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Cesare
De Bello Gallico
libro VIII, cap 1-25
Costretto dalle tue assidue esortazioni, Balbo, visto che il mio quotidiano rifiuto non sembrava ammettere la scusa della difficoltà, ma incontrava il biasimo dell'inerzia, ho assunto un compito davvero difficile: i commentari del nostro Cesare sulle sue imprese in Gallia, li ho integrati con le vicende che non comparivano e li ho collegati ai suoi scritti successivi; inoltre, l'ultima opera, da lui lasciata incompiuta, l'ho terminata a partire dalle imprese alessandrine per arrivare non dico al termine della guerra civile, di cui non vediamo ancora la fine, ma alla morte di Cesare. Vorrei che i lettori sapessero quanto malvolentieri mi sia assunto il compito di scriverli, per essere con più facilità assolto dall'accusa di stoltezza e arroganza, io che ho inserito tra gli scritti di Cesare i miei. Tutti lo sanno: non c'è opera di altri autori che sia stata composta con altrettanta cura e che non sia superata dall'eleganza di questi commentari. Furono pubblicati perché agli storici non mancasse il materiale su imprese così grandi; ma tutti ne riconobbero il valore, al punto che sembrava preclusa, e non offerta, la possibilità di narrarle. In tal senso, comunque, la nostra ammirazione supera quella degli altri: perché tutti ne vedono la bellezza e la perfezione. ma noi sappiamo anche con quale facilità e rapidità li abbia composti. Cesare, infatti, aveva sia una straordinaria disposizione ed eleganza nello scrivere, sia un'autentica capacità di illustrare i suoi disegni. Io non ho partecipato direttamente alla guerra alessandrina e africana; sebbene in parte esse mi siano note per bocca di Cesare, tuttavia un conto è udire i fatti che ci colpiscono per la loro singolarità o che ci riempiono d'ammirazione, un altro è esporre gli avvenimenti per testimonianza diretta. Ma proprio mentre cerco ogni motivo di scusa per non essere accostato a Cesare, mi espongo all'accusa di arroganza, per aver pensato che qualcuno possa paragonarmi a lui. Stammi bene.
1
Piegata tutta la Gallia, Cesare, che dall'estate precedente non
aveva mai cessato di combattere, voleva concedere un po' di
riposo ai soldati negli accampamenti invernali, dopo tante
fatiche. Giungeva, però, notizia che diversi popoli
contemporaneamente rinnovavano i piani di guerra e stringevano
alleanze. Motivo di tali iniziative, verosimilmente, era che
tutti i Galli ben sapevano che nessun esercito concentrato in un
solo luogo poteva resistere ai Romani e che, se parecchie genti,
nello stesso istante, li avessero attaccati su diversi fronti, l'esercito
del popolo romano non avrebbe avuto appoggi, tempo, truppe
sufficienti per fronteggiare tutti. E nessun popolo doveva
sottrarsi al destino d'un rovescio, se, impegnando i Romani,
avesse permesso agli altri di riacquistare la libertà.
2
Per evitare che le aspettative dei Galli trovassero conferme,
Cesare affida al questore M. Antonio il comando dei suoi
quartieri d'inverno; la vigilia delle calende di gennaio, con una
scorta di cavalieri parte da Bibracte verso la tredicesima
legione, da lui stanziata nei territori dei Biturigi, non lontano
dagli Edui. Alla tredicesima unisce l'undicesima legione, la più
vicina. Lasciate due coorti a guardia delle salmerie, guida il
resto dell'esercito nelle fertilissime campagne dei Biturigi.
Quest'ultimi avevano vasti territori e molte città, per cui la
presenza di una sola legione nei campi invernali non era valsa a
impedire i preparativi di guerra e i patti di alleanza.
3
Al repentino arrivo di Cesare accadde l'inevitabile per gente
colta alla sprovvista e sparpagliata: mentre i nemici, senza
timore alcuno, attendevano ai lavori nei campi, vennero
sopraffatti dalla cavalleria prima di potersi rifugiare nelle
città. Infatti, per ordine di Cesare, era stato eliminato anche
l'indizio più comune di un'incursione nemica, ovvero il fuoco
appiccato agli edifici, sia perché in caso di ulteriore avanzata
non venissero a mancare foraggio e grano, sia perché i nemici
non fossero messi in allarme dagli incendi stessi. Dopo la
cattura di molte migliaia di uomini, chi tra i Biturigi, in preda
alla paura, era riuscito a sfuggire al primo attacco dei Romani,
era riparato presso i popoli vicini, fidando o in vincoli
personali d'ospitalità oppure nell'alleanza comune. Invano: a
marce forzate Cesare accorre dappertutto e non lascia a nessun
popolo il tempo di pensare alla salvezza altrui più che alla
propria. Con la rapidità della sua azione teneva a freno gli
alleati fedeli, con il terrore costringeva alla pace i titubanti.
Di fronte a tale situazione, i Biturigi, vedendo che la clemenza
di Cesare lasciava spazio per un ritorno all'alleanza con lui e
che i popoli limitrofi non avevano subito pena alcuna, ma dietro
la consegna di ostaggi erano stati accolti sotto la sua
protezione, ne seguirono l'esempio.
4
Ai soldati, che avevano senza sosta condotto le operazioni con
straordinario impegno anche nelle giornate invernali, lungo
strade davvero disagevoli e con un freddo insopportabile, come
premio a titolo di bottino Cesare promette, per le tante fatiche
e sopportazioni, duecento sesterzi a testa, e ai centurioni mille.
Invia le legioni ai quartieri d'inverno e ritorna a Bibracte dopo
quaranta giorni. Mentre vi amministrava la giustizia, i Biturigi
gli inviano emissari per chiedergli aiuto contro i Carnuti,
lamentando attacchi da parte loro. Appena ne è informato, dopo
aver sostato nei campi invernali non più di diciotto giorni,
richiama la diciottesima e la sesta legione dagli accampamenti
sulla Saona, dove erano state dislocate per occuparsi del
vettovagliamento, come si è detto nel libro precedente. Così,
con due legioni parte all'inseguimento dei Carnuti.
5
Quando la notizia di truppe in movimento giunse ai nemici, i
Carnuti, edotti dalle sciagure altrui, abbandonano i villaggi e
le città in cui abitavano dopo aver frettolosamente allestito
piccole costruzioni per ripararsi dall'inverno (infatti, in
seguito alla recente sconfitta avevano perduto parecchie città)
e fuggono sbandati. Cesare non voleva che i soldati affrontassero
i rigori della stagione, tremendi proprio in quel periodo: pone
il campo in una città dei Carnuti, Cenabo, ammassa parte dei
soldati nelle case dei Galli, parte in ripari approntati gettando
alla svelta paglia sulle tende. Comunque, manda i cavalieri e i
fanti ausiliari in tutte le direzioni in cui si diceva che si
fossero mossi i nemici. E non invano: i nostri, infatti,
rientrano per lo più con un ricco bottino. I Carnuti si
trovarono stretti dalle difficoltà dell'inverno e atterriti dal
pericolo; cacciati dalle loro case, non osavano fermarsi
stabilmente in nessun luogo, né potevano sfruttare il riparo
delle selve per l'inclemenza della stagione. Divisi, perdono gran
parte dei loro e si sparpagliano presso le popolazioni vicine.
6
Cesare, in una stagione davvero ostile, al fine di prevenire l'inizio
di una guerra riteneva di aver fatto a sufficienza per disperdere
le forze nemiche che si stavano concentrando ed era convinto, per
quanto si poteva ragionevolmente supporre, che nessun grave
conflitto potesse scoppiare fino all'estate. Allora, alloggiò a
Cenabo, nei quartieri d'inverno, C. Trebonio alla testa delle due
legioni che aveva con sé. I Remi, con frequenti ambascerie, lo
informavano che i Bellovaci, superiori a tutti i Galli e ai Belgi
quanto a gloria militare, e i popoli limitrofi, sotto la guida
del bellovaco Correo e dell'atrebate Commio, allestivano truppe e
le radunavano in un solo luogo, per attaccare in massa le terre
dei Suessioni, vassalli dei Remi. Che alleati benemeriti verso la
nostra repubblica non patissero alcun torto, Cesare la ritenne
questione riguardante non solo la sua dignità, ma anche la sua
sicurezza. Perciò, richiama nuovamente dal campo invernale l'undicesima
legione, poi invia una lettera a C. Fabio, perché guidi nei
territori dei Suessioni le due legioni che aveva ai suoi ordini;
a Labieno richiede una delle due legioni di cui disponeva. Così,
conciliando le necessità dei campi invernali e le esigenze del
conflitto, alle legioni imponeva a turno l'onere delle spedizioni,
ma non concedeva mai riposo a se stesso.
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Riunite queste truppe, punta sui Bellovaci, stabilisce il campo
nei loro territori e manda dappertutto squadroni di cavalleria
per catturare prigionieri, che lo avrebbero messo al corrente dei
piani nemici. I cavalieri, eseguito l'ordine, riferiscono di aver
trovato solo pochi nemici in case isolate, ma non si trattava di
gente rimasta a coltivare i campi (tutte le zone, infatti, erano
state scrupolosamente evacuate), bensì di osservatori rispediti
a sorvegliare le nostre mosse. Avendo chiesto ai prigionieri dove
si trovava il grosso dei Bellovaci e quali ne fossero i disegni,
Cesare ricevette le seguenti indicazioni: tutti i Bellovaci in
grado di portare armi si erano radunati in un solo luogo, come
pure gli Ambiani, gli Aulerci, i Caleti, i Veliocassi, gli
Atrebati; avevano scelto per l'accampamento una località in alto,
in una selva circondata da una palude e avevano ammassato tutti i
bagagli nei boschi alle spalle. Parecchi erano i capi, fautori
della guerra, ma la massa obbediva in particolare a Correo, in
quanto era noto il suo odio mortale per il nome del popolo romano.
Pochi giorni prima, l'atrebate Commio si era allontanato dal
campo in cerca di rinforzi presso i Germani, che erano vicini e
di numero sterminato. Poi, i Bellovaci, col consenso di tutti i
capi, tra l'entusiasmo generale, avevano deciso di esporsi a un
combattimento, se davvero Cesare fosse giunto con tre legioni,
come si diceva; in tal modo, non sarebbero stati costretti, in
seguito, a lottare contro tutto l'esercito in condizioni più
difficili e ardue; se, invece, Cesare avesse condotto truppe più
numerose, si sarebbero attestati nella posizione che avevano
scelto e avrebbero impedito ai Romani, mediante imboscate, la
raccolta di foraggio (che non solo scarseggiava, ma era anche
disperso qua e là per via della stagione), nonché di grano e di
altri viveri.
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Quando da diverse e concordi fonti conobbe il piano nemico e
giudicò molto accorti i propositi che gli venivano illustrati e
ben lontani dalla solita avventatezza dei barbari, decise di
sfruttare ogni mezzo per indurre gli avversari a scendere in
campo al più presto, per disprezzo dell'esiguità dei suoi
effettivi. Aveva con sé, infatti, le legioni più anziane, la
settima, l'ottava, la nona, straordinarie per valore, nonché una
legione di belle speranze, composta da giovani scelti, l'undicesima,
che già da otto anni riceveva la paga, ma, in confronto alle
altre, non si era ancora guadagnata la stessa fama di provato
valore. Così, convocato il consiglio di guerra, espone tutte le
notizie che gli erano state riferite e rafforza il coraggio delle
truppe. Per attirare i nemici a battaglia, illudendoli di avere
di fronte tre legioni, fissa l'ordine di marcia come segue: la
settima, l'ottava e la nona legione dovevano procedere in testa,
seguite dalla colonna delle salmerie, poco numerose ovviamente,
come succede di solito nelle spedizioni; l'undicesima doveva
costituire la coda, per non mostrare ai nemici una consistenza
numerica superiore a quanto essi sperassero. Con tale
schieramento, formando in pratica il quadrato, arriva con i suoi
in vista dei nemici più presto di quanto essi pensassero.
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Non appena vedono all'improvviso le nostre legioni, schierate a
battaglia, avanzare con passo deciso, i Galli, benché i loro
propositi, secondo le informazioni avute da Cesare, fossero molto
baldanzosi, schierano le truppe dinnanzi al campo e non scendono
dalle alture, forse per evitare i rischi dello scontro o per la
sorpresa del nostro arrivo repentino oppure in attesa delle
nostre mosse. Cesare, anche se prima desiderava il combattimento,
colpito adesso dalla massa degli avversari, da cui ci separava
una valle più profonda che larga, piazza il campo davanti a
quello nemico. Ordina di fortificarlo con un vallo di dodici
piedi e di aggiungervi un piccolo parapetto di altezza
proporzionata; fa scavare una coppia di fosse di quindici piedi a
pareti verticali, erigere parecchie torri a tre piani, raccordate
mediante ponti, coperti e protetti verso l'esterno da un
parapetto di graticcio. Così, la difesa era assicurata da una
coppia di fosse e da un duplice ordine di combattenti: il primo
ordine, dai ponti, più sicuro per via dell'altezza, poteva
scagliare le frecce con maggior audacia e più lontano; l'altro,
situato più vicino al nemico, proprio sul vallo, grazie ai ponti
stessi era protetto dalla pioggia di dardi. Dota di battenti le
porte e le affianca con torri più alte.
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Lo scopo di tale fortificazione era duplice. Sperava, appunto,
che la mole dei lavori e la sua simulata paura infondessero
fiducia ai barbari; inoltre, vedeva che, grazie appunto alle
opere di fortificazione, era possibile difendere il campo anche
con pochi uomini, quando occorreva allontanarsi troppo in cerca
di foraggio e di grano. Frattanto, piccoli gruppi dei due
eserciti davano luogo a frequenti scaramucce tra gli accampamenti,
che pure erano separati da una palude. Talvolta, comunque, o le
nostre truppe ausiliarie, Galli e Germani, attraversavano la
palude e incalzavano con maggior vigore i nemici, o erano i
barbari, a loro volta, a superarla e a ricacciare i nostri,
costringendoli al ripiegamento. Poi, durante le quotidiane
spedizioni in cerca di foraggio, accadeva l'inevitabile, dato che
la ricerca avveniva per casolari sparsi e isolati: i nostri
soldati, disuniti, venivano circondati in zone difficilmente
praticabili. Il che ci procurava solo la perdita di pochi animali
e servi, ma alimentava gli stolti pensieri dei barbari, tanto più
che Commio, partito per chiedere aiuti ai Germani, come ho già
detto, era rientrato con un contingente di cavalieri. Non erano
più di cinquecento, tuttavia l'arrivo dei Germani esaltò i
barbari.
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Cesare, constatato che ormai da parecchi giorni il nemico si
teneva nell'accampamento, difeso dalla palude e dalla
conformazione naturale della zona, si era anche reso conto che
non poteva né espugnare il loro campo senza un combattimento
rovinoso, né circondarlo con opere d'assedio, a meno dell'impiego
di truppe più ingenti. Allora invia una lettera a Trebonio,
ordinandogli di richiamare quanto prima la tredicesima legione (che
svernava nelle terre dei Biturigi con il legato T. Sestio) e di
raggiungerlo con le tre legioni a marce forzate. Intanto, ai
cavalieri dei Remi, dei Lingoni e degli altri popoli, che aveva
richiesto in gran numero, dà l'incombenza di scortare a turno i
nostri in cerca di foraggio, per proteggerli da improvvisi
attacchi dei nemici.
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La cosa accadeva ogni giorno, e ormai le precauzioni diminuivano
per via dell'abitudine, come spesso accade quando si ripetono le
stesse azioni. I Bellovaci, una volta conosciuti i punti dove
stazionavano quotidianamente i nostri cavalieri, con un gruppo
scelto di fanti preparano un agguato in una zona ricca di
vegetazione. Lì inviano, il giorno seguente, dei cavalieri, che
dovevano attirare i nostri nel bosco, dove poi i fanti appostati
li avrebbero circondati e assaliti. La mala sorte capitò ai Remi,
a cui quel giorno era toccato il servizio di scorta. Quando all'improvviso
videro i cavalieri nemici, i nostri, sentendosi superiori per
numero, disprezzarono le forze avversarie: li inseguirono con
troppa foga e vennero circondati dai fanti. Scossi dall'accaduto,
si ritirarono più rapidamente di quanto non comporti, di regola,
un combattimento di cavalleria; ma persero il principe del loro
popolo e comandante della cavalleria, Vertisco, persona ormai
anziana, a stento in grado di cavalcare, che però, com'è
costume dei Galli, non aveva accampato la scusa dell'età al
momento di rivestire il comando, né aveva voluto che si lottasse
senza di lui. Il successo nello scontro esalta e accende lo
spirito dei nemici, vista anche l'uccisione del principe e
comandante dei Remi, mentre la sconfitta insegna ai nostri a
disporre i posti di guardia dopo aver esplorato con più
attenzione i luoghi e a inseguire con maggior criterio il nemico
in fuga.
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Frattanto, non conoscono pausa le scaramucce quotidiane al
cospetto dei due accampamenti, nei pressi dei guadi e dei
passaggi della palude. In una di esse i Germani, che Cesare aveva
portato al di qua del Reno perché combattessero frammischiati ai
cavalieri, varcarono tutti la palude con molta decisione,
uccisero i pochi che tentavano la resistenza e inseguirono
piuttosto caparbiamente gli altri, seminando il panico non solo
in chi era pressato da vicino o veniva colpito da distante, ma
anche tra i rincalzi, che stazionavano più lontano, come al
solito. Fu una rotta vergognosa: scalzati, via via, dalle
posizioni dominanti, non si fermarono finché non trovarono
riparo nel loro accampamento; altri, in preda alla vergogna,
proseguirono la fuga anche oltre il campo. Il pericolo corso
sconvolse l'intero corpo nemico, al punto che si rende difficile
stabilire se i Galli siano più inclini alla boria per
insignificanti vittorie oppure pavidi di fronte a mediocri
avversità.
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Dopo aver trascorso parecchi giorni sempre nell'accampamento, i
capi dei Bellovaci, quando vennero a sapere che il legato C.
Trebonio si stava avvicinando con le legioni, nel timore di un
assedio come ad Alesia, fanno allontanare di notte le persone
inutili troppo anziane o deboli o prive di armi; con loro mandano
tutti i bagagli. Mentre dispiegavano la colonna, ancora in
scompiglio e in disordine (un gran numero di carri, infatti,
segue di solito i Galli anche negli spostamenti brevi), vengono
sorpresi dal sorgere del sole. Allora schierano le truppe
dinnanzi al loro campo, per impedire ai Romani l'inizio dell'inseguimento
prima che la colonna dei bagagli si fosse allontanata abbastanza.
Cesare, visto il pendio così erto, non giudicò opportuno
attaccare i nemici pronti alla difesa e decise invece di far
avanzare le legioni di quel tanto, che impedisse ai barbari di
muoversi dalla loro posizione senza rischi, data la minaccia dei
nostri. Poi notò che i due accampamenti erano sì divisi da una
palude impraticabile - un ostacolo in grado di frenare la rapidità
dell'inseguimento - ma che una catena di colli, al di là della
palude, raggiungeva quasi il campo nemico e ne era separata solo
da una piccola valle. Allora, getta ponti sulla palude, la varca
con le legioni e giunge rapidamente su una spianata in cima ai
colli, protetta su entrambi i lati da scoscesi pendii. Qui
ricompone le legioni e raggiunge l'estremità della spianata,
dove forma la linea di battaglia. Da qui, i dardi scagliati dalle
macchine da lancio potevano piovere sui nemici disposti a cuneo.
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I barbari, forti della posizione, non avrebbero rifiutato lo
scontro, se i Romani avessero tentato un attacco al colle; ma non
potevano inviare soldati in piccoli gruppi, per evitare che si
scoraggiassero, una volta sparpagliati; perciò mantennero la
stessa formazione. Cesare, di fronte alla loro pervicacia, lascia
pronto un distaccamento di venti coorti e, tracciato il campo,
ordina di fortificarlo. Terminati i lavori, schiera le legioni,
le dispone, in pieno assetto, dinnanzi al vallo e piazza di
guardia i cavalieri con i loro cavalli tenuti a briglia. I
Bellovaci, vedendo i Romani pronti all'inseguimento e non potendo
né pernottare, né rimanere più a lungo in quel luogo senza
correre pericoli, decidono la ritirata con il seguente
stratagemma: le fascine di paglia e frasche su cui sedevano (infatti,
i Galli sono soliti sedere su fascine, come ricorda Cesare nei
precedenti commentari) e che abbondavano nel loro accampamento,
se le passarono di mano in mano e le posero dinnanzi alla loro
linea. Quando il giorno volgeva al termine, contemporaneamente, a
un segnale stabilito, le incendiano. Così, un muro di fiamme,
all'improvviso, coprì ai Romani la vista di tutte le truppe
nemiche. E subito i barbari ripiegarono con grandissima rapidità.
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Cesare, anche se non aveva potuto vedere la ritirata dei nemici
per le fiamme che gli si paravano dinnanzi, sospettava comunque
che lo stratagemma servisse a una fuga. Perciò, fa avanzare le
legioni e lancia all'inseguimento gli squadroni di cavalleria.
Temendo, però, un'imboscata, nel caso che i nemici fossero
rimasti nella loro posizione e cercassero solo di attirare i
nostri in una zona svantaggiosa, procede con una certa lentezza.
I cavalieri non osavano spingersi nella densissima cortina di
fumo e di fiamme; se qualcuno vi era entrato per l'eccessivo
slancio, vedeva a stento la testa del proprio cavallo; temendo,
dunque, un agguato, lasciarono che i Bellovaci si ritirassero
senza difficoltà. Così, dopo una fuga dettata dal timore, ma al
contempo piena di astuzia, senza aver subito alcuna perdita, i
nemici procedettero per non più di dieci miglia e si attestarono
in una zona ben munita. Da lì, appostandosi di continuo con i
cavalieri e i fanti, infliggevano gravi perdite ai Romani in
cerca di foraggio.
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Mentre gli agguati si facevano sempre più frequenti, da un
prigioniero Cesare venne a sapere che Correo, il capo dei
Bellovaci, aveva scelto seimila fanti tra i più forti e mille
cavalieri tra il numero totale, per tendere una trappola nella
zona in cui presumeva che si sarebbero spinti i Romani, vista l'abbondanza
di grano e foraggio. Avvertito del piano, Cesare guida fuori dal
campo più legioni del solito e manda in avanti la cavalleria,
che, come di consueto, scortava i soldati in cerca di foraggio.
Inserisce tra i cavalieri gruppi di ausiliari armati alla leggera.
Dal canto suo, si avvicina il più possibile con le legioni.
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I nemici, in agguato, dopo aver scelto una pianura non più ampia
di un miglio in tutte le direzioni, circondata su ogni lato da
selve o da un fiume inguadabile, si erano disposti tutt'attorno,
per accalappiare la preda. I nostri, al corrente delle intenzioni
nemiche, erano pronti alla lotta sia con le armi, sia nell'animo,
e visto l'arrivo imminente delle legioni, non avrebbero
rinunciato a nessun tipo di scontro: sul luogo dell'imboscata
giunsero squadrone per squadrone. Al loro arrivo, Correo pensò
che gli si offrisse l'occasione di agire: cominciò a mostrarsi
con pochi uomini e attaccò i primi squadroni. I nostri resistono
saldamente all'assalto, non si ammassano in un sol luogo, cosa
che, quando si verifica negli scontri di cavalleria per un senso
di paura, determina un grave danno proprio per il numero dei
soldati.
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I nostri, divisi in squadroni, si impegnavano a turno e in ordine
sparso, senza permettere che il nemico aggirasse dai fianchi la
fanteria. Ed ecco che, mentre Correo combatteva, altri rincalzi
erompono dalle selve. Si scatenano accese mischie qua e là.
Mentre la lotta si protraeva incerta, a poco a poco dalle selve
avanza a ranghi serrati il grosso della fanteria nemica, che
costringe alla ritirata i nostri cavalieri. In loro soccorso
interviene rapidamente la nostra fanteria leggera, che precedeva
le legioni, come avevo già detto: mescolati ai nostri squadroni
di cavalleria affrontano con fermezza gli avversari. Per un certo
tratto ci si batte con pari ardore; poi, conforme a una legge dei
fatti d'arme, chi aveva resistito ai primi assalti dell'imboscata,
ha la meglio, proprio perché non aveva patito lo svantaggio
della sorpresa. Nel frattempo, le legioni si avvicinano e
pervengono, di continuo, ai nostri e ai nemici notizie sull'arrivo
del comandante con l'esercito in assetto di guerra. Di
conseguenza, i nostri, rassicurati dal sostegno delle coorti,
moltiplicano gli sforzi per non dover dividere l'onore del
successo con le legioni, nel caso in cui la battaglia fosse
andata troppo per le lunghe. I nemici si perdono d'animo e
cercano da ogni parte vie di salvezza. Invano: vengono
intrappolati dalle difficoltà dei luoghi, in cui avevano voluto
rinserrare i Romani. Vinti e travolti, dopo aver perso il grosso
delle truppe, scappano in preda al terrore, dirigendosi verso le
selve o verso il fiume, ma tutti i fuggiaschi vengono massacrati
dai nostri che li inseguivano con accanimento. Al contempo
nessuna traversia piegò Correo: né si risolse a lasciare la
mischia e a cercar riparo nelle selve, né acconsentì alla resa,
che pure i nostri gli offrivano. Anzi, poiché combatté con
estremo valore e ferì parecchi dei nostri, i vincitori, pieni d'ira,
furono costretti a bersagliarlo di frecce.
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Conclusasi così l'operazione, Cesare sopraggiunse mentre erano
ancora freschi i segni della battaglia e pensò che i nemici,
alla notizia di una tale disfatta, avrebbero spostato il campo,
non distante - a quanto si diceva - oltre le otto miglia, più o
meno, dal luogo della strage; perciò, nonostante il serio
ostacolo rappresentato dal fiume, lo varca con l'esercito e
avanza. I Bellovaci e gli altri popoli, intanto, accolgono i
fuggiaschi, pochi e per di più feriti, che avevano evitato il
peggio grazie alle boscaglie: apprendono che era stata una
catastrofe, Correo era morto, la cavalleria e i fanti più
valorosi annientati. Convinti che i Romani sarebbero ben presto
sopraggiunti, al suono delle trombe radunano rapidamente l'assemblea
e chiedono a gran voce di inviare a Cesare emissari e ostaggi.
21
Poiché tutti approvano la proposta, l'atrebate Commio ripara
presso le genti germaniche da cui aveva ricevuto rinforzi per la
guerra in corso. Gli altri inviano lì per lì un'ambasceria a
Cesare e gli chiedono di accontentarsi, come punizione, dei danni
che avevano subito: non l'avrebbe certo mai riservata, nella sua
clemenza e umanità, neppure a nemici nel pieno delle forze e ai
quali la potesse infliggere senza colpo ferire; le forze di
cavalleria dei Bellovaci erano state distrutte; avevano perduto
la vita molte migliaia di fanti scelti, a stento si erano salvati
i pochi che avevano dato la notizia della strage. Comunque, pur
di fronte a una disfatta così grave, dalla battaglia i Bellovaci
un vantaggio lo avevano conseguito: Correo, il fautore della
guerra, l'agitatore della folla, era morto. Finché lui era in
vita, infatti, il senato non aveva mai avuto tanto potere, quanto
la plebe ignorante.
22
Agli emissari che così lo pregavano, Cesare ricorda che nello
stesso periodo, l'anno precedente, i Bellovaci e gli altri popoli
della Gallia avevano intrapreso la guerra; ma proprio loro, più
di tutti, erano rimasti ostinatamente attaccati alla decisione, né
la resa degli altri li aveva ricondotti alla ragione. Sapeva e
capiva che era assai facile attribuire ai morti la colpa dell'accaduto.
Nessuno, però, è così potente da poter provocare e sostenere
guerre con il solo, fragile appoggio della plebe, se incontra l'ostilità
dei nobili, la resistenza del senato e l'opposizione della gente
onesta. Si sarebbe accontentato, tuttavia, della pena che si
erano attirati da soli.
23
La notte successiva, gli emissari riferiscono ai loro la risposta
di Cesare e si radunano gli ostaggi. Si precipitano da Cesare le
legazioni degli altri popoli, che stavano a vedere cosa sarebbe
successo ai Bellovaci. Consegnano ostaggi, obbediscono agli
ordini, tutti eccetto Commio: la paura gli impediva di mettere la
propria vita nelle mani di chicchessia. L'anno precedente,
infatti, mentre Cesare si trovava nella Gallia cisalpina per
amministrare la giustizia, T. Labieno, avendo saputo che Commio
sobillava i popoli e promuoveva una coalizione contro Cesare,
pensò che si potesse soffocare il tradimento del Gallo senza
venir tacciato di slealtà. Ritenne che Commio non avrebbe
risposto a una convocazione all'accampamento; allora, per non
renderlo più cauto con un tentativo del genere, inviò C.
Voluseno Quadrato dietro pretesto di un colloquio, ma col solo
scopo di eliminarIo. Mise a sua disposizione centurioni scelti,
adatti al compito. Quando l'abboccamento ebbe luogo e Voluseno,
come erano d'accordo, afferrò la mano di Commio, il centurione,
o perché turbato dal compito insolito o per il pronto intervento
del seguito del Gallo, non riuscì a ucciderlo; tuttavia, con il
primo colpo lo ferì gravemente al capo. Le due parti sguainarono
le spade, non tanto con l'intenzione di affrontarsi, quanto di
fuggire: i nostri credevano che la ferita di Commio fosse mortale,
i Galli avevano capito che si trattava di una trappola e temevano
che le insidie non si limitassero a quanto avevano visto. Da
allora, così almeno si diceva, Commio aveva deciso di non
presentarsi mai più al cospetto di un Romano.
24
Dopo aver assoggettato le genti più bellicose, Cesare vide che
ormai più nessun popolo preparava la guerra per resistergli e
che, anzi, molti lasciavano le città e fuggivano dalle campagne
per non sottostare al dominio in atto. Decide, perciò, di
inviare l'esercito in diverse zone del paese. Unisce a sé il
questore M. Antonio con la dodicesima legione. Con venticinque
coorti manda il legato C. Fabio al capo opposto della Gallia,
perché gli giungeva notizia che là alcuni popoli erano in armi
e stimava insufficiente il presidio delle due legioni agli ordini
del legato C. Caninio Rebilo, che si trovava nella zona. Richiama
T. Labieno; la quindicesima legione, che aveva svernato con
Labieno, la spedisce nella Gallia togata, a difesa delle colonie
dei cittadini romani; lo scopo era di evitare guai - dovuti alle
scorrerie dei barbari - simili a quelli capitati l'estate
precedente ai Tergestini, che erano stati sorpresi da un attacco
improvviso e avevano visto saccheggiate le loro terre. Dal canto
suo, punta verso la regione di Ambiorige per devastarla e far
razzie; disperando di ridurre in suo potere l'uomo - Ambiorige,
atterrito, continuava a fuggire - stimava come cosa più
confacente alla propria dignità devastarne i territori, con
popolazione, case, bestiame: Ambiorige, odiato dai suoi, se la
sorte ne avesse risparmiato qualcuno, non avrebbe potuto
ritornare nella sua città, dopo le tante sciagure che aveva
provocato.
25
Dopo aver inviato in ogni angolo del paese di Ambiorige legioni o
truppe ausiliarie e aver seminato la desolazione con stragi,
incendi, rapine, dopo aver ucciso o catturato un gran numero di
uomini, Cesare spedisce Labieno con due legioni nelle terre dei
Treveri. I Treveri, per la vicinanza con i Germani, erano
abituati a far guerra tutti i giorni; per il loro grado di civiltà
e la loro natura selvaggia non erano molto diversi dai Germani
stessi e non ubbidivano mai agli ordini, se non costretti da un
esercito.
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