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Cesare
De Bello Gallico
libro VII, cap 28-54
28
I nemici, atterriti dall'attacco improvviso, furono scacciati
dalle mura e dalle torri. Si attestarono nel foro e nelle zone più
aperte, disponendosi a cuneo, decisi ad affrontare in uno scontro
regolare i nostri, se fossero venuti avanti. Quando videro che
nessuno scendeva in campo aperto (anzi, i nostri li circondavano
lungo tutto il muro di cinta), temendo di perdere ogni via di
scampo, gettarono le armi e si slanciarono verso le parti estreme
della città, senza mai fermarsi. Qui, chi si accalcava per via
delle porte strette, venne ucciso dai legionari; gli altri, già
usciti, furono massacrati dai cavalieri. Ma nessuno dei nostri
pensò al bottino. Aizzati dalla strage di Cenabo e dalla fatica
dell'assedio, non risparmiarono né i vecchi, né le donne, né i
bambini. Insomma, del numero totale dei nemici, circa
quarantamila, appena ottocento, che ai primi clamori fuggirono
dalla città, raggiunsero salvi Vercingetorige. Costui li accolse
a notte fonda, in silenzio, perché temeva che il loro arrivo al
campo e la compassione della folla provocassero una sedizione.
Dispose lontano, lungo la via, i compagni d'arme e i principi dei
vari popoli, con l'incarico di smistarli e di condurli dai loro,
nelle zone del campo assegnate a ciascuna gente fin dall'inizio.
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L'indomani, convocata l'assemblea, li consola ed esorta a non
perdersi affatto d'animo, a non lasciarsi turbare dalla sconfitta.
I Romani non avevano vinto né col valore, né in campo aperto,
ma solo grazie a una certa loro abilità e perizia nell'arte dell'assedio,
di cui i Galli erano inesperti. Era in errore chi in guerra si
aspettava solo successi. Non era mai stato fautore della difesa
di Avarico, loro stessi ne erano testimoni. L'imprudenza dei
Biturigi e l'eccessiva compiacenza degli altri avevano portato
alla sconfitta. Tuttavia, vi avrebbe posto rimedio ben presto,
con successi più importanti. Infatti, sarebbe stata sua cura
guadagnare alla causa i popoli che dissentivano dagli altri Galli
e formare un consiglio unico di tutto il paese, alla cui unità d'intenti
non avrebbe potuto resistere neppure il mondo intero. Ed era
ormai cosa fatta. Ma per la salvezza comune era giusto, intanto,
che si decidessero a fortificare il campo, per resistere con
maggior facilità ai repentini attacchi dei nemici.
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Il discorso non riuscì sgradito ai Galli, soprattutto perché
Vercingetorige non si era abbattuto dopo un rovescio così grave,
non si era rintanato, né sottratto alla vista della gente. Si
pensava che sapesse prevedere e presentire nell'animo più degli
altri, perché, quando le cose non erano ancora compromesse,
aveva prima consigliato di incendiare Avarico, poi di evacuarla.
E come gli insuccessi indeboliscono il prestigio degli altri
comandanti, così al contrario, dopo la sconfitta, la dignità di
Vercingetorige cresceva di giorno in giorno. Al contempo, si
sperava nella sua garanzia circa l'alleanza con gli altri popoli.
Allora, per la prima volta, i Galli cominciarono a fortificare l'accampamento:
uomini non avvezzi alle fatiche, si erano convinti a tal punto,
da credere di dover ubbidire a qualsiasi ordine.
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E non meno di quanto avesse garantito, Vercingetorige rivolgeva
ogni suo pensiero a come unire a sé i rimanenti popoli e ne
allettava i capi con doni e promesse. Sceglieva persone adatte
allo scopo, ciascuna capace di guadagnarli alla causa con la
massima facilità, o grazie alla sottile eloquenza o per ragioni
d'amicizia. Rifornisce di armi e vestiti i reduci di Avarico. Al
tempo stesso, per ricompletare i ranghi dopo le perdite subite,
esige dai vari popoli un determinato contingente di soldati, ne
fissa l'entità e la data di consegna. Ordina il reclutamento e l'invio
di tutti gli arcieri, numerosissimi in Gallia. Con tali misure,
in breve rimedia alle perdite di Avarico. Nel frattempo, il re
dei Nitiobrogi, Teutomato, figlio di Ollovicone, che aveva
ricevuto dal nostro senato il titolo di amico, raggiunge
Vercingetorige con una forte cavalleria e truppe assoldate in
Aquitania.
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Cesare si trattenne diversi giorni ad Avarico: vi trovò grano e
viveri in abbondanza e lasciò che l'esercito si riprendesse
dalla fatica e dalle privazioni. L'inverno era ormai quasi finito,
la stagione stessa invitava alle operazioni militari: Cesare
aveva già deciso di puntare sul nemico, nel tentativo di
stanarlo dalle paludi e dalle selve oppure di stringerlo d'assedio.
Ma ecco che, in veste di ambasciatori, i principi degli Edui gli
si presentano e lo pregano di soccorrere il loro popolo nell'ora
più grave. La situazione era assai critica: mentre la
consuetudine, fin dai tempi antichi, voleva che un unico
magistrato fosse eletto e rivestisse la potestà regale per un
anno, adesso due persone ricoprivano tale carica e ciascuno
sosteneva che la propria nomina era conforme alle leggi. L'uno
era Convictolitave, giovane ricco e nobile, l'altro Coto, persona
di antichissima stirpe, lui pure assai potente, che vantava molti
legami di parentela, il cui fratello, Valeziaco, aveva rivestito
la stessa magistratura l'anno precedente. Tutti gli Edui avevano
impugnato le armi, diviso era il senato, diviso il popolo, come
pure i clienti dei due rivali. Se il contrasto si fosse protratto,
si arrivava alla guerra civile. Impedirlo dipendeva dallo zelo e
dal prestigio di Cesare.
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Cesare, sebbene stimasse dannoso rinviare lo scontro e
allontanarsi dal nemico, ritenne tuttavia necessario dar la
precedenza alla questione edua, ben conscio di quanti danni siano
soliti derivare da tali dissensi: non voleva che un popolo tanto
importante e così legato a Roma, da lui stesso sempre favorito e
fregiato di ogni onore, giungesse alla guerra civile e che il
partito che si sentiva meno forte chiedesse aiuto a
Vercingetorige. Poiché le leggi edue non permettevano al
magistrato in carica di lasciare il paese, Cesare decise di
recarsi di persona nelle loro terre, per evitare l'impressione
che intendesse calpestarne il diritto o le leggi. Convocò a
Decezia il senato al completo e i due responsabili della
controversia. Lì si raccolsero pressoché tutti i notabili edui
e gli notificarono che Coto era stato nominato da suo fratello
nel corso di un concilio segreto. con pochi partecipanti, al di
fuori dei luoghi e dei tempi dovuti, mentre le leggi
prescrivevano che nessuno poteva essere eletto magistrato e
neppure ammesso in senato, se un membro della sua famiglia aveva
ricoperto la carica ed era ancora in vita. Allora Cesare
costrinse Coto a deporre il comando e ordinò che assumesse il
potere Convictolitave, che era stato designato dai sacerdoti
secondo le usanze edue, quando la magistratura era vacante.
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Dopo tale decreto, esortò gli Edui a dimenticare contrasti e
dissensi e a lasciare tutto da parte, li invitò a occuparsi
della guerra in corso e ad attendersi i premi che si fossero
meritati, una volta piegata la Gallia. Chiese il rapido invio di
tutta la cavalleria e di diecimila fanti, che avrebbe disposto a
difesa delle provviste di grano. Divise in due contingenti l'esercito:
quattro legioni le affidò a Labieno per condurle nelle terre dei
Senoni e dei Parisi, sei le guidò personalmente nella regione
degli Arverni, verso Gergovia, seguendo il corso dell'Allier.
Parte della cavalleria la concesse a Labieno, parte la tenne con
sé. Appena lo seppe, Vercingetorige distrusse tutti i ponti e
cominciò a marciare sulla sponda opposta.
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I due eserciti rimanevano l'uno al cospetto dell'altro, ponevano
i campi quasi dirimpetto. La sorveglianza degli esploratori
nemici impediva ai Romani di costruire in qualche luogo un ponte
per varcare il fiume. Cesare correva il rischio di rimanere
bloccato dal fiume per la maggior parte dell'estate, in quanto l'Allier
non consente con facilità il guado prima dell'autunno. Così,
per evitare tale evenienza, pose il campo in una zona boscosa,
dinnanzi a uno dei ponti distrutti da Vercingetorige; il giorno
seguente si tenne nascosto con due legioni. Le altre truppe, con
tutte le salmerie, ripresero il cammino secondo il solito, ma
alcune coorti vennero frazionate perché sembrasse inalterato il
numero delle legioni. Ad esse comandò di protrarre la marcia il
più possibile: a tarda ora, supponendo che le legioni si fossero
accampate, intraprese la ricostruzione del ponte, utilizzando gli
stessi piloni rimasti intatti nella parte inferiore. L'opera
venne rapidamente realizzata e le legioni furono condotte sull'altra
sponda. Scelse una zona adatta all'accampamento e richiamò le
rimanenti truppe. Vercingetorige, informato dell'accaduto, per
non trovarsi costretto a dar battaglia contro la sua volontà, le
precedette e si allontanò a marce forzate.
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Da lì Cesare raggiunse Gergovia in cinque tappe. Quel giorno
stesso, dopo una scaramuccia di cavalleria, studiò la posizione
della città, che si ergeva su un monte altissimo ed era di
difficile accesso. Disperando di poterla prendere d'assalto,
decise di non stringerla d'assedio prima di aver pensato alle
scorte di grano. Vercingetorige, invece, aveva stabilito il campo
nei pressi della città sul fianco del monte, disponendo tutt'attorno,
a breve intervallo, le truppe dei vari popoli, distinte. Aveva
occupato, per quanto si poteva vedere, tutte le cime del monte e
offriva uno spettacolo raccapricciante. I capi delle varie genti,
da lui scelti come consiglieri, avevano il compito di presentarsi
quotidianamente, all'alba, per eventuali comunicazioni o consegne.
E non lasciava passare giorno, o quasi, senza attaccar battaglia
con la cavalleria e gli arcieri in mezzo a essa, per misurare il
coraggio e il valore di ciascuno dei suoi. Di fronte alla città,
proprio ai piedi del monte, sorgeva un colle ben munito, con
tutti i lati a strapiombo. Se i nostri l'avessero preso,
avrebbero sottratto ai nemici, così almeno sembrava, la maggior
parte delle fonti d'acqua e la possibilità di foraggiarsi
liberamente. Ma il colle era tenuto da una salda guarnigione
nemica. Tuttavia, Cesare uscì dal campo nel silenzio della notte
e, prima che dalla città potessero giungere rinforzi, mise in
fuga il presidio nemico e occupò il colle. Vi alloggiò due
legioni e scavò una coppia di fosse parallele, larghe dodici
piedi, che collegavano l'accampamento maggiore con il minore: così,
anche singoli uomini avrebbero potuto spostarsi dall'uno all'altro
al sicuro da improvvisi attacchi nemici.
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Mentre a Gergovia le cose andavano così, l'eduo Convictolitave,
al quale Cesare - l'abbiamo detto - aveva assegnato la
magistratura, si lascia corrompere dal denaro degli Arverni e si
accorda con alcuni giovani, capeggiati da Litavicco e dai suoi
fratelli, rampolli di stirpe assai nobile. Divide con loro la
somma ricevuta e li esorta a ricordarsi che sono uomini liberi,
nati per il comando. Gli Edui erano gli unici a ritardare l'indubbia
vittoria della Gallia; la loro autorità frenava le altre genti;
ma se avessero cambiato partito, i Romani non avrebbero più
avuto modo di rimanere in Gallia. Cesare, è vero, gli aveva reso
un grande beneficio, ma non aveva fatto altro che riconoscere l'assoluta
legittimità delle sue ragioni. Del resto, la libertà comune era
per lui più importante. Perché mai gli Edui, per il loro
diritto e le loro leggi, dovevano ricorrere al giudizio di Cesare,
e non piuttosto i Romani alla sentenza degli Edui? I giovani
vengono ben presto catturati dalle parole del magistrato e dal
denaro: pur dichiarandosi addirittura pronti a prendere l'iniziativa,
cercavano un piano d'azione, perché erano sicuri di non poter
indurre gli Edui alla guerra senza un motivo. Si decise di porre
Litavicco a capo dei diecimila uomini da inviare a Cesare, con l'incarico
di guidarli; i suoi fratelli avrebbero raggiunto Cesare prima di
lui. Mettono a punto il piano in tutti gli altri particolari.
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Litavicco assume il comando dell'esercito. A un tratto, a circa
trenta miglia da Gergovia, convoca i suoi: "Dove andiamo,
soldati?" dice tra le lacrime. "Tutti i nostri
cavalieri, tutti i nobili sono caduti. I capi, Eporedorige e
Viridomaro, accusati di tradimento dai Romani, sono stati messi a
morte senza neppure un processo. Ma sentitelo da costoro, che
sono scampati al massacro: i miei fratelli e tutti i miei parenti
sono morti, il dolore mi impedisce di narrarvi l'accaduto".
Si fanno avanti alcune persone già istruite su cosa dire.
Ripetono alla massa dei soldati gli stessi discorsi di Litavicco:
i cavalieri edui erano stati trucidati, li si accusava di una
presunta complicità con gli Arverni; loro si erano nascosti nel
folto del gruppo e avevano preso la fuga proprio nel bel mezzo
della strage. Gli Edui levano alte grida, supplicano Litavicco di
prendersi cura di loro. "C'è forse bisogno di decidere?"
risponde. "Non dobbiamo forse dirigerci a Gergovia e unirci
agli Averni? Oppure dubitiamo che i Romani, dopo il loro empio
crimine, esitino a gettarsi su di noi e a massacrarci? Perciò,
se ancora in noi è rimasto del coraggio, vendichiamo la morte
dei nostri, trucidati nel modo più indegno, uccidiamo questi
ladroni", e indica alcuni cittadini romani che, fidando
nella sua protezione. erano al suo seguito. Saccheggia frumento e
viveri in quantità, uccide i cittadini romani tra crudeli
tormenti. Invia messi in tutta la regione edua, solleva il popolo
sempre con la falsa notizia della strage dei cavalieri e dei
principi. Esorta a seguire il suo esempio e a vendicare le
ingiurie.
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Su specifica richiesta di Cesare, si erano uniti alla cavalleria
l'eduo Eporedorige, giovane di alto lignaggio e di grande potenza
tra i suoi, e Viridomaro, altrettanto giovane e influente, ma di
diversi natali, che Cesare, dietro suggerimento di Diviziaco,
aveva innalzato alle cariche più alte nonostante le sue umili
origini. I due lottavano per il primato tra gli Edui, e durante
la recente controversia per la magistratura si erano battuti con
ogni mezzo l'uno per Convictolitave, l'altro per Coto.
Eporedorige, quando scopre il piano di Litavicco, lo riferisce a
Cesare verso mezzanotte. Lo supplica di non permettere agli Edui
di venir meno all'alleanza con il popolo romano per colpa dei
perfidi piani di alcuni giovani, lo prega di tener conto delle
conseguenze, se tante migliaia di uomini si fossero unite ai
nemici: la loro sorte non avrebbe lasciato indifferenti i loro
cari, né il popolo poteva stimarla cosa di poco conto.
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La notizia desta viva preoccupazione in Cesare, perché aveva
sempre nutrito una benevolenza particolare nei confronti degli
Edui. Senza alcun indugio guida fuori dall'accampamento quattro
legioni prive di bagagli e la cavalleria al completo. In quel
frangente non si ebbe il tempo di restringere il campo: l'esito
dell'azione sembrava dipendere dalla rapidità. A presidio dell'accampamento
lascia il legato C. Fabio con due legioni. Ordina di imprigionare
i fratelli di Litavicco, ma viene a sapere che poco prima erano
fuggiti presso i nemici. Esorta i soldati a non sgomentarsi, in
un momento così critico, per le fatiche della marcia: tra il
fervore generale avanza di venticinque miglia e avvista la
schiera degli Edui. Manda in avanti la cavalleria e rallenta la
loro avanzata, ma dà ordine tassativo di non uccidere nessuno. A
Eporedorige e Viridomaro, che gli Edui credevano morti, comanda
di rimanere tra i cavalieri e di chiamare i loro. Appena
riconoscono i capi e comprendono l'inganno di Litavicco, gli Edui
cominciano a tendere le mani in segno di resa, a gettare le armi,
a implorare la grazia. Litavicco con i suoi clienti - secondo i
costumi dei Galli non è lecito abbandonare i patroni neppure nei
momenti più gravi - ripara a Gergovia.
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Agli Edui Cesare invia messi per spiegare che per suo beneficio
risparmiava i loro, mentre avrebbe potuto farne strage secondo il
diritto di guerra. Di notte concede all'esercito tre ore di
riposo, poi muove il campo verso Gergovia. Quando aveva percorso
circa metà del cammino, i cavalieri inviati da C. Fabio gli
espongono quali pericoli abbia corso il campo. I nemici -
illustrano - l'avevano attaccato in forze: truppe fresche davano
continuamente il cambio a chi era stanco, i nostri erano spossati
dalla fatica che non conosceva pause, perché le dimensioni dell'accampamento
li costringevano a rimanere sempre sul vallo. Molti erano stati
colpiti dai nugoli di frecce e proiettili d'ogni tipo scagliati
dai nemici; per resistere all'attacco, erano state di grande
utilità le macchine da lancio. Quando il nemico si era
allontanato, Fabio aveva barricato tutte le porte tranne due e
aggiunto plutei al vallo, preparandosi a un identico assalto per
il giorno successivo. Conosciuta la situazione, Cesare, grazie
allo straordinario impegno dei soldati, raggiunge l'accampamento
prima dell'alba.
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Mentre a Gergovia tale era la situazione, gli Edui, alle prime
notizie di Litavicco, non perdono neppure un istante a
sincerarsene. Chi spinto dall'avidità, chi dall'iracondia e dall'avventatezza
- è la loro caratteristica congenita - tutti danno per sicura
una voce priva di fondamento. Saccheggiano i beni dei cittadini
romani, ne fanno strage, li rendono schiavi. Convictolitave dà l'ultima
spinta a una situazione già in bilico, aizza la folla, perché,
una volta commesso il crimine, la vergogna le impedisca di
ritornare alla ragione. M. Aristio, tribuno militare, era in
marcia verso la legione: gli promettono via libera e lo lasciano
uscire dalla città di Cavillono. Con lui costringono alla
partenza anche chi si era lì stabilito per commercio. Appena i
nostri si mettono in marcia, però, li assalgono e li spogliano
di tutti i bagagli. I nostri si difendono, vengono assediati
giorno e notte. Quando le perdite erano già molte da entrambe le
parti, i Galli chiamano alle armi una folla più numerosa.
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Nel frattempo, giunge notizia che tutte le truppe edue sono sotto
l'autorità di Cesare: corrono da Aristio, gli spiegano che l'accaduto
non dipendeva certo da una delibera ufficiale. Aprono un'inchiesta
sul saccheggio, confiscano i beni di Litavicco e dei suoi
fratelli, inviano una legazione a Cesare per discolparsi. Si
comportano così nel tentativo di recuperare le proprie truppe,
ma, macchiati dalla colpa commessa e trattenuti dai guadagni del
saccheggio - molti ne erano coinvolti - e anche per timore di una
punizione, assumono segretamente iniziative per riprendere la
guerra e sobillano gli altri popoli mediante ambascerie. Anche se
lo intuiva, Cesare tuttavia si rivolge agli emissari edui con le
parole più miti possibili: per via dell'incoscienza e della
leggerezza del popolo non voleva pronunciare una condanna troppo
dura nei confronti degli Edui, né intendeva diminuire la sua
benevolenza verso di loro. Cesare, in effetti, si aspettava una
più grave sollevazione della Gallia e, per non trovarsi
circondato da tutti i popoli, stava valutando come lasciare
Gergovia e riunire nuovamente l'esercito, ma cercava di evitare
che il suo ripiegamento, dettato dal timore di una defezione,
sembrasse una fuga.
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Mentre era immerso in tali pensieri, gli parve presentarsi un'occasione
favorevole. Infatti, quando giunse al campo minore per
ispezionare i lavori, notò che un colle, prima in mano nemica,
era adesso sguarnito, mentre nei giorni precedenti lo si poteva
appena scorgere, tanti erano i soldati che lo presidiavano. La
cosa lo colpì e ne chiese spiegazione ai disertori, che ogni
giorno arrivavano al nostro campo in gran numero. Da tutti
risultava che, come Cesare già sapeva dagli esploratori, il
dorso del colle era quasi in piano, ma stretto e pieno di
vegetazione nella parte che conduceva dall'altro lato della città.
I Galli nutrivano forti apprensioni per questo punto e sapevano
bene che si sarebbero visti praticamente circondati, con ogni via
d'uscita preclusa e i foraggiamenti tagliati, se i Romani, già
padroni di un colle, avessero preso anche quest'altro. Quindi
Vercingetorige aveva chiamato tutti a munire la zona.
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Saputo ciò, Cesare verso mezzanotte invia sul luogo vari
squadroni di cavalleria. Comanda di compiere scorrerie
dappertutto, producendo un po' più rumore del solito. All'alba
fa uscire dal campo un gran numero di bagagli e muli, ai
mulattieri ordina di togliere il basto ai loro animali e di
mettersi l'elmo: fingendosi cavalieri, avrebbero dovuto aggirare
il colle. Invia con essi pochi cavalieri veri, che avevano l'incarico
di spingersi più lontano a scopo di simulazione. A tutti, poi, dà
istruzione di convergere su un unico punto dopo un lungo giro. Le
nostre manovre venivano scorte dalla città, perché da Gergovia
la vista dava proprio sul nostro accampamento, ma a tale distanza
non era possibile comprendere che cosa stesse accadendo con
esattezza. Invia una legione verso il colle e, dopo un certo
tratto, la ferma ai piedi del rialzo e la tiene nascosta tra la
vegetazione. I sospetti dei Galli aumentano, mandano tutte le
truppe ai lavori di fortificazione. Cesare, appena vede il campo
nemico sguarnito, guida i soldati dal campo maggiore al minore, a
piccoli gruppi, ordinando di non applicare i fregi e di tener
nascoste le insegne, per non essere scorti dalla città. Ai
legati preposti alle varie legioni spiega come dovevano agire:
primo, li ammonisce a tenere a freno i soldati, che non si
allontanassero troppo per desiderio di lotta o speranza di
bottino; illustra gli svantaggi della posizione; li si poteva
eludere solo con la rapidità; si trattava di un colpo di mano,
non di una battaglia. Detto ciò, dà il segnale e, al contempo,
ordina agli Edui di sferrare l'attacco da un altro lato, sulla
destra.
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Le mura della città distavano dalla pianura e dall'inizio della
salita milleduecento passi in linea retta, se non ci fosse stata
di mezzo nessuna tortuosità. E tutte le curve che si
aggiungevano per attenuare la salita, aumentavano la distanza.
Sul colle, a mezza altezza, i Galli avevano costruito in senso
longitudinale un muro di grosse pietre, alto sei piedi, che
assecondava la natura del monte e aveva lo scopo di frenare l'assalto
dei nostri. Tutta la zona sottostante era stata evacuata, mentre
nella parte superiore, fin sotto le mura della città, i Galli
avevano posto fittissime le tende del loro campo. Al segnale i
legionari raggiungono rapidamente il muro, lo superano e
conquistano tre accampamenti. L'azione fu così rapida, che
Teutomato, re dei Nitiobrogi, sorpreso ancora nella tenda durante
il riposo pomeridiano, a stento riuscì a sfuggire ai nostri in
cerca di bottino, mezzo nudo, dopo che anche il suo cavallo era
stato colpito.
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Raggiunto lo scopo prefisso, Cesare ordinò di suonare la
ritirata, si fermò e tenne l'arringa alla decima legione, che
era al suo seguito. I soldati delle altre legioni, invece, pur
non avendo udito il suono della tromba, perché si frapponeva una
valle abbastanza estesa, erano comunque trattenuti dai tribuni
militari e dai legati, secondo gli ordini di Cesare. Trascinati,
però, dalla speranza di una rapida vittoria, dalla fuga dei
nemici e dai successi precedenti, pensarono che non vi fosse
impresa impossibile per il loro valore. Così, non cessarono l'inseguimento
finché non ebbero raggiunto le mura e le porte della città. A
quel punto, da tutte le zone della città si levano alti clamori:
i Galli che si erano spinti più lontano, atterriti dal tumulto
improvviso, pensando che il nemico fosse entro le porte, si
lanciarono fuori dalla città. Dalle mura le madri di famiglia
gettavano vesti e oggetti d'argento, a petto nudo si sporgevano e
con le mani protese scongiuravano i Romani di risparmiarle, di
non massacrare donne e bambini, come invece era accaduto ad
Avarico. Alcune, calate giù dalle altre a forza di braccia, si
consegnavano ai nostri soldati. Quel giorno stesso, a quanto
constava, L. Fabio, centurione dell'ottava legione, aveva detto
ai suoi che lo riempiva d'ardore il bottino di Avarico e che non
avrebbe tollerato che un altro scalasse le mura prima di lui.
Infatti, con l'aiuto di tre soldati del suo manipolo salì sulle
mura; poi lì afferrò per mano uno a uno e, a sua volta li
sollevò.
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Nel frattempo, i nemici confluiti nella parte opposta della città
per i lavori di fortificazione, come abbiamo illustrato, ai primi
clamori e alle insistenti notizie che volevano la città caduta,
lanciano in avanti la cavalleria e accorrono in massa. Ciascuno
di loro, come arrivava, si piazzava ai piedi delle mura e
infoltiva la schiera dei suoi. Quando si era radunato un gruppo
consistente, le madri di famiglia, che dalle mura poco prima
tendevano le mani verso i nostri, cominciarono a scongiurare i
loro, a sciogliersi i capelli secondo l'uso gallico, a mostrare i
figli. I Romani non combattevano a parità di condizioni, né per
posizione, né per numero. Inoltre, stanchi per la corsa e la
durata dello scontro, reggevano con difficoltà agli avversari
freschi e riposati.
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Cesare si rese conto che la posizione era svantaggiosa e che le
truppe nemiche continuavano ad aumentare. Allora, in apprensione
per i suoi, inviò al legato T. Sestio, rimasto a presidio del
campo minore, l'ordine di far uscire rapidamente le sue coorti e
di schierarle sul fianco destro del nemico, ai piedi del colle:
se i nostri venivano respinti, doveva atterrire il nemico per
rendergli difficile l'inseguimento. Rispetto al luogo in cui si
era fermato, Cesare aveva guidato la legione leggermente più
avanti e attendeva l'esito della battaglia.
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Si combatteva corpo a corpo, con asprezza: i nemici confidavano
nella posizione e nel numero, i Romani nel valore. All'improvviso
comparvero sul nostro fianco scoperto gli Edui, inviati da Cesare
sulla destra per dividere le truppe nemiche. Al loro arrivo, la
somiglianza delle armi galliche seminò il panico tra i nostri,
che avevano sì visto il braccio destro scoperto, segno
convenzionale di riconoscimento, ma pensavano che si trattasse di
una mossa nemica per ingannarli. Al tempo stesso, il centurione L.
Fabio e i soldati che avevano scalato con lui la cinta,
circondati e uccisi, vengono precipitati dalle mura. M. Petronio,
centurione della stessa legione, mentre tentava di abbattere le
porte, fu sopraffatto da una massa di nemici. Ferito a più
riprese, senza ormai speranza di salvezza, gridò ai soldati del
suo manipolo, che lo avevano seguito: "Non posso salvarmi
insieme a voi, ma voglio almeno preoccuparmi della vostra vita,
io che vi ho messo in pericolo per sete di gloria. Ne avete la
possibilità, pensate a voi stessi". E subito si lanciò all'attacco
nel folto dei nemici, ne uccise due e allontanò alquanto gli
altri dalla porta. Ai suoi che cercavano di corrergli in aiuto,
disse: "Tentate invano di soccorrermi, perdo troppo sangue e
mi mancano le forze. Perciò fuggite, finché ne avete modo,
raggiungete la legione". Poco dopo cadde, con le armi in
pugno, ma fu la salvezza dei suoi.
51
I nostri, pressati da ogni lato, vennero respinti e persero
quarantasei centurioni. Ma i Galli che si erano lanciati all'inseguimento
con troppa foga, li frenò la decima legione, che era schierata
di rincalzo in una zona un po' più pianeggiante. A sua volta, la
decima ricevette sostegno dalle coorti della tredicesima, che
aveva lasciato il campo minore con il legato T. Sestio e si era
attestata su un rialzo. Le legioni, non appena raggiunsero la
pianura, volsero le insegne contro il nemico e presero posizione.
Vercingetorige chiamò entro le fortificazioni i suoi, che si
erano spinti fino ai piedi del colle. Quel giorno le nostre
perdite sfiorarono i settecento uomini.
52
L'indomani Cesare ordinò l'adunata e rimproverò l'avventatezza
e la smania dei soldati: da soli avevano giudicato fin dove si
doveva avanzare o come bisognava agire, non si erano fermati al
segnale di ritirata, né i tribuni militari, né i legati erano
riusciti a trattenerli. Spiegò quale peso avesse un luogo
svantaggioso e quali erano state le sue considerazioni ad Avarico,
quando, pur avendo sorpreso i nemici privi di comandante e di
cavalleria, aveva rinunciato a una vittoria sicura per evitare
anche il minimo danno nello scontro, e tutto perché la posizione
era sfavorevole. E quanto ammirava il loro coraggio - né le
fortificazioni dell'accampamento, né l'altezza dei monte, né le
mura della città erano valsi a frenarli - tanto biasimava la
loro insubordinazione e arroganza, perché credevano di saper
valutare circa la vittoria e l'esito dello scontro meglio del
comandante. Da un soldato esigeva modestia e disciplina non meno
che valore e coraggio.
53
Tenuto questo discorso, nella parte finale rinfrancò i soldati:
non dovevano turbarsi nell'animo per la sconfitta, né ascrivere
al valore nemico ciò che dipendeva solo dagli svantaggi del
campo di battaglia. E benché pensasse alla partenza, già prima
considerata opportuna, guidò fuori dal campo le legioni e le
schierò in un luogo adatto. Vercingetorige, non di meno,
continuava a tenersi all'interno delle fortificazioni e non
scendeva in pianura. Allora Cesare, dopo una scaramuccia tra le
cavallerie, in cui riportò la meglio, ricondusse l'esercito all'accampamento.
Il giorno seguente si ripeté la stessa cosa. Cesare, convinto di
aver fatto quanto bastava per sminuire la baldanza dei Galli e
rinfrancare il morale dei nostri soldati, mosse il campo verso il
territorio degli Edui. Neppure allora i nemici si mossero all'inseguimento.
Il terzo giorno ricostruì i ponti sull'Allier e condusse l'esercito
sull'altra sponda.
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Qui, gli edui Viridomaro ed Eporedorige gli chiedono un colloquio
e lo mettono al corrente che Litavicco era partito con tutta la
cavalleria alla volta degli Edui per istigarli alla rivolta:
occorreva che loro stessi lo precedessero e rientrassero in
patria per tenere a bada il popolo. Cesare aveva già ricevuto
molte prove della perfidia degli Edui e pensava che la loro
partenza avrebbe accelerato lo scoppio dell'insurrezione,
tuttavia decise di non trattenerli, per non dare l'idea di voler
recare offese o di nutrire timori. Prima della partenza, ai due
illustrò i suoi meriti nei confronti degli Edui: chi erano,
quanto erano deboli quando li aveva accolti sotto la sua
protezione, costretti a barricarsi nelle città, con i campi
confiscati, privi di tutte le truppe, costretti a pagare un
tributo e a consegnare ostaggi, offesa gravissima; per contro,
ricordò loro a quale prosperità e potenza li aveva poi condotti,
non solo fino a recuperare il precedente stato, ma a raggiungere
un grado di dignità e prestigio mai conosciuti in passato. Con
tale incarico li congedò.
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