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Cesare
De Bello Gallico
libro VII, cap 55-79

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Novioduno era una città degli Edui sulle rive della Loira, in posizione favorevole. Qui Cesare aveva raccolto tutti gli ostaggi della Gallia, il grano, il denaro pubblico, gran parte dei bagagli suoi e dell'esercito, qui aveva inviato molti cavalli acquistati in Italia e in Spagna per la guerra in corso. Eporedorige e Viridomaro, non appena arrivarono a Novioduno e seppero come andavano le cose tra gli Edui (avevano accolto Litavicco a Bibracte, la loro città più importante; il magistrato Convictolitave e la maggior parte del senato lo aveva raggiunto; a titolo ufficiale erano stati inviati emissari a Vercingetorige per trattare pace e alleanza), ritennero di non doversi lasciar sfuggire un'occasione simile. Perciò, eliminarono la guarnigione di Novioduno e i commercianti che lì risiedevano, si spartirono il denaro e i cavalli. Condussero a Bibracte, dal magistrato, gli ostaggi dei vari popoli e, giudicando di non poterla difendere, incendiarono la città, per impedire ai Romani di servirsene. Tutto il grano che lì per lì riuscirono a caricare sulle navi, lo trasportarono via, il resto lo gettarono in acqua o lo bruciarono. Intrapresero la raccolta di truppe dalle regioni limitrofe, disposero presidi e guarnigioni lungo la Loira, mentre la loro cavalleria compariva in ogni zona per incutere timore, nella speranza di tagliare ai Romani l'approvvigionamento di grano oppure di costringerli al ripiegamento in provincia, dopo averli condotti allo stremo. Ad alimentare le loro speranze contribuiva molto la Loira in piena per le nevi, al punto che sembrava proprio impossibile guadarla.

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Appena ne fu informato, Cesare ritenne di dover accelerare i tempi: se proprio doveva correre il rischio di costruire ponti, voleva combattere prima che si radunassero lì truppe nemiche più consistenti. Infatti, nessuno giudicava inevitabile modificare i piani e ripiegare verso la provincia, neppure in quel frangente: oltre all'onta e alla vergogna, lo impedivano i monti Cevenne e le strade impraticabili, che sbarravano il cammino; ma, soprattutto, Cesare nutriva grande apprensione per Labieno lontano e le legioni al suo seguito. Perciò, forzando al massimo le tappe e marciando di giorno e di notte, giunge alla Loira contro ogni aspettativa. I cavalieri trovano un guado adatto, almeno per quanto le circostanze permettevano: restavano fuori dall'acqua solo le braccia e le spalle per tenere sollevate le armi. Dispone la cavalleria in modo da frangere l'impeto della corrente e guida sano e salvo l'esercito sull'altra sponda, col nemico atterrito alla nostra vista. Nelle campagne trova grano e una grande quantità di bestiame, con cui rifornisce in abbondanza l'esercito. Dopo comincia la marcia sui Senoni.

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Mentre Cesare prendeva tali iniziative, Labieno lascia ad Agedinco, a presidio delle salmerie, i rinforzi recentemente giunti dall'Italia e punta su Lutezia con quattro legioni- Lutezia è una città dei Parisi che sorge su un'isola della Senna. Quando i nemici vengono a sapere del suo arrivo, raccolgono numerose truppe inviate dai popoli limitrofi. Il comando supremo viene conferito all'aulerco Camulogeno, persona ormai piuttosto anziana, chiamata a rivestire tale carica per la sua straordinaria perizia in campo militare. Camulogeno, avendo notato una palude interminabile, che alimentava la Senna e rendeva poco praticabile tutta la zona, vi si stabilì e si apprestò a sbarrare la strada ai nostri.

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Labieno prima tentò di spingere in avanti le vinee, di riempire la palude con fascine e zolle e di costruirsi un passaggio. Quando capi che l'operazione era troppo difficile, dopo mezzanotte uscì in silenzio dall'accampamento e raggiunse Metlosedo per la stessa strada da cui era venuto. Metlosedo è una città dei Senoni che sorge su un'isola della Senna, come Lutezia, di cui si è detto. Cattura circa cinquanta navi, le collega rapidamente e imbarca i soldati. Gli abitanti (i pochi rimasti, perché la maggior parte era lontana in guerra) rimangono atterriti dall'evento improvviso: Labieno prende la città senza neppure combattere. Ricostruisce il ponte distrutto dai nemici nei giorni precedenti, guida l'esercito sull'altra sponda e punta su Lutezia, seguendo il corso del fiume. I nemici, avvertiti dai fuggiaschi di Metlosedo, ordinano di incendiare Lutezia e di distruggere i ponti della città. Abbandonano la palude e si attestano lungo le rive della Senna, davanti a Lutezia, proprio di fronte a Labieno.

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Era già corsa voce della partenza di Cesare da Gergovia e giungevano notizie sulla defezione degli Edui e sui successi dell'insurrezione; nei loro abboccamenti, i Galli confermavano che Cesare si era trovato la strada sbarrata dalla Loira e che aveva ripiegato verso la provincia, costretto dalla mancanza di grano. I Bellovaci, poi, che già in passato di per sé non si erano dimostrati alleati fedeli, alla notizia della defezione degli Edui avevano cominciato la raccolta di truppe e scoperti preparativi di guerra. Allora Labieno, di fronte a un tale mutamento della situazione, capiva di dover prendere decisioni ben diverse dai suoi piani e non mirava più a riportare successi o a provocare il nemico a battaglia, ma solo a ricondurre incolume l'esercito ad Agedinco. Infatti, su un fronte incombevano i Bellovaci, che in Gallia godono fama di straordinario valore, sull'altro c'era Camulogeno con l'esercito pronto e schierato. Inoltre, un fiume imponente separava le legioni dal presidio e dalle salmerie. Con tante, improvvise difficoltà, vedeva che era necessario far ricorso a un atto di coraggio.

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Verso sera convoca il consiglio di guerra e incita a eseguire gli ordini con scrupolo e impegno. Ciascuna delle navi portate da Metlosedo viene affidata a un cavaliere romano. Li incarica di discendere in silenzio, dopo le nove di sera, il fiume per quattro miglia e di attendere lì il suo arrivo. Lascia a presidio dell'accampamento le cinque coorti che riteneva meno valide per il combattimento. Alle altre cinque della stessa legione comanda di partire con tutti i bagagli dopo mezzanotte e di risalire il corso del fiume con molto baccano. Si procura anche zattere: spinte a forza di remi con grande frastuono, le invia nella stessa direzione. Dal canto suo, poco dopo lascia in silenzio il campo alla testa di tre legioni e raggiunge il punto dove le navi dovevano approdare.

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Appena giungono, i nostri sopraffanno gli esploratori nemici - ce n'erano lungo tutto il fiume - cogliendoli alla sprovvista per lo scoppio di un violento temporale. Sotto la guida dei cavalieri romani preposti alle operazioni, l'esercito e la cavalleria passano velocemente sull'altra riva. Quasi nello stesso istante, verso l'alba, i nemici vengono informati che un tumulto insolito regnava nel campo romano e che una schiera numerosa risaliva il fiume, mentre nella stessa direzione si udivano colpi di remi e, un po' più in basso, altri soldati trasbordavano su nave. A tale notizia, i nemici si convincono che le legioni stavano varcando il fiume in tre punti e si apprestavano alla fuga, sconvolte dalla defezione degli Edui. Allora anch'essi suddivisero in tre reparti le truppe. Lasciarono un presidio proprio di fronte all'accampamento e inviarono verso Metlosedo un piccolo contingente, che doveva avanzare a misura di quanto procedevano le navi. Poi, guidarono il resto dell'esercito contro Labieno.

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All'alba tutti i nostri avevano ormai varcato il fiume ed erano in vista della schiera nemica. Labieno esorta i soldati a ricordarsi dell'antico valore e delle loro grandissime vittorie, a far conto che fosse presente Cesare in persona, sotto la cui guida tante volte avevano battuto il nemico. Quindi, dà il segnale d'attacco. Al primo assalto, all'ala destra, dove era schierata la settima legione, il nemico viene respinto e costretto alla fuga; sulla sinistra, settore presidiato dalla dodicesima legione, le prime file dei Galli erano cadute sotto i colpi dei giavellotti, ma gli altri resistevano con estrema tenacia e nessuno dava segni di fuga. Il comandante nemico stesso, Camulogeno, stava al fianco dei suoi e li incoraggiava. E l'esito dello scontro era ancora incerto, quando ai tribuni militari della settima legione venne riferito come andavano le cose all'ala sinistra: la legione comparve alle spalle del nemico e si lanciò all'attacco. Nessuno dei Galli, neppure allora, abbandonò il proprio posto, ma tutti vennero circondati e uccisi. La stessa sorte toccò a Camulogeno. I soldati nemici rimasti come presidio di fronte al campo di Labieno, non appena seppero che si stava combattendo, mossero in aiuto dei loro e si attestarono su un colle, ma non riuscirono a resistere all'assalto dei nostri vittoriosi. Così, si unirono agli altri in fuga: chi non trovò riparo nelle selve o sui monti, venne massacrato dalla nostra cavalleria. Portata a termine l'impresa, Labieno rientra ad Agedinco, dove erano rimaste le salmerie di tutto l'esercito. Da qui, con tutte le truppe raggiunge Cesare.

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Quando si viene a sapere della defezione degli Edui, la guerra divampa ancor più. Si inviano ambascerie ovunque: ogni risorsa a loro disposizione, che fosse il prestigio, l'autorità o il denaro, la impiegano per sollevare gli altri popoli. Sfruttano gli ostaggi lasciati da Cesare in loro custodia, minacciano di metterli a morte e, così, spaventano chi ancora esita. Gli Edui chiedono a Vercingetorige di raggiungerli per concertare una strategia comune. Ottenuto ciò, pretendono il comando supremo. La cosa sfocia in una controversia, viene indetto un concilio di tutta la Gallia a Bibracte. Arrivano da ogni regione, in gran numero. La questione è messa ai voti. Tutti, nessuno escluso, approvano Vercingetorige come capo. Al concilio non parteciparono i Remi, i Lingoni, i Treveri: i primi due perché rimanevano fedeli all'alleanza con Roma; i Treveri perché erano troppo distanti e pressati dai Germani, motivo per cui non parteciparono mai alle operazioni di questa guerra e non inviarono aiuti a nessuno dei due contendenti. Per gli Edui è un duro colpo la perdita del primato, lamentano il cambiamento di sorte e rimpiangono l'indulgenza di Cesare nei loro confronti. Ma la guerra era ormai iniziata, ed essi non osano separarsi dagli altri. Loro malgrado, Eporedorige e Viridomaro, giovani molto ambiziosi, obbediscono a Vercingetorige.

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Vercingetorige impone ostaggi agli altri popoli e ne fissa la data di consegna. Ordina che tutti i cavalieri, in numero di quindicimila, lì si radunino rapidamente. Quanto alla fanteria, diceva, si sarebbe accontentato delle truppe che aveva già prima. Non avrebbe tentato la sorte o combattuto in campo aperto; aveva una grande cavalleria, era assai facile impedire ai Romani l'approvvigionamento di grano e foraggio; bastava che i Galli si rassegnassero a distruggere le proprie scorte e a incendiare le case: la perdita dei beni privati, lo vedevano anch'essi, significava autonomia e libertà perpetue. Dopo aver così deciso, agli Edui e ai Segusiavi, che confinano con la provincia, impone l'invio di diecimila fanti. Vi aggiunge ottocento cavalieri. Ne affida il comando al fratello di Eporedorige e gli ordina di attaccare gli Allobrogi. Sul versante opposto, contro gli Elvi manda i Gabali e le tribù di confine degli Arverni, mentre invia i Ruteni e i Cadurci a devastare le terre dei Volci Arecomici. Non di meno, con emissari clandestini e ambascerie sobilla gli Allobrogi, perché sperava che dall'ultima sollevazione i loro animi non si fossero ancora assopiti. Ai capi degli Allobrogi promette denaro, al popolo invece, il comando di tutta la provincia.

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Per far fronte a ogni evenienza, i nostri avevano provveduto a disporre un presidio di ventidue coorti: arruolate nella provincia stessa dal legato L. Cesare, formavano uno sbarramento lungo tutto il fronte. Gli Elvi, scesi per proprio conto a battaglia con i popoli limitrofi, vengono respinti e sono costretti a rifugiarsi all'interno delle loro città e mura, dopo aver registrato gravi perdite: tra i tanti altri, era caduto C. Valerio Domnotauro, figlio di Caburo e loro principe. Gli Allobrogi dislocano parecchi presidi lungo il Rodano, sorvegliano con cura e attenzione i propri territori. Cesare capiva che la cavalleria nemica era superiore e che, con tutte le strade tagliate, non poteva contare su rinforzi dalla provincia e dall'Italia. Allora invia emissari oltre il Reno, in Germania, alle genti da lui sottomesse negli anni precedenti: chiede cavalleria e fanti armati alla leggera, abituati a combattere tra i cavalieri. Appena arrivano, Cesare, notando che montavano su cavalli non di razza, requisisce i destrieri dei tribuni militari, degli altri cavalieri romani e dei richiamati e li distribuisce ai Germani.

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Nel frattempo, mentre accadevano tali fatti, giungono le truppe degli Arverni e i cavalieri che tutta la Gallia doveva fornire. Mentre raccoglievano, così, ingenti truppe, Cesare attraversa i più lontani territori dei Lingoni alla volta dei Sequani, allo scopo di portare aiuto con maggior facilità alla provincia. Vercingetorige si stabilisce a circa dieci miglia dai Romani, in tre distinti accampamenti. Convoca i comandanti della cavalleria e spiega che l'ora della vittoria è giunta: i Romani fuggivano in provincia, lasciavano la Gallia; al momento era sufficiente a ottenere la libertà, ma per il futuro non garantiva pace e quiete; i Romani avrebbero raccolto truppe più consistenti, sarebbero ritornati, non avrebbero posto fine alla guerra. Perciò bisognava attaccarli in marcia, quando erano impacciati dai bagagli. Se i legionari soccorrevano gli altri e si attardavano, non potevano proseguire la marcia; se abbandonavano le salmerie e pensavano a salvare la vita - e sarebbe andata così, ne era certo - perdevano ogni bene di prima necessità e, insieme, l'onore. Quanto ai cavalieri nemici, nessuno avrebbe osato nemmeno uscire dallo schieramento, non c'era dubbio. E perché muovessero all'attacco con maggior ardimento, avrebbe tenuto dinnanzi al campo tutte le truppe e atterrito il nemico. I cavalieri galli acclamano: bisognava giurare solennemente che si negava un tetto e la possibilità di avvicinare figli, genitori o moglie a chi, sul proprio cavallo, non attraversava per due volte le linee nemiche.

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La proposta viene approvata e tutti prestano giuramento. Il giorno seguente dividono la cavalleria in tre gruppi: due compaiono sui fianchi del nostro schieramento, la terza comincia a contrastarci il passo all'avanguardia. Appena glielo comunicano, Cesare divide la cavalleria in tre parti e ordina di affrontare il nemico. Si combatteva contemporaneamente in ogni settore. L'esercito si ferma, le salmerie vengono raccolte in mezzo alle legioni. Se in qualche zona i nostri sembravano in difficoltà o troppo alle strette, lì Cesare ordinava di muovere all'attacco e di formare la linea. La manovra ritardava l'inseguimento nemico e rinfrancava i nostri con la speranza del sostegno. Alla fine, i Germani all'ala destra respingono i nemici, sfruttando un alto colle: inseguono i fuggiaschi sino al fiume, dove Vercingetorige si era attestato con la fanteria, e ne uccidono parecchi. Appena se ne accorgono, gli altri si danno alla fuga, temendo l'accerchiamento. È strage ovunque. Tre Edui di stirpe assai nobile vengono catturati e condotti a Cesare: Coto, il comandante della cavalleria. che aveva avuto nell'ultima elezione un contrasto con Convictolitave; Cavarillo, preposto alla fanteria dopo la defezione di Litavicco; Eporedorige, sotto la cui guida gli Edui avevano combattuto contro i Sequani prima dell'arrivo di Cesare.

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Vista la rotta della cavalleria, Vercingetorige ritirò le truppe schierate dinnanzi all'accampamento e mosse direttamente verso Alesia, città dei Mandubi, ordinando di condurre rapidamente le salmerie fuori dal campo e di seguirlo. Cesare porta i bagagli sul colle più vicino e vi lascia due legioni come presidio. Lo insegue finché c'è luce: uccide circa tremila uomini della retroguardia e il giorno successivo si accampa davanti ad Alesia. Esaminata la posizione della città e tenuto conto che i nemici erano atterriti, perché era stata messa in fuga la loro cavalleria, ossia il reparto su cui più confidavano, esorta i soldati all'opera e comincia a circondare Alesia con un vallo.

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La città di Alesia sorgeva sulla cima di un colle molto elevato, tanto che l'unico modo per espugnarla sembrava l'assedio. I piedi del colle, su due lati, erano bagnati da due fiumi. Davanti alla città si stendeva una pianura lunga circa tre miglia; per il resto, tutt'intorno, la cingevano altri colli di uguale altezza, poco distanti l'uno dall'altro. Sotto le mura, la parte del colle che guardava a oriente brulicava tutta di truppe galliche; qui, in avanti, avevano scavato una fossa e costruito un muro a secco alto sei piedi. Il perimetro della cinta di fortificazione iniziata dai Romani raggiungeva le dieci miglia. Si era stabilito l'accampamento in una zona vantaggiosa, erano state costruite ventitré ridotte: di giorno vi alloggiavano corpi di guardia per prevenire attacchi improvvisi, di notte erano tenute da sentinelle e saldi presidi.

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Quando i lavori erano già iniziati, le cavallerie vengono a battaglia nella pianura che si stendeva tra i colli per tre miglia di lunghezza, come abbiamo illustrato. Si combatte con accanimento da entrambe le parti. In aiuto dei nostri in difficoltà, Cesare invia i Germani e schiera le legioni di fronte all'accampamento, per impedire un attacco improvviso della fanteria nemica. Il presidio delle legioni infonde coraggio ai nostri. I nemici sono messi in fuga: numerosi com'erano, si intralciano e si accalcano a causa delle porte, costruite troppo strette. I Germani li inseguono con maggior veemenza fino alle fortificazioni. Ne fanno strage: alcuni smontano da cavallo e tentano di superare la fossa e di scalare il muro. Alle legioni schierate davanti al vallo Cesare ordina di avanzare leggermente. Un panico non minore prende i Galli all'interno delle fortificazioni: pensano a un attacco imminente, gridano di correre alle armi. Alcuni, sconvolti dal terrore, si precipitano in città. Vercingetorige comanda di chiudere le porte, perché l'accampamento non rimanesse sguarnito. Dopo aver ucciso molti nemici e catturato parecchi cavalli, i Germani ripiegano.

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Vercingetorige prende la decisione di far uscire di notte tutta la cavalleria, prima che i Romani portassero a termine la linea di fortificazione. Alla partenza, raccomanda a tutti di raggiungere ciascuno la propria gente e di raccogliere per la guerra tutti gli uomini che, per età, potevano portare le armi. Ricorda i suoi meriti nei loro confronti, li scongiura di tener conto della sua vita, di non abbandonarlo al supplizio dei nemici, lui che tanti meriti aveva nella lotta per la libertà comune. E se avessero svolto il compito con minor scrupolo, insieme a lui avrebbero perso la vita ottantamila uomini scelti. Fatti i conti, aveva grano a malapena per trenta giorni, ma se lo razionava, poteva resistere anche un po' di più. Con tali compiti, prima di mezzanotte fa uscire, in silenzio, la cavalleria nel settore dove i nostri lavori non erano ancora arrivati. Ordina la consegna di tutto il grano; fissa la pena capitale per chi non avesse obbedito; quanto al bestiame, fornito in grande quantità dai Mandubi, distribuisce a ciascuno la sua parte; fa economia di grano e comincia a razionarlo; accoglie entro le mura tutte le truppe prima schierate davanti alla città. Prese tali misure, attende i rinforzi della Gallia e si prepara a guidare le operazioni.

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Cesare, appena ne fu informato dai fuggiaschi e dai prigionieri, approntò una linea di fortificazione come segue: scavò una fossa di venti piedi, con le pareti verticali, facendo sì che la larghezza del fondo corrispondesse alla distanza tra i bordi superiori; tutte le altre opere difensive le costruì più indietro, a quattrocento piedi dalla fossa: avendo dovuto abbracciare uno spazio così vasto e non essendo facile dislocare soldati lungo tutto il perimetro, voleva impedire che i nemici, all'improvviso o nel corso della notte, piombassero sulle nostre fortificazioni, oppure che durante il giorno potessero scagliare dardi sui nostri occupati nei lavori. A tale distanza, dunque, scavò due fosse della stessa profondità, larghe quindici piedi. Delle due, la più interna, situata in zone pianeggianti e basse, venne riempita con acqua derivata da un fiume. Ancor più indietro innalzò un terrapieno e un vallo di dodici piedi, a cui aggiunse parapetto e merli, con grandi pali sporgenti dalle commessure tra i plutei e il terrapieno allo scopo di ritardare la scalata dei nemici. Lungo tutto il perimetro delle difese innalzò torrette distanti ottanta piedi l'una dall'altra.

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Bisognava contemporaneamente cercare legna e frumento e costruire fortificazioni così imponenti, mentre i nostri effettivi non facevano che diminuire, perché i soldati si allontanavano sempre più dal campo. E alle volte i Galli assalivano le nostre difese e dalla città tentavano sortite da più porte, con grande slancio. Perciò, Cesare ritenne opportuno aggiungere altre opere alle fortificazioni già approntate, per poterle difendere con un numero minore di soldati. Allora tagliò tronchi d'albero con i rami molto robusti, li scortecciò e li rese molto aguzzi sulla punta; poi, scavò fosse continue per la profondità di cinque piedi. Qui piantò i tronchi e, perché non li potessero svellere, li legò alla base, lasciando sporgere i rami. A cinque a cinque erano le file, collegate tra loro e raccordate: chi vi entrava, rimaneva trafitto sui pali acutissimi. Li chiamammo cippi. Davanti ai cippi scavò buche profonde tre piedi, leggermente più strette verso il fondo e disposte per linee oblique, come il cinque nei dadi. Vi conficcò tronchi lisci, spessi quanto una coscia, molto aguzzi e induriti col fuoco sulla punta, non lasciandoli sporgere dal terreno più di quattro dita. Inoltre, per renderli ben fermi e saldi, in basso aggiunse terra per un piede d'altezza e la pressò; il resto del tronco venne ricoperto di vimini e arbusti per nascondere l'insidia. Ne allineò otto file, distanti tre piedi l'una dall'altra. Le denominammo, per la somiglianza con il fiore, gigli. Davanti a esse vennero interrati pioli lunghi un piede, forniti di un artiglio di ferro: ne disseminammo un po' ovunque, a breve distanza. Presero il nome di stimoli.

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Terminate tali opere, seguendo i terreni più favorevoli per conformazione naturale, costruì una linea difensiva dello stesso genere, lunga quattordici miglia, ma opposta alla prima, contro un nemico proveniente dalle spalle: così, anche nel caso di un attacco in massa dopo la sua partenza, gli avversari non avrebbero potuto circondare i presidi delle fortificazioni, né i nostri si sarebbero trovati costretti a sortite rischiose. Ordina a tutti di portare con sé foraggio e grano per trenta giorni.

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Così andavano le cose ad Alesia. Nel frattempo, i Galli indicono un concilio dei capi, stabiliscono di non chiamare alle armi tutti gli uomini abili, come aveva chiesto Vercingetorige, ma di imporre ad ogni popolo la consegna di un contingente determinato, perché temevano che fosse impossibile, tra tanta confusione di popoli, mantenere la disciplina, riconoscere le proprie truppe, amministrare le provviste di grano. Agli Edui e ai loro alleati, ossia i Segusiavi, gli Ambivareti, gli Aulerci Brannovici, i Blannovi, ordinano di fornire trentacinquemila uomini; altrettanti agli Arverni insieme agli Eleuteti, ai Cadurci, ai Gabali, ai Vellavi, da tempo clienti degli Arverni stessi; ai Sequani, ai Senoni, ai Biturigi, ai Santoni, ai Ruteni, ai Carnuti dodicimila ciascuno; ai Bellovaci diecimila; ottomila ciascuno ai Pictoni, ai Turoni, ai Parisi e agli Elvezi; agli Ambiani, ai Mediomatrici, ai Petrocori, ai Nervi, ai Morini, ai Nitiobrogi cinquemila ciascuno; altrettanti agli Aulerci Cenomani; agli Atrebati quattromila; ai Veliocassi, ai Lexovi e agli Aulerci Eburovici tremila ciascuno; ai Rauraci e ai Boi mille ciascuno; ventimila a tutti quei popoli che si affacciano sull'Oceano e che, come dicono loro stessi, si chiamano Aremorici, tra i quali ricordiamo i Coriosoliti, i Redoni, gli Ambibari, i Caleti, gli Osismi, i Lemovici, gli Unelli. Di tutti i popoli citati, solo i Bellovaci non inviarono il contingente completo, dicendo che avrebbero mosso guerra ai Romani per proprio conto e arbitrio e che non avrebbero preso ordini da nessuno. Tuttavia, su preghiera di Commio, in ragione dei vincoli di ospitalità che li legavano a lui, inviarono duemila soldati.

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Dei fidati e preziosi servigi di Commio, Cesare si era avvalso negli anni precedenti, lo abbiamo detto. In cambio, aveva decretato che gli Atrebati fossero esenti da tributi, aveva loro restituito diritto e leggi e assegnato la tutela dei Morini. Ma il consenso della Gallia, che voleva riacquistare l'indipendenza e recuperare l'antica gloria militare, era così unanime, da rendere chiunque insensibile anche ai benefici e al ricordo dell'amicizia: tutti si gettavano nel conflitto col cuore e con ogni risorsa. Vengono raccolti ottomila cavalieri e circa duecentoquarantamila fanti; nelle terre degli Edui si procede a passarli in rassegna, a contarli, a nominare gli ufficiali. Il comando supremo viene affidato all'atrebate Commio, agli edui Viridomaro ed Eporedorige, all'arverno Vercassivellauno, cugino di Vercingetorige. A essi vengono affiancati alcuni rappresentanti dei vari popoli, che formavano il consiglio per condurre le operazioni. Pieni di ardore e di fiducia si dirigono ad Alesia. Nessuno credeva possibile reggere alla vista di un tale esercito, tanto meno in uno scontro su due fronti, quando i Romani, mentre combattevano per una sortita dalla città, avessero scorto alle loro spalle truppe di fanteria e cavalleria così imponenti.

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Ma gli assediati in Alesia, scaduto il giorno previsto per l'arrivo dei rinforzi ed esaurite tutte le scorte di grano, ignari di ciò che stava accadendo nelle terre degli Edui, convocarono un'assemblea e si consultarono sull'esito della propria sorte. E tra i vari pareri - c'era chi propendeva per la resa, chi per una sortita, finché le forze bastavano - crediamo di non dover tralasciare il discorso di Critognato per la sua straordinaria ed empia crudeltà. Persona di altissimo lignaggio tra gli Arverni e molto autorevole, così parlò: "Non spenderò una parola riguardo al parere di chi chiama resa una vergognosissima schiavitù: costoro non li considero cittadini e non dovrebbero avere neppure il diritto di partecipare all'assemblea. È mia intenzione rivolgermi a chi approva la sortita, soluzione che conserva l'impronta dell'antico valore, tutti voi ne convenite. Non essere minimamente capaci di sopportare le privazioni, non è valore, ma debolezza d'animo. È più facile trovare volontari pronti alla morte piuttosto che gente disposta a sopportare pazientemente il dolore. E anch'io - tanto è forte in me il senso dell'onore - sarei dello stesso avviso, se vedessi derivare un danno solo per la nostra vita. Ma nel prendere la decisione, rivolgiamo gli occhi a tutta la Gallia, che abbiamo chiamato in soccorso. Quale sarà, secondo voi, lo stato d'animo dei nostri parenti e consanguinei, quando vedranno ottantamila uomini uccisi in un sol luogo e dovranno combattere quasi sui nostri cadaveri? Non negate il vostro aiuto a chi, per salvare voi, non ha curato pericoli. Non prostrate la Gallia intera, non piegatela a una servitù perpetua a causa della vostra stoltezza e imprudenza o per colpa della fragilità del vostro animo. Sì, i rinforzi non sono giunti nel giorno fissato, ma per questo dubitate della loro lealtà e costanza? E allora? Credete che ogni giorno i Romani là, nelle fortificazioni esterne, lavorino per divertimento? Se non potete ricevere una conferma perché le vie sono tutte tagliate, prendete allora i Romani come testimonianza del loro imminente arrivo: è il timore dei nostri rinforzi che li spinge a lavorare giorno e notte alle fortificazioni. Che cosa suggerisco, dunque? Di imitare i nostri padri quando combattevano contro i Cimbri e i Teutoni, in una guerra che non aveva nulla a che vedere con la nostra: costretti a chiudersi nelle città e a patire come noi dure privazioni, si mantennero in vita con i corpi di chi, per ragioni d'età, sembrava inutile alla guerra, e non si arresero ai nemici. Se non avessimo già un precedente del genere, giudicherei giusto istituirlo per la nostra libertà e tramandarlo ai posteri come fulgido esempio. E poi, quali somiglianze ci sono tra la loro guerra e la nostra? I Cimbri, devastata la Gallia e seminata rovina, si allontanarono una buona volta dalle nostre campagne e si diressero verso altre terre, lasciandoci il nostro diritto, le leggi, i campi, la libertà. I Romani, invece, che altro cercano o vogliono, se non stanziarsi nelle campagne e città di qualche popolo, spinti dall'invidia, appena sanno che è nobile e forte in guerra? Oppure che altro, se non assoggettarlo in un'eterna schiavitù? Non hanno mai mosso guerra con altre intenzioni. E se ignorate le vicende delle regioni più lontane, volgete gli occhi alla Gallia limitrofa, ridotta a provincia: ha mutato il diritto e le leggi, è soggetta alle scuri e piegata in una perpetua servitù".

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Espressi i vari pareri, decidono di allontanare dalla città chi, per malattia o età, non poteva combattere e di tentare tutto prima di risolversi alla proposta di Critognato; tuttavia, in caso di necessità o di ritardo dei rinforzi, bisognava giungere a un tale passo piuttosto che accettare condizioni di resa o di pace. I Mandubi, che li avevano accolti nella loro città, sono costretti a partire con i figli e le mogli. Giunti ai piedi delle difese romane, tra le lacrime e con preghiere d'ogni genere, supplicavano i nostri di prenderli come schiavi e di dar loro del cibo. Ma Cesare, disposte sentinelle sul vallo, impediva di accoglierli.

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Nel frattempo, Commio e gli altri capi, a cui era stato conferito il comando, giungono ad Alesia con tutte le truppe, occupano il colle esterno e si attestano a non più di un miglio dalle nostre difese. Il giorno seguente mandano in campo la cavalleria e riempiono tutta la pianura che si stendeva per tre miglia, come sopra ricordato. Quanto alla fanteria, la dispongono poco distante, nascosta sulle alture. Dalla città di Alesia la vista dominava sulla pianura. Appena scorgono i rinforzi, i Galli accorrono: esultano, gli animi di tutti si schiudono alla gioia. Così, guidano le truppe fuori dalle mura e si schierano di fronte alla città, coprono la prima fossa con fascine, la colmano di terra si preparano all'attacco, al tutto per tutto.

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