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Cesare
De Bello Gallico
libro VII, cap 80-90
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Cesare dispone l'esercito lungo entrambe le linee fortificate,
perché ciascuno, in caso di necessità, conoscesse il proprio
posto e lì si schierasse. Poi, guida la cavalleria fuori dal
campo e ordina di dar inizio alla battaglia. Da ogni punto del
campo, situato sulla cima del colle, la vista dominava; tutti i
soldati, ansiosi, aspettavano l'esito dello scontro. I Galli
tenevano in mezzo alla cavalleria pochi arcieri e fanti dall'armatura
leggera, che avevano il compito di soccorrere i loro quando
ripiegavano e di frenare l'impeto dei nostri cavalieri. Gli
arcieri e i fanti avevano colpito alla sprovvista parecchi dei
nostri, costringendoli a lasciare la mischia. Da ogni parte tutti
i Galli, sia chi era rimasto all'interno delle difese, sia chi
era giunto in rinforzo, convinti della loro superiorità e
vedendo i nostri pressati dalla loro massa, incitavano i loro con
grida e urla. Lo scontro si svolgeva sotto gli occhi di tutti,
perciò nessun atto di coraggio o di viltà poteva sfuggire: il
desiderio di gloria e la paura dell'ignominia spronavano al
valore gli uni e gli altri. Si combatteva da mezzogiorno, il
tramonto era ormai vicino e l'esito era ancora incerto, quand'ecco
che, in un settore, a ranghi serrati i cavalieri germani
caricarono i nemici e li volsero in fuga. Alla ritirata della
cavalleria, gli arcieri vennero circondati e uccisi. Anche nelle
altre zone i nostri inseguirono fino all'accampamento i nemici in
fuga, senza permetter loro di raccogliersi. I Galli che da Alesia
si erano spinti in avanti, mesti, disperando o quasi della
vittoria, cercarono rifugio in città.
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I Galli lasciarono passare un giorno, durante il quale
approntarono una gran quantità di fascine, scale, ramponi. A
mezzanotte, in silenzio, escono dall'accampamento e si avvicinano
alle nostre fortificazioni di pianura. All'improvviso lanciano
alte grida: era il segnale convenuto per avvisare del loro arrivo
chi era in città. Si apprestano a gettare fascine, a disturbare
i nostri sul vallo con fionde, frecce e pietre, ad azionare ogni
macchina che serve in un assalto. Contemporaneamente, appena
sente le grida, Vercingetorige dà ai suoi il segnale con la
tromba e li guida fuori dalla città. I nostri raggiungono le
fortificazioni, ciascuno nel posto che gli era stato assegnato
nei giorni precedenti. Usando fionde che lanciano proiettili da
una libbra e con pali disposti sulle difese, atterriscono i Galli
e li respingono. Le tenebre impediscono la vista, gravi sono le
perdite in entrambi gli schieramenti. Le macchine da lancio
scagliano nugoli di frecce. E i legati M. Antonio e C. Trebonico
cui era toccata la difesa di questi settori, chiamano rinforzi
dalle ridotte più lontane e li mandano nelle zone dove capivano
che i nostri si trovavano in difficoltà.
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Finché i Galli erano abbastanza distanti dalle nostre
fortificazioni, avevano un certo vantaggio, per il nugolo di
frecce da loro lanciate; una volta avvicinatisi, invece, presi
alla sprovvista, finivano negli stimoli o cadevano nelle fosse
rimanendo trafitti oppure venivano uccisi dai giavellotti
scagliati dal vallo e dalle torri. In tutti i settori subirono
parecchie perdite e non riuscirono a far breccia in nessun punto;
all'approssimarsi dell'alba ripiegarono, nel timore che i nostri
tentassero una sortita dall'accampamento più alto e li
accerchiassero dal fianco scoperto. E gli assediati, intenti a
spingere in avanti le macchine preparate da Vercingetorige per la
sortita e a riempire le prime fosse, mentre procedevano con
troppa lentezza, vengono a sapere che i loro si erano ritirati
prima di aver raggiunto le nostre difese. Così, senza aver
concluso nulla, rientrano in città.
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I Galli, respinti due volte con gravi perdite, si consultano sul
da farsi. Chiamano gente pratica della zona. Da essi apprendono
com'era disposto e fortificato il nostro accampamento superiore.
A nord c'era un colle che, per la sua estensione, i nostri non
avevano potuto abbracciare nella linea difensiva: erano stati
costretti a porre il campo in una posizione quasi sfavorevole, in
leggera pendenza. Il campo era occupato dai legati C. Antistio
Regino e C. Caninio Rebilo con due legioni. Gli esploratori
effettuano un sopralluogo della zona, mentre i comandanti nemici
scelgono sessantamila soldati tra tutti i popoli ritenuti più
valorosi. In segreto mettono a punto il piano e le modalità d'azione.
Fissano l'ora dell'attacco verso mezzogiorno. Il comando delle
truppe suddette viene affidato all'arverno Vercassivellauno, uno
dei quattro capi supremi, parente di Vercingetorige.
Vercassivellauno uscì dal campo dopo le sei di sera e giunse
quasi a destinazione poco prima dell'alba, si nascose dietro il
monte e ordinò ai soldati di riposarsi dopo la fatica della
marcia notturna. Quando ormai sembrava avvicinarsi mezzogiorno,
puntò sull'accampamento di cui abbiamo parlato. Al contempo, la
cavalleria cominciò ad accostarsi alle nostre difese di pianura
e le truppe rimanenti comparvero dinnanzi al loro campo.
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Vercingetorige vede i suoi dalla rocca di Alesia ed esce dalla
città. Porta fascine, pertiche, ripari, falci e ogni altra arma
preparata per la sortita. Si combatte contemporaneamente in ogni
zona, tutte le nostre difese vengono attaccate: dove sembravano
meno salde, là i nemici accorrevano. Le truppe romane sono
costrette a dividersi per l'estensione delle linee, né è facile
respingere gli attacchi sferrati contemporaneamente in diversi
settori. Il clamore che si alza alle spalle dei nostri, mentre
combattevano, contribuisce molto a seminare il panico, perché
capivano che la loro vita era legata alla salvezza degli altri: i
pericoli che non stanno dinnanzi agli occhi, in genere, turbano
con maggior intensità le menti degli uomini.
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Cesare, trovato un punto di osservazione adatto, vede che cosa
accade in ciascun settore. Invia aiuti a chi è in difficoltà. I
due eserciti sentono che è il momento decisivo, in cui occorreva
lottare allo spasimo: i Galli, se non forzavano la nostra linea,
perdevano ogni speranza di salvezza; i Romani, se tenevano, si
aspettavano la fine di tutti i travagli. Lo scontro era più
aspro lungo le fortificazioni sul colle, dove, lo abbiamo detto,
era stato inviato Vercassivellauno. La posizione sfavorevole dei
nostri, in salita, aveva un peso determinante. Dei Galli, alcuni
scagliano dardi, altri formano la testuggine e avanzano. Forze
fresche danno il cambio a chi è stanco. Tutti quanti gettano
sulle difese molta terra, che permette ai Galli la scalata e
ricopre le insidie nascoste nel terreno dai Romani. Ai nostri,
ormai, mancano le armi e le forze.
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Quando lo viene a sapere, a rinforzo di chi si trova in difficoltà
Cesare invia Labieno con sei coorti. Gli ordina, se non riusciva
a respingere l'attacco, di portar fuori le coorti e di tentare
una sortita, ma solo in caso di necessità estrema. Dal canto suo,
raggiunge gli altri, li esorta a non cedere, spiega che in quel
giorno, in quell'ora era riposto ogni frutto delle battaglie
precedenti. I nemici sul fronte interno, disperando di poter
forzare le difese di pianura, salde com'erano, attaccano i dirupi,
cercando di scalarli: sulla sommità ammassano tutte le armi
approntate. Con nugoli di frecce scacciano i nostri difensori
dalle torri, riempiono le fosse con terra e fascine, spezzano il
vallo e il parapetto mediante falci.
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Cesare prima invia il giovane Bruto con alcune coorti, poi il
legato C. Fabio con altre. Alla fine egli stesso, mentre si
combatteva sempre più aspramente, reca in aiuto forze fresche.
Capovolte le sorti dello scontro e respinti i nemici, si dirige
dove aveva inviato Labieno. Preleva quattro coorti dalla ridotta
più vicina e ordina che parte della cavalleria lo segua, parte
aggiri le difese esterne e attacchi il nemico alle spalle. Poiché
né i terrapieni, né le fosse valevano a frenare l'impeto dei
nemici, Labieno raduna trentanove coorti, che la sorte gli
permise di raccogliere dalle ridotte più vicine. Quindi, invia a
Cesare messaggeri per informarlo delle sue intenzioni.
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Cesare si affretta, per prendere parte alla battaglia. I nemici,
dominando dall'alto i declivi e i pendii dove transitava Cesare,
mossero all'attacco, non appena notarono il suo arrivo per il
colore del mantello che di solito indossava in battaglia e videro
gli squadroni di cavalleria e le coorti che avevano l'ordine di
seguirlo. Entrambi gli eserciti levano alte grida, un grande
clamore risponde dal vallo e da tutte le fortificazioni. I nostri
lasciano da parte i giavellotti e mettono mano alle spade. All'improvviso
compare la cavalleria dietro i nemici. Altre coorti stavano
accorrendo: i Galli volgono le spalle. I cavalieri affrontano gli
avversari in fuga. È strage. Sedullo, comandante e principe dei
Lemovici aremorici, cade; l'arverno Vercassivellauno è catturato
vivo, mentre tentava la fuga; a Cesare vengono portate
settantaquattro insegne militari; di tanti che erano, solo pochi
nemici raggiungono salvi l'accampamento. Dalla città vedono il
massacro e la ritirata dei loro: persa ogni speranza di salvezza,
richiamano le truppe dalle fortificazioni. Appena odono il
segnale di ritirata, i Galli fuggono dall'accampamento. E se i
nostri soldati non avessero risentito delle continue azioni di
soccorso e della fatica di tutta la giornata, avrebbero potuto
annientare le truppe avversarie. Verso mezzanotte la cavalleria
si muove all'inseguimento della retroguardia nemica: molti
vengono catturati e uccisi; gli altri, proseguendo la fuga,
raggiungono i rispettivi popoli.
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Il giorno seguente, Vercingetorige convoca l'assemblea e spiega
che quella guerra l'aveva intrapresa non per proprio interesse,
ma per la libertà comune. E giacché si doveva cedere alla sorte,
si rimetteva ai Galli, pronto a qualsiasi loro decisione, sia che
volessero ingraziarsi i Romani con la sua morte o che volessero
consegnarlo vivo. A tale proposito viene inviata una legazione a
Cesare, che esige la resa delle armi e la consegna dei capi dei
vari popoli. Pone il suo seggio sulle fortificazioni, dinnanzi
all'accampamento: qui gli vengono condotti i comandanti galli,
Vercingetorige si arrende, le armi vengono gettate ai suoi piedi.
A eccezione degli Edui e degli Arverni, tutelati nella speranza
di poter riguadagnare, tramite loro, le altre genti, Cesare
distribuisce, a titolo di preda, i prigionieri dei rimanenti
popoli a tutto l'esercito, uno a testa.
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Terminate le operazioni, parte verso le terre degli Edui; accetta
la resa del loro popolo. Qui lo raggiungono emissari degli
Arverni che promettono obbedienza, ordina la consegna di un gran
numero di ostaggi. Invia le legioni ai campi invernali.
Restituisce agli Edui e agli Arverni circa ventimila prigionieri.
Ordina a T. Labieno di recarsi nella regione dei Sequani con due
legioni e la cavalleria e pone ai suoi ordini M. Sempronio Rutilo.
Alloggia il legato C. Fabio e L. Minucio Basilo con due legioni
nei territori dei Remi, per proteggere quest'ultimi da eventuali
attacchi dei Bellovaci. Manda C. Antistio Regino tra gli
Ambivareti, T. Sestio presso i Biturigi, C. Caninio Rebilo tra i
Ruteni, ciascuno alla testa di una legione. Pone Q. Tullio
Cicerone e P. Sulpicio a Cavillono e Matiscone, lungo la Saona,
nelle terre degli Edui, incaricandoli di provvedere ai
rifornimenti di grano. Dal canto suo, decide di svernare a
Bibracte. Quando a Roma si ha notizia dell'accaduto da una
lettera di Cesare, gli vengono tributati venti giorni di feste
solenni di ringraziamento.
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