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Cesare
De Bello Gallico
libro VII, cap 1-27
1
Quando la Gallia era tranquilla, Cesare, come aveva stabilito, si
reca in Italia per tenervi le sessioni giudiziarie. Qui viene a
sapere dell'assassinio di P. Clodio. Poi, messo al corrente della
delibera del senato che chiamava al giuramento in massa i giovani
dell'Italia, inizia il reclutamento in tutta la provincia. Le
notizie vengono ben presto riferite in Gallia transalpina. I
Galli stessi aggiungono e inventano altri particolari, che
sembravano adatti alla circostanza: Cesare era trattenuto dai
disordini della capitale e non poteva certo raggiungere l'esercito
mentre erano in corso contrasti così aspri. I Galli, già prima,
afflitti di sottostare al dominio del popolo romano, cominciano a
prendere decisioni per la guerra con maggior libertà e audacia,
spronati dall'occasione favorevole. I capi della Gallia si
riuniscono in zone boscose e appartate, si lamentano della morte
di Accone, spiegano che la stessa sorte poteva toccare anche a
loro. Deplorano la situazione comune a tutto il paese:
promettendo premi d'ogni sorta, chiedono con insistenza qualcuno
che apra le ostilità e renda libera la Gallia a rischio della
vita. Innanzi tutto, dicono, si trattava di tagliare a Cesare la
strada per l'esercito prima che venissero conosciuti i loro piani
segreti. Era facile: assente il comandante in capo, le legioni
non avrebbero osato lasciare gli accampamenti invernali, né
Cesare avrebbe potuto raggiungerle, senza la scorta dovuta.
Infine, era meglio morire sul campo piuttosto che non recuperare
l'antica gloria militare e la libertà ereditata dagli avi.
2
Dopo tali discorsi, i Carnuti si dichiarano pronti ad affrontare
qualsiasi pericolo per la salvezza comune e promettono di aprire,
primi tra tutti, le ostilità. E siccome al momento non potevano
scambiarsi ostaggi come reciproca garanzia, per non rendere
manifesti i propri piani, chiedono di sancire i patti con un
giuramento e una promessa, raccolte in un fascio tutte le insegne
militari, come vuole la cerimonia più solenne secondo i loro
costumi: non intendevano trovarsi soli, una volta dato inizio al
conflitto. Allora tutti i presenti lodano i Carnuti e pronunciano
il giuramento solenne. Fissano la data della sollevazione e
sciolgono il concilio.
3
Nel giorno stabilito, i Carnuti, sotto la guida di Cotuato e
Conconnetodumno, uomini pronti a tutto, al segnale convenuto
corrono su Cenabo: massacrano i cittadini romani che si erano qui
stabiliti per ragioni di commercio e ne saccheggiano i beni. Una
delle vittime fu C. Fufio Cita, rispettabile cavaliere romano,
che per disposizione di Cesare sovrintendeva ai rifornimenti di
grano. La notizia giunge rapidamente a tutte le genti della
Gallia. Infatti, quando si verificano eventi di una certa
importanza e rilievo, li comunicano di campo in campo, di regione
in regione con grandi clamori; gli altri, a loro volta, odono le
grida e le trasmettono ai vicini, come accadde allora. Tant'è
vero che l'episodio, avvenuto a Cenabo all'alba, era già noto
prima delle nove di sera nelle terre degli Arverni, ovvero a
circa centosessanta miglia di distanza.
4
Allo stesso modo Vercingetorige convoca i suoi clienti e con
facilità li infiamma. Vercingetorige, arverno, era un giovane di
grandissima potenza, figlio di Celtillo, che aveva ottenuto il
principato su tutta la Gallia e, reo di aspirare al trono, era
stato ucciso dal suo popolo. Non appena vengono conosciute le
intenzioni del giovane, si corre alle armi. Gli si oppongono suo
zio Gobannizione e gli altri capi, che non erano dell'avviso di
tentare l'impresa: viene cacciato dalla città di Gergovia; ma
non desiste e assolda, nelle campagne, i poveri e i delinquenti.
Raccolto un pugno d'uomini, guadagna alla sua causa tutti i
concittadini che riesce ad avvicinare, li incita a prendere le
armi per la libertà comune. Raduna ingenti forze ed espelle
dalla città quegli stessi avversari che, poco prima, avevano
bandito lui. I suoi lo proclamano re. Invia ambascerie in tutte
le direzioni, esorta alla lealtà. In breve tempo unisce a sé i
Senoni, i Parisi, i Pictoni, i Cadurci, i Turoni, gli Aulerci, i
Lemovici, gli Andi e tutti gli altri popoli che si affacciano
sull'Oceano. Per consenso generale, gli viene conferito il
comando supremo. Assunto il potere, esige ostaggi da tutti i
popoli suddetti, ordina la rapida consegna di un determinato
contingente di soldati, stabilisce la quantità di armi che
ciascun popolo, nei propri territori, doveva fabbricare ed entro
quale termine. Si preoccupa in particolare della cavalleria.
Accompagna lo straordinario zelo con un'assoluta inflessibilità
nel comando; grazie alla severità dei provvedimenti tiene a
freno chi è titubante. Infatti, per un delitto piuttosto grave
condanna alla morte tra le fiamme e tormenti d'ogni genere,
mentre per una colpa di minor entità punisce tagliando le
orecchie o cavando un occhio, e rimanda il reo in patria, che sia
di monito, per atterrire gli altri con l'atrocità delle pene.
5
Dopo aver ben presto ridotto con tali supplizi l'esercito alla
disciplina, alla testa di parte delle truppe invia nelle terre
dei Ruteni il cadurco Lucterio, uomo di estrema audacia; dal
canto suo, si dirige nella regione dei Biturigi. Al suo arrivo i
Biturigi inviano un'ambasceria agli Edui, di cui erano clienti:
chiedono aiuti per poter resistere con maggior facilità all'attacco
nemico. Dietro suggerimento dei legati rimasti con l'esercito per
ordine di Cesare, gli Edui inviano contingenti di cavalleria e
fanteria in appoggio ai Biturigi. I rinforzi, quando arrivano
alla Loira, fiume che segna il confine tra Biturigi ed Edui,
sostano pochi giorni e poi rientrano in patria senza aver osato
varcare il fiume. Ai nostri legati riferiscono di aver ripiegato
per timore di un tradimento dei Biturigi. Ne avevano, infatti,
scoperto il piano: se avessero attraversato la Loira, si
sarebbero visti accerchiati dai Biturigi stessi da un lato, dagli
Arverni dall'altro. Avranno deciso così per le ragioni addotte
ai legati oppure per loro tradimento? Non abbiamo alcuna prova,
perciò non ci sembra giusto dare nulla per certo. Subito dopo l'allontanamento
degli Edui, i Biturigi si uniscono agli Arverni.
6
Quando in Italia gli giunse notizia dell'accaduto, Cesare,
rendendosi conto che a Roma le cose si erano accomodate grazie
alla fermezza di Cn. Pompeo, partì per la Gallia transalpina.
Appena arrivato, si trovò in grave difficoltà, perché non
sapeva come raggiungere l'esercito. Infatti, se avesse richiamato
le legioni in provincia, capiva che durante la marcia avrebbero
dovuto combattere senza di lui; se invece, si fosse diretto egli
stesso verso l'esercito, sapeva di non poter affidare senza
rischi la propria vita, in quel frangente, neppure ai popoli che
sembravano tranquilli.
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Nel frattempo, il cadurco Lucterio, inviato tra i Ruteni, li
guadagna all'alleanza con gli Arverni. Procede nelle terre dei
Nitiobrogi e dei Gabali, riceve ostaggi da entrambi i popoli e,
raccolte ingenti truppe, tenta un'incursione in provincia, verso
Narbona. Appena ne è informato, Cesare ritenne di dover
subordinare qualsiasi piano alla partenza per Narbona. Una volta
giunto, rassicura chi nutre timori, colloca guarnigioni nelle
terre dei Ruteni provinciali, dei Volci Arecomici, dei Tolosati e
tutt'intorno a Narbona, ossia nelle zone di confine col nemico.
Ordina che parte delle truppe della provincia, insieme ai
rinforzi da lui stesso condotti dall'Italia, si concentrino nella
regione degli Elvi, popolo limitrofo agli Arverni.
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Dopo aver approntato tutto ciò (mentre ormai Lucterio era stato
fermato e arretrava, perché riteneva pericoloso inoltrarsi nelle
zone presidiate), Cesare si dirige nelle terre degli Elvi. Le
Cevenne, monti che segnano il confine tra Arverni ed Elvi,
ostacolavano il cammino, la stagione era la più inclemente, la
neve molto alta; tuttavia, spalò la neve per una profondità di
sei piedi, si aprì un varco grazie all'enorme sforzo dei soldati
e raggiunse i territori degli Arverni. Piombò inatteso sui
nemici, che si ritenevano protetti dalle Cevenne come da un muro:
mai, neppure un uomo isolato, in quella stagione era riuscito a
praticarne i sentieri. Ordina ai cavalieri di effettuare
scorrerie nel raggio più ampio e di seminare il panico tra i
nemici quanto più potevano. La voce e le notizie, ben presto,
giungono a Vercingetorige: tutti gli Arverni, spaventati, lo
attorniano e lo scongiurano di pensare alla loro sorte, di
impedire ai Romani le razzie, tanto più ora che vedeva tutto il
peso della guerra ricadere su di loro. Sotto la pressione delle
preghiere, sposta il campo dalle terre dei Biturigi in direzione
degli Arverni.
9
Ma Cesare si trattiene nella regione degli Arverni due giorni:
prevista la mossa di Vercingetorige, si allontana col pretesto di
raccogliere rinforzi e cavalleria. Affida il comando al giovane
Bruto e lo incarica di compiere in ogni direzione scorrerie con
la cavalleria, il più lontano possibile: dal canto suo, avrebbe
fatto di tutto per rimaner lontano dal campo non più di tre
giorni. Impartite tali disposizioni, contro le attese dei suoi si
reca a Vienna, forzando al massimo le tappe. Sfrutta la
cavalleria fresca lì inviata molti giorni prima e, senza mai
interrompere la marcia né di giorno, né di notte, attraversa il
territorio degli Edui verso i Lingoni, dove svernavano due
legioni: così, se gli Edui gli avessero teso qualche insidia, li
avrebbe prevenuti con la rapidità del suo passaggio. Appena
giunto, invia messi alle altre legioni e le raccoglie tutte in un
solo luogo, prima che gli Arverni potessero sapere del suo arrivo.
Quando ne è informato, Vercingetorige riconduce l'esercito nei
territori dei Biturigi e, da qui, raggiunge e comincia a
stringere d'assedio Gorgobina, una città dei Boi, popolo che
Cesare aveva qui stanziato sotto la tutela degli Edui dopo averlo
sconfitto nella guerra contro gli Elvezi.
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La mossa di Vercingetorige metteva in grave difficoltà Cesare,
incerto sul da farsi: se per il resto dell'inverno avesse tenuto
le legioni concentrate in un solo luogo, temeva che la caduta di
un popolo vassallo degli Edui potesse causare una defezione
generale della Gallia, visto che lui non rappresentava una
garanzia di difesa per gli alleati; d'altronde, se avesse
mobilitato l'esercito troppo presto, lo preoccupava l'approvvigionamento
di grano per i disagi del trasporto. Gli sembrò meglio, tuttavia,
affrontare qualsiasi difficoltà piuttosto che subire un'onta così
grave e alienarsi l'animo di tutti i suoi. Perciò, incita gli
Edui a occuparsi del trasporto dei viveri e invia messaggeri ai
Boi per informarli del suo arrivo ed esortarli a mantenere i
patti e a reggere con grande coraggio all'assalto nemico. Lascia
ad Agedinco due legioni con le salmerie di tutto l'esercito e
parte alla volta dei Boi.
11
Due giorni dopo, giunse a Vellaunoduno, città dei Senoni- Non
volendo lasciarsi nemici alle spalle per facilitare i
rifornimenti, cominciò l'assedio e in due giorni costruì tutt'attorno
un vallo. Il terzo giorno la città gli invia emissari per
offrire la resa, Cesare esige la consegna delle armi, dei
giumenti e di seicento ostaggi. Lascia il legato C. Trebonio a
sbrigare la faccenda e punta subito su Cenabo, città dei Carnuti,
per coprire al più presto la distanza. Pervenuta soltanto allora
notizia dell'assedio di Vellaunoduno, i Carnuti pensavano che le
cose sarebbero andate per le lunghe e preparavano una guarnigione
da inviare a Cenabo. Qui Cesare giunge in due giorni. Pone il
campo dinnanzi alla città, ma è costretto a rimandare l'attacco
all'indomani, vista l'ora tarda. Comanda ai soldati di approntare
il necessario per l'assedio e dà ordine a due legioni di
vegliare in armi, temendo una fuga di notte dalla città, in
quanto un ponte sulla Loira collegava Cenabo con la sponda
opposta. Poco prima di mezzanotte i Cenabensi uscirono in
silenzio dalla città e cominciarono ad attraversare il fiume.
Appena ne è informato dagli esploratori, Cesare invia le due
legioni che, per suo ordine, si tenevano pronte all'intervento; dà
fuoco alle porte, irrompe in città e la prende: ben pochi
sfuggono alla cattura, perché il ponte e le strade, stretti com'erano,
avevano ostacolato la fuga del grosso dei nemici. Saccheggia e
incendia la città, dona ai soldati il bottino, varca con l'esercito
la Loira e perviene nei territori dei Biturigi.
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Vercingetorige, non appena è messo al corrente dell'arrivo di
Cesare, toglie l'assedio e gli si fa incontro. Cesare aveva
intrapreso il blocco di una città dei Biturigi, Novioduno, posta
lungo la sua strada. Dalla città gli erano stati inviati
emissari per scongiurarne il perdono, la grazia. Al fine di
condurre a termine il resto delle operazioni con la rapidità che
gli aveva fruttato la maggior parte dei successi, impone la
consegna di armi, cavalli e ostaggi. Una parte degli ostaggi era
già stata inviata, al resto si stava provvedendo; in città si
erano addentrati alcuni centurioni con pochi legionari, per
raccogliere le armi e i giumenti. Ma ecco che in lontananza si
scorge la cavalleria nemica, che precedeva l'esercito di
Vercingetorige. Non appena gli abitanti la videro e nacque in
loro la speranza di rinforzi, tra alte grida cominciarono a
impugnare le armi, a chiudere le porte, a riversarsi sulle mura.
I centurioni presenti in città, essendosi resi conto, dal loro
comportamento, che i Galli avevano preso qualche nuova decisione,
sguainate le spade, assunsero il controllo delle porte e
condussero tutti i loro in salvo.
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Cesare ordina alla cavalleria di scendere in campo e attacca
battaglia; poiché i suoi erano in difficoltà, invia in loro
appoggio circa quattrocento cavalieri germani, che fin dall'inizio
della guerra era solito portare con sé. I Galli non riuscirono a
resistere all'attacco e volsero le spalle: si rifugiarono presso
il loro esercito in marcia, ma subirono gravi perdite. Di fronte
alla rotta della loro cavalleria, gli abitanti della città,
presi nuovamente dal panico, catturarono i presunti responsabili
dell'istigazione del popolo e li consegnarono a Cesare,
arrendendosi. Sistemata la questione, Cesare si diresse ad
Avarico, la più importante e munita città dei Biturigi, posta
nella regione più fertile: era convinto che, presa Avarico,
avrebbe ridotto in suo potere i Biturigi.
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Vercingetorige, dopo tanti, continui rovesci, subiti a
Vellaunoduno, Cenabo e Novioduno, convoca i suoi a concilio.
Occorreva adottare, spiega, una strategia ben diversa rispetto al
passato. Bisognava sforzarsi, con ogni mezzo, di impedire ai
Romani la raccolta di foraggio e viveri. Era facile: avevano una
cavalleria molto numerosa e la stagione giocava in loro favore. I
Romani non avevano la possibilità di trovare foraggio nei campi,
dovevano dividersi e cercarlo casa per casa: tutte queste truppe,
di giorno in giorno, le poteva annientare la cavalleria. Poi, per
la salvezza comune, era necessario trascurare i beni privati;
occorreva incendiare villaggi e case in ogni direzione, dove
sembrava che i Romani si sarebbero recati in cerca di foraggio.
Le loro scorte, invece, erano sufficienti, perché sarebbero
stati riforniti dal popolo nelle cui terre si fosse combattuto. I
Romani o non avrebbero potuto far fronte alla mancanza di viveri
o si sarebbero allontanati troppo dall'accampamento, esponendosi
a grossi rischi. E non faceva alcuna differenza tra ucciderli o
privarli delle salmerie, perché senza di esse non si poteva
condurre una guerra. Inoltre, bisognava incendiare le città che,
per fortificazioni o conformazione naturale, non erano del tutto
sicure, in modo da non offrire ai disertori galli un rifugio e ai
Romani l'opportunità di trovare viveri o far bottino. Se tali
misure sembravano dure o severe, dovevano pensare quanto più
dura sarebbe stata la schiavitù per i figli e le mogli e la
morte per loro stessi, destino dei vinti.
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Il parere di Vercingetorige riscuote il consenso generale: in un
solo giorno vengono date alle fiamme più di venti città dei
Biturigi. Lo stesso avviene nei territori degli altri popoli:
ovunque si scorgono incendi. Anche se tutti provavano grande
dolore per tali provvedimenti, tuttavia si consolavano nella
convinzione di avere la vittoria pressoché in pugno e di poter
recuperare a breve termine i beni perduti. Nell'assemblea comune
si delibera su Avarico, se incendiarla o difenderla. I Biturigi
si gettano ai piedi di tutti i capi galli, li pregano di non
costringerli a incendiare, di propria mano, la più bella o quasi
tra le città di tutta la Gallia, presidio e vanto del loro
popolo. Sostengono che si sarebbero difesi con facilità grazie
alla conformazione naturale della zona: la città, circondata su
quasi tutti i lati da un fiume e da una palude, aveva un unico
accesso, molto angusto. La loro richiesta viene accolta:
Vercingetorige, in un primo momento contrario, aveva poi
acconsentito, sia per le loro preghiere, sia per la compassione
che tutti provavano. Si scelgono per la città i difensori adatti.
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Vercingetorige segue Cesare a piccole tappe e sceglie per l'accampamento
un luogo munito da paludi e selve, a sedici miglia da Avarico. Lì,
mediante una rete stabile di esploratori, ora per ora si teneva
al corrente delle novità di Avarico e diramava gli ordini.
Sorvegliava tutti i nostri spostamenti: quando i legionari si
disunivano, dovendo per forza di cose allontanarsi in cerca di
foraggio e grano, li assaliva procurando loro gravi perdite,
sebbene i nostri, per quanto si poteva provvedere, adottassero
ogni misura per muoversi a intervalli irregolari e seguire vie
diverse.
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Cesare pose l'accampamento nei pressi della zona che, libera dal
fiume e dalle paludi, lasciava uno stretto passaggio, come
abbiamo in precedenza illustrato. Cominciò a costruire il
terrapieno, a spingere in avanti le vinee, a fabbricare due torri;
la natura del luogo, infatti, impediva di circondare la città
con un vallo. Quanto all'approvvigionamento di grano, non cessò
di raccomandarsi ai Boi e agli Edui: quest'ultimi, che agivano
senza zelo alcuno, non risultavano di grande aiuto; i primi,
invece, non disponendo di grandi mezzi, perché erano un popolo
piccolo e debole, esaurirono in breve tempo le proprie scorte.
Una totale penuria di viveri, dovuta alla povertà dei Boi, alla
negligenza degli Edui e agli incendi degli edifici, attanagliò l'esercito
a tal punto, che per parecchi giorni i nostri soldati rimasero
senza grano e placarono i morsi della fame grazie ai capi di
bestiame tratti dai villaggi più lontani. Tuttavia, non si udì
da parte loro nessuna parola indegna della maestà del popolo
romano e delle loro precedenti vittorie. Anzi, quando Cesare
interpellò ciascuna legione durante i lavori e disse che avrebbe
tolto l'assedio, se la mancanza di viveri risultava troppo dura,
tutti, nessuno eccetto, lo scongiurarono di non farlo: sotto il
suo comando, in tanti anni, non avevano patito affronti, né si
erano ritirati senza portare a termine un'impresa; l'avrebbero
considerata una vergogna interrompere l'assedio in corso; era
meglio sopportare privazioni d'ogni sorta piuttosto che
rinunciare alla vendetta dei cittadini romani massacrati a Cenabo
dalla slealtà dei Galli. Simili considerazioni vennero espresse
ai centurioni e ai tribuni militari, perché le riferissero a
Cesare.
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Quando già accostavano le torri alle mura, Cesare venne a sapere
dai prigionieri che Vercingetorige, terminato il foraggio, aveva
spostato il campo e si era avvicinato ad Avarico: alla testa
della cavalleria e della fanteria leggera, abituata a combattere
tra i cavalieri, si era diretto dove riteneva che il giorno
seguente i nostri si sarebbero recati in cerca di foraggio e si
apprestava a un'imboscata. Saputo ciò, a mezzanotte Cesare parte
in silenzio e giunge al campo nemico la mattina successiva. I
Galli, immediatamente informati dell'arrivo di Cesare dagli
esploratori, nascosero i carri e le salmerie nel folto dei boschi,
poi dispiegarono tutte le truppe in una zona elevata e aperta.
Appena lo venne a sapere, Cesare ordinò di radunare in fretta i
bagagli e di preparare le armi.
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Il colle si alzava dal basso in dolce pendio. Lo cingeva su quasi
tutti i lati una palude difficile da superare e impraticabile,
non più larga di cinquanta piedi. I Galli, tagliati i ponti, si
tenevano sul colle, confidando nella loro posizione. Divisi per
popoli, presidiavano tutti i guadi e i passaggi della palude,
pronti a premere dall'alto i Romani impantanati, se avessero
tentato di varcarla. Così, chi avesse notato solo la vicinanza
dei due eserciti, avrebbe ritenuto i nemici risoluti allo scontro
a condizioni uguali o quasi, ma chi avesse considerato la
disparità delle posizioni, avrebbe capito che il loro farsi
ostentatamente vedere era una vana simulazione. I legionari,
irritati che il nemico riuscisse a reggere alla loro vista così
da vicino, chiedono il segnale d'attacco, ma Cesare spiega quante
perdite, quanti uomini valorosi ci sarebbe inevitabilmente
costata la vittoria; vedendoli così pronti ad affrontare
qualsiasi pericolo per la sua gloria, avrebbe dovuto essere
tacciato di estrema ingiustizia, se non avesse tenuto alla loro
vita più che alla propria. Così, dopo aver confortato i soldati,
quel giorno stesso li riconduce all'accampamento e inizia a
impartire le rimanenti disposizioni per l'assedio della città.
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Appena ritorna tra i suoi, Vercingetorige viene accusato di
tradimento: aveva spostato il campo troppo vicino ai Romani, si
era allontanato con tutta la cavalleria, aveva lasciato truppe
così numerose senza un capo, alla sua partenza erano piombati
tanto tempestivi e rapidi i Romani - tutto ciò non poteva
essersi verificato per caso o senza un piano prestabilito, la
verità era che preferiva regnare sulla Gallia per concessione di
Cesare piuttosto che per beneficio loro. A tali accuse così
Vercingetorige risponde: se aveva mosso il campo, dipendeva dalla
mancanza di foraggio, e loro stessi lo avevano sollecitato; si
era savvicinato troppo ai Romani, ma lo aveva indotto la
posizione vantaggiosa, che da sola permetteva la difesa senza ì
bisogno di fortificazioni; non si doveva, poi, rimpiangere l'apporto
della cavalleria nelle paludi, quando era stata utile là dove
lcondotta. Quanto al comando, alla sua partenza non l'aveva
lasciato a nessuno deliberatamente, per evitare che il 'aveva
capo designato fosse indotto dall'ardore della moltitudine allo
scontro, che tutti desideravano - lo vedeva - per la debolezza
del carattere e perché incapaci di sopportare più a lungo le
fatiche della guerra. Se i Romani erano intervenuti guidati dal
casobisognava ringraziare la Fortuna, se erano stati richiamati
dalle informazioni di un delatore, si doveva essere grati a ,
costuiperché così, dall'alto, i Galli avevano potuto constatare
quanto fossero pochi e codardi i Romani, che non avevano , osato
misurarsi e si erano vergognosamente ritirati nell'accampamento.
Non aveva affatto bisogno di ricevere da Cesare, con il
tradimento, il comando che poteva ottenere con la vittoria, ormai
nelle mani sue e di tutti i Galli. Anzi, era disposto a deporre
la carica, se pensavano di avergli concesso un potere troppo
grande rispetto alla salvezza che da lui ricevevano. "E
perchcomprendiate la sincerità delle mie parole - esclamò -
ascoltate i soldati romani". Introduce alcuni servi
catturati pochi é giorni prima mentre erano in cerca di foraggio
e torturati con la fame e le catene. I servi, già istruiti in
precedenza su cosa dovevano rispondere, si dichiarano legionari:
erano usciti di nascosto dal campo, spinti dalla fame e dalla
mancanza di viveri, nella speranza di trovare nelle campagne un
po' di grano o del bestiame; tutto l'esercito versava nelle
stesse condizioni di precarietà, nessuno aveva più forze, ormai,
né poteva reggere alla fatica dei lavori; perciò, il comandante
aveva deciso che, se l'assedio non sortiva effetto, dopo tre
giorni avrebbe ritirato l'esercito. Vercingetorige aggiunge:
"Ecco i benefici che io vi ho procurato, e voi mi accusate
di tradimento. Grazie a me, senza versare una goccia di sangue,
ora vedete annientato dalla fame un esercito forte e vittorioso.
E quando si ritirerà vergognosamente in fuga, ho già provveduto
in modo che nessun popolo lo accolga nelle proprie terre".
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Tutta la moltitudine acclama e, secondo il loro costume, fa
risonare le armi, come di solito fanno quando approvano il
discorso di qualcuno: Vercingetorige era il capo supremo, non si
doveva dubitare della sua lealtà, né era possibile condurre le
operazioni con una strategia migliore. Decidono di inviare in
città diecimila uomini scelti tra tutte le truppe, ritenendo
inopportuno delegare ai soli Biturigi la lotta per la salvezza
comune: capivano che loro sarebbe stata la vittoria finale, se la
città non cadeva.
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Allo straordinario valore dei nostri soldati, i Galli opponevano
espedienti d'ogni sorta: sono una razza molto ingegnosa,
abilissima nell'imitare e riprodurre qualsiasi cosa abbiano
appreso da chiunque. Infatti, dalle mura rimuovevano le falci per
mezzo di lacci e, quando le avevano ben serrate nei loro nodi. le
tiravano all'interno mediante argani. Provocavano frane nel
terrapieno scavando cunicoli, con tanta maggior abilità, in
quanto nelle loro regioni ci sono molte miniere di ferro, per cui
conoscono e usano ogni tipo di cunicolo. Poi, lungo tutto il
perimetro di cinta avevano innalzato torri e le avevano protette
con pelli. Inoltre, di giorno e di notte operavano frequenti
sortite, nel tentativo di appiccare il fuoco al terrapieno o di
assalire i nostri impegnati nei lavori. E quanto più le nostre
torri ogni giorno salivano grazie al terrapieno, tanto più i
Galli alzavano le loro con l'aggiunta di travi. Infine,
utilizzando pali dalla punta acutissima e indurita al fuoco, pece
bollente e massi enormi, bloccavano i cunicoli aperti dai nostri
e ci impedivano di accostarci alle mura.
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Le mura dei Galli sono tutte costruite all'incirca così: pongono
a terra, su tutta la lunghezza della cinta, travi ad essa
perpendicolari, a un intervallo regolare di due piedi. Ne
collegano le estremità all'interno e le ricoprono con molta
terra. I suddetti spazi tra l'una e l'altra trave, li chiudono
all'esterno con grosse pietre. Una volta inserite e ben connesse
le prime travi, sopra ne aggiungono un'altra serie, facendo in
modo che mantengano la stessa distanza e non si tocchino, ma che
ciascuna, a pari intervallo, poggi sulle pietre frapposte e
risulti saldamente unita. Così, di seguito, tutta l'opera viene
costruita fino all'altezza voluta. Le mura, per forma e varietà,
non hanno un aspetto sgradevole, con quest'alternanza di travi e
massi che conservano paralleli i propri ordini; al tempo stesso
risultano molto utili ed efficaci per la difesa delle città,
perché la pietra le preserva dagli incendi, il legno le difende
dall'ariete, che non può spezzare o sconnettere le travi, unite
in modo continuo all'interno per una lunghezza di quaranta piedi
in genere.
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Tutto ciò rendeva difficile l'assedio, ma i nostri, pur frenati
continuamente dal freddo e dalle piogge incessanti, lavorarono
senza sosta: superato ogni ostacolo, in venticinque giorni
costruirono un terrapieno lungo trecentotrenta piedi e alto
ottanta. L'opera raggiungeva quasi le mura nemiche; Cesare, come
suo solito, vegliava sul luogo dei lavori e incitava i soldati a
non fermarsi neppure per un istante. Ma ecco che poco prima di
mezzanotte si vide uscire del fumo dal terrapieno: i nemici gli
avevano dato fuoco da un cunicolo. Mentre da tutte le mura si
levavano alte grida, i Galli contemporaneamente tentarono una
sortita dalle due porte ai lati delle torri. Altri, dall'alto
della cinta, lanciavano sul terrapieno fiaccole e legna secca,
cospargendole di pece e di altre sostanze infiammabili: era ben
difficile decidere dove dirigersi, dove recar aiuto. Tuttavia,
per abitudine di Cesare, due legioni stavano sempre all'erta di
fronte all'accampamento, mentre parecchie, a turno, continuavano
i lavori. Così, rapidamente accadde che parte dei nostri tenesse
testa ai nemici usciti dalla città, parte ritraesse le torri e
scindesse il terrapieno, mentre il grosso dell'esercito presente
al campo accorreva per estinguere l'incendio.
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Si combatteva in ogni settore, quando era trascorsa ormai la
parte restante della notte. Nei nemici, man mano, si rafforzava
la speranza di vittoria, tanto più che vedevano i plutei delle
torri distrutti dal fuoco e intuivano le difficoltà dei nostri,
che dovevano uscire allo scoperto per portar soccorso. Forze
fresche nemiche, via via, davano il cambio a chi era stanco, ed
erano convinti che tutte le sorti della Gallia dipendessero da
quel frangente. Allora, sotto i nostri occhi, accadde un fatto
degno di ricordo, che crediamo di non dover tacere. Davanti a una
porta della città, un Gallo scagliava in direzione di una torre
palle di sego e pece passate di mano in mano: trafitto al fianco
destro dal dardo di uno scorpione, cadde senza vita. Uno dei più
vicini scavalcò il compagno morto e ne prese il posto. Quando
anch'egli, allo stesso modo, cadde colpito dallo scorpione, gli
subentrò un terzo, e al terzo un quarto. I difensori non
abbandonarono quella posizione fino a che, estinto l'incendio sul
terrapieno e respinto il loro attacco in tutto quel settore, la
battaglia non ebbe termine.
26
I Galli le provarono tutte, ma senza successo: il giorno seguente
decisero di evacuare la città, su consiglio e ordine di
Vercingetorige. Speravano che la manovra non costasse loro gravi
perdite, se tentata nel silenzio della notte: il campo di
Vercingetorige, infatti, non era lontano dalla città, e una
palude, che si frapponeva interminabile, ritardava l'inseguimento
dei Romani. Già si apprestavano di notte alla ritirata, quando
all'improvviso le madri di famiglia scesero nelle strade, si
gettarono in lacrime ai piedi dei loro e li scongiurarono con
preghiere d'ogni sorta di non abbandonare alla ferocia nemica
loro stesse e i figli comuni, che non potevano fuggire, deboli
com'erano per il sesso o l'età. Quando videro che gli uomini non
recedevano dalla decisione - in caso di pericolo estremo, in
genere, il timore non lascia spazio alla compassione -
cominciarono a gridare e a segnalare ai Romani la fuga. I Galli,
preoccupati che la cavalleria romana li prevenisse e occupasse le
strade, rinunciarono al loro proposito.
27
Il giorno successivo, quando Cesare aveva già spinto in avanti
una torre e raddrizzato il terrapieno che aveva cominciato a
costruire, si abbatté un violento acquazzone. Cesare la considerò
una circostanza favorevole per risolversi ad attaccare, poiché
vedeva le sentinelle nemiche disposte sulle mura con minor
cautela. Così, ai suoi diede ordine di rallentare leggermente i
lavori e mostrò loro che cosa dovevano fare. Di nascosto preparò
le legioni al di qua delle vinee, le esortò a raccogliere una
buona volta, dopo tante fatiche, il frutto della vittoria,
promise ricompense per i primi che avessero scalato le mura e
diede il segnale ai soldati. I nostri si lanciarono
repentinamente all'attacco da tutti i lati e in breve si
riversarono sulle mura.
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