi alla stregua dei servi, non prende iniziative e
non viene ammessa alle assemblee. I più, oberati dai debiti, dai
tributi gravosi o dai soprusi dei potenti, si mettono al servizio
dei nobili, che su di essi godono degli stessi diritti che hanno
i padroni sugli schiavi. Delle due classi, dunque, la prima
comprende i druidi, l'altra i cavalieri. I druidi si occupano
delle cerimonie religiose, provvedono ai sacrifici pubblici e
privati, regolano le pratiche del culto. Moltissimi giovani
accorrono a istruirsi dai druidi, che tra i Galli godono di
grande onore. Infatti, risolvono quasi tutte le controversie
pubbliche e private e, se è stato commesso un reato, se c'è
stato un omicidio, oppure se sorgono problemi d'eredità o di
confine, sono sempre loro a giudicare, fissando risarcimenti e
pene. Se qualcuno - si tratti di un privato cittadino o di un
popolo - non si attiene alle loro decisioni, gli interdicono i
sacrifici. È la pena più grave tra i Galli. Chi ne è stato
colpito, viene considerato un empio, un criminale: tutti si
scostano alla sua vista, lo evitano e non gli rivolgono la parola,
per non contrarre qualche sciagura dal suo contatto; non è
ammesso a chiedere giustizia, né può essere partecipe di
qualche carica. Tutti i druidi hanno un unico capo, che gode
della massima autorità. Alla sua morte, ne prende il posto chi
preceda gli altri druidi in prestigio, oppure, se sono in
parecchi ad avere uguali meriti, la scelta è lasciata ai voti
dei druidi, ma talvolta si contendono la carica addirittura con
le armi. In un determinato periodo dell'anno si radunano in un
luogo consacrato, nella regione dei Carnuti, ritenuta al centro
di tutta la Gallia. Chi ha delle controversie, da ogni regione
qui si reca e si attiene alla decisione e al verdetto dei druidi.
Si crede che la loro dottrina sia nata in Britannia e che, da lì,
sia passata in Gallia: ancor oggi, chi intende approfondirla, in
genere si reca sull'isola per istruirsi.
14
I druidi, di solito, non prendono parte alle guerre e non pagano
tributi come gli altri, sono esentati dal servizio militare e
dispensati da ogni altro onere. Con la prospettiva di così
grandi privilegi, molti giovani si accostano spontaneamente a
questa dottrina, molti altri vengono inviati dai loro genitori e
parenti ad apprenderla. Presso i druidi, a quanto si dice,
imparano a memoria un gran numero di versi. E alcuni proseguono
gli studi per oltre vent'anni. Non ritengono lecito affidare i
loro insegnamenti alla scrittura, mentre per quasi tutto il resto,
per gli affari pubblici e privati, usano l'alfabeto greco. A mio
parere, hanno stabilito così per due motivi: non vogliono che la
loro dottrina venga divulgata tra il popolo, e neppure che i
discepoli, fidando nella scrittura, esercitino la memoria con più
scarso impegno, come accade quasi a tutti, che, valendosi dello
scritto, si applicano meno nello studio e trascurano la memoria.
Il loro principale insegnamento riguarda l'immortalità dell'anima,
che dopo la morte - sostengono - passa da un corpo ad un altro.
Lo ritengono un grandissimo incentivo al coraggio, poiché viene
eliminata la paura di morire. Inoltre, sulle stelle e il loro
moto, sulla dimensione del cielo e della terra, sulla natura,
sulla potenza e la potestà degli dèi immortali discutono molto
e tramandano questo patrimonio ai giovani.
15
L'altra è la classe dei cavalieri. Quando ce n'è bisogno
scoppia qualche guerra (prima dell'arrivo di Cesare quasi ogni
anno se ne verificavano, sia che fossero i Galli ad attaccare,
sia che dovessero difendersi), i cavalieri partecipano al
completo alle operazioni militari. Quanto più uno è influente
per nascita e mezzi, tanto più si circonda di ambacti e di
clienti: è l'unica forma di prestigio e di potere che conoscano.
16
Il popolo dei Galli, nel suo complesso, è oltremodo religioso.
Per tale motivo, chi è afflitto da malattie di una certa gravità
e chi rischia la vita in battaglia o è esposto ai pericoli,
immola o fa voto di immolare vittime umane e si vale dei druidi
come ministri dei sacrifici. Ritengono, infatti, che gli dèi
immortali non possano venir placati, se non si offre la vita di
un uomo in cambio della vita di un altro uomo. Celebrano anche
istituzionalmente sacrifici di tal genere. Alcuni popoli hanno
figure umane di enormi dimensioni, di vimini intrecciati, che
vengono riempite di uomini ancor vivi: si appicca il fuoco e le
persone prigioniere lì dentro, avvolte dalle fiamme, muoiono.
Credono che agli dèi immortali sia più gradito, tra tutti, il
supplizio di chi è stato sorpreso a commettere furti, ladrocini
o altri delitti, ma quando mancano vittime di questo tipo, si
risolvono anche a suppliziare chi è innocente.
17
Il dio più venerato è Mercurio: ne hanno moltissimi simulacri.
Lo ritengono inventore di tutte le arti, guida delle vie e dei
viaggi, credono che, più di ogni altro, abbia il potere di
favorire i guadagni e i commerci. Dopo di lui adorano Apollo,
Marte, Giove e Minerva. Su tutti questi dèi la pensano, all'incirca,
come le altre genti: Apollo guarisce le malattie, Minerva insegna
i principi dei lavori manuali, Giove è il re degli dèi, Marte
governa le guerre. A quest'ultimo, in genere, quando decidono di
combattere, offrono in voto il bottino di guerra: in caso di
vittoria, immolano gli animali catturati e ammassano il resto in
un unico luogo. Nei territori di molti popoli è possibile vedere,
in zone consacrate, tumuli costruiti con tali spoglie. E ben di
rado accade che uno, sfidando il voto religioso, osi nascondere a
casa sua il bottino o sottrarre qualcosa dai tumuli: per una
colpa del genere è prevista una morte terribile tra le torture.
18
I Galli affermano di discendere tutti dal padre Dite e dicono che
siano i druidi a tramandarlo. Per tale motivo calcolano il tempo
non sulla base dei giorni, ma delle notti. E anche i compleanni e
i primi giorni del mese e dell'anno li osservano a partire dalla
notte fino al giorno successivo. Per quanto riguarda gli altri
usi quotidiani differiscono dai rimanenti popoli quasi solo per
il seguente aspetto: non permettono che i figli li avvicinino
davanti a tutti, se non quando, cresciuti, sono ormai in grado di
prestare servizio militare, e considerano una vergogna che un
figlio, in giovane età, si presenti davanti al padre in pubblico.
19
Gli uomini, fatta la stima della dote portata dalle mogli,
mettono in comune, dal loro patrimonio, l'equivalente dei beni
ricevuti. Si fa un computo unico della somma e se ne conservano
gli interessi: chi dei due sopravvive all'altro, entra in
possesso dei beni di entrambi con i frutti degli anni precedenti.
Gli uomini hanno diritto di vita e di morte sulle mogli come sui
figli. Quando muore un capofamiglia di un certo riguardo, i
parenti si riuniscono e, se nasce qualche sospetto sulla sua
morte, interrogano le mogli come si fa con i servi: se risultano
colpevoli, le uccidono dopo averle torturate col fuoco e supplizi
d'ogni sorta. I funerali sono, in rapporto alla civiltà dei
Galli, magnifici e sontuosi; depongono sulla pira ogni cosa cara
in vita al defunto, anche gli animali. E fino a poco tempo fa,
insieme al morto, venivano cremati, con le dovute esequie, i
servi e i clienti che si sapevano da lui prediletti.
20
Presso i popoli che, secondo l'opinione comune, sono meglio
organizzati, la legge prescrive che se uno sente, dalle genti
limitrofe, voci o notizie riguardanti lo stato, deve informare il
magistrato senza farne cenno ad altri, perché spesso, si sa, gli
uomini avventati e inesperti si lasciano atterrire dalle false
notizie, sono spinti a commettere delitti e prendono decisioni
sui problemi più importanti. I magistrati tengono segreto ciò
che sembra loro opportuno e divulgano le altre notizie
considerate utili. Non è permesso trattare questioni di stato se
non nelle assemblee.
21
I Germani hanno consuetudini molto diverse. Infatti, non hanno
druidi che presiedano alle cerimonie religiose, né si occupano
di sacrifici. Considerano dèi solo quelli che vedono e dal cui
aiuto traggono giovamento palese: il Sole, Vulcano, la Luna.
Degli altri dèi non hanno neanche sentito parlare. Passano tutta
la vita tra cacce e addestramento alla guerra: fin dall'infanzia
si abituano alla fatica e alla vita dura. Quanto più a lungo un
giovane rimane casto, tanto più riceve le lodi della sua gente:
ritengono che ciò aumenti la statura, accresca la robustezza
fisica e il vigore. E stimano tra le cose più vergognose aver
rapporti intimi con una donna prima dei vent'anni; ma il sesso
non viene nascosto, in quanto maschi e femmine si lavano insieme
nei fiumi, indossano pelli o giubbotti di pelliccia che lasciano
scoperta gran parte del corpo.
22
Non praticano l'agricoltura, il loro vitto consiste, per la
maggior parte, di latte, formaggio e carne. Nessuno ha in proprio
un terreno fisso o un possesso personale. Anzi, alle genti e ai
nuclei familiari in cui i parenti convivono, i magistrati e i
capi attribuiscono, di anno in anno, la quantità di terra e la
zona ritenute giuste, ma l'anno successivo li costringono a
spostarsi altrove. Forniscono, in merito, molteplici spiegazioni.
Non vogliono che la gente, vinta da una costante abitudine,
sostituisca la guerra con l'agricoltura, che desideri procurarsi
appezzamenti più estesi e che i più potenti scaccino dai loro
campi i meno forti. Non vogliono che vengano costruite case
confortevoli per difendersi dal freddo e dal caldo, che nasca la
brama di denaro, fonte di fazioni e dissensi, cercano di tenere a
bada il popolo con la serenità d'animo, quando ciascuno si renda
conto di possedere quanto i più potenti.
23
Il vanto maggiore per le loro genti è, devastate le zone di
confine, di avere intorno a sé dei deserti, nel raggio più
ampio. Ritengono segno distintivo del valore se i vicini,
scacciati dai loro territori, si ritirano e nessuno osa
stabilirsi nei pressi. Al contempo, si sentono più al sicuro,
eliminato il timore di un'incursione improvvisa. Quando un popolo
entra in guerra, per difendersi o attaccare, vengono scelti dei
magistrati per guidarli, ed essi hanno potere di vita e di morte.
In tempo di pace non ci sono magistrati comuni, ma i capi delle
varie regioni e tribù, al loro interno, amministrano la
giustizia e appianano le controversie. Il ladrocinio non comporta
disonore, se commesso fuori dei territori di ciascun popolo, anzi,
lo consigliano per esercitare i giovani e diminuire l'inerzia. E
quando, durante l'assemblea, uno dei capi si dichiara pronto a
guidare una spedizione e chiede ai volontari di farsi avanti, chi
è favorevole all'impresa e all'uomo si alza e promette il
proprio sostegno, tra le lodi generali; chi, invece, non si
unisce alla spedizione, viene considerato nel novero dei
disertori e dei traditori, e in futuro gli viene negata fiducia
in ogni campo. Considerano sacrilegio recare offesa a un ospite:
chiunque, per qualsiasi motivo, giunga da loro, viene protetto da
ogni torto e considerato sacro, gli sono aperte le porte di tutte
le case e con lui viene diviso il cibo.
24
Ci fu, in passato, un tempo in cui i Galli erano più forti dei
Germani, li attaccavano e, avendo una popolazione numerosa e
pochi campi, inviavano colonie oltre il Reno. Perciò, le zone
della Germania più fertili attorno alla selva Ercinia - nota, a
quanto vedo, a Eratostene e ad altri Greci, che però la chiamano
Orcinia - le occuparono i Volci Tectosagi, insediandosi lì. Essi
abitano ancor oggi la regione e godono di straordinaria fama
quanto a giustizia e valor militare. Ma mentre i Germani
mantengono sempre le stesse condizioni di povertà, stenti e
sopportazione, senza aver in nulla mutato il nutrimento e il
tenore di vita, i Galli, invece, dalla vicinanza con le nostre
province e dal commercio marittimo hanno tratto molte ricchezze e
vantaggi. Così, si sono gradualmente abituati alla sconfitta e,
vinti in molte battaglie, non osano più neppure paragonarsi ai
Germani per valore.
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