torna alla homepage + torna a copia, copiabbus + torna all'indice di latino
Cesare
De Bello Gallico
libro VIII, cap 26-55
26
Nel frattempo, grazie a una lettera e ai messi inviati da Durazio
- rimasto sempre fedele all'alleanza con i Romani, mentre una
parte del suo popolo aveva defezionato - il legato C. Caninio,
avvertito che un gran numero di nemici si era raccolto nelle
terre dei Pictoni, si dirige alla città di Lemono. Era sul punto
di raggiungerla, quando riceve dai prigionieri informazioni più
dettagliate: alla testa di molte migliaia di uomini Dumnaco, capo
degli Andi, aveva stretto d'assedio Durazio in Lemono. Così, non
osando arrischiare in uno scontro coi nemici le sue legioni,
troppo deboli, stabilì il campo in una zona ben munita. Dumnaco,
saputo dell'arrivo di Caninio, volge tutte le truppe contro le
legioni e comincia l'assalto all'accampamento dei Romani. Dopo
aver speso diversi giorni nell'attacco, a prezzo di gravi perdite
e senza riuscire a far breccia in nessun punto delle
fortificazioni, Dumnaco torna ad assediare Lemono.
27
Nello stesso tempo il legato C. Fabio accetta la resa di parecchi
popoli, la sancisce mediante ostaggi e viene avvisato di ciò che
stava accadendo tra i Pictoni da una lettera di Caninio. A tale
notizia, muove in soccorso di Durazio. Appena lo informano dell'arrivo
di Fabio, Dumnaco dispera ormai della salvezza, perché avrebbe
dovuto, a un tempo, affrontare sia i Romani, sia i rinforzi
esterni, nonché sorvegliare e temere gli abitanti di Lemono. Con
rapidità, dunque, ripiega con tutte le truppe e pensa di non
poter essere abbastanza al sicuro, se non dopo aver condotto l'esercito
oltre la Loira, un fiume che, per la sua imponenza, poteva essere
varcato solo su ponte. Fabio, anche se non aveva ancora avvistato
i nemici, né si era ricongiunto a Caninio, avvalendosi delle
informazioni di chi conosceva la natura della zona, ritenne assai
probabile che i nemici, atterriti, si sarebbero diretti là, dove
effettivamente si stavano dirigendo. Così, con le sue truppe
muove verso lo stesso ponte e ordina alla cavalleria di precedere
l'esercito, ma a una distanza di marcia tale, che le consentisse
il rientro nell'accampamento comune senza affaticare i cavalli. I
nostri cavalieri, secondo gli ordini, partono all'inseguimento e
si rovesciano sulla schiera di Dumnaco: avendo aggredito i nemici,
già in fuga e atterriti, mentre erano ancora carichi di bagagli
e in marcia, ne uccidono molti, si impadroniscono di un ricco
bottino. Eseguita con successo la missione, rientrano al campo.
28
La notte successiva Fabio manda in avanscoperta i cavalieri,
pronti allo scontro e a ritardare la marcia di tutto l'esercito
nemico fino all'arrivo di Fabio stesso. Perché le cose
procedessero secondo gli ordini, Q. Azio Varo, prefetto della
cavalleria, uomo di straordinario coraggio e senno, sprona i suoi
e, dopo aver inseguito le schiere nemiche, dispone una parte
degli squadroni in zone favorevoli, mentre con il resto attacca
battaglia. La cavalleria nemica si batte con particolare audacia,
perché a essa subentravano i fanti, che, piazzatisi lungo tutta
la colonna, recavano aiuto ai propri cavalieri contro i nostri.
Si accende un'aspra battaglia. I nostri, infatti, disprezzavano i
nemici già sconfitti il giorno precedente e, ben sapendo che le
legioni erano in arrivo, combattevano contro i fanti con
straordinario ardore, sia per la vergogna di un'eventuale
ritirata, sia per il desiderio di risolvere da soli la battaglia;
i nemici, dal canto loro, in base all'esperienza del giorno
precedente, credevano che non sarebbero giunte altre truppe
romane e pensavano di avere trovato l'occasione per annientare la
nostra cavalleria.
29
La battaglia proseguiva già da un pezzo, violentissima. Dumnaco
schiera in formazione i fanti, in modo che loro e i cavalieri
potessero darsi reciproco aiuto. Ma ecco apparire, all'improvviso,
le legioni a ranghi serrati. A tale vista gli squadroni nemici
sono colti da terrore, si diffonde il panico tra i fanti, lo
scompiglio regna tra le salmerie: con alti clamori corrono qua e
là, si danno a una fuga disordinata. Allora i nostri cavalieri,
che poco prima si erano battuti con estremo valore contro la
resistenza degli avversari, trascinati dalla gioia per la
vittoria, levano alte grida da ogni parte e circondano i nemici
in rotta: finché i cavalli hanno la forza di inseguire e le
destre di tirar fendenti, seminano morte. Così, dopo aver ucciso
più di dodicimila nemici, che fossero in armi oppure che le
avessero gettate per il panico, catturano tutta la colonna delle
salmerie.
30
Si viene a sapere che, dopo la fuga, il senone Drappete aveva
raccolto non più di duemila fuggiaschi e puntava contro la
provincia (costui, all'inizio dell'insurrezione in Gallia, aveva
raccattato dovunque dei furfanti, spinto gli schiavi alla libertà,
chiamato a sé gli esuli di tutte le genti, riuscendo poi, con
razzie improvvise, a intercettare le salmerie e i rifornimenti
dei Romani). Con lui aveva preso l'iniziativa il cadurco Lucterio,
che all'inizio della defezione della Gallia aveva deciso di
attaccare la provincia, come sappiamo dal precedente commentario.
Il legato Caninio, alla testa di due legioni, parte al loro
inseguimento, per evitare che, per via dei danni o dei timori
nutriti dalla provincia, su di noi ricadesse grave onta per le
scorrerie di un gruppo di criminali.
31
C. Fabio, con il resto delle truppe, si dirige verso i Carnuti e
gli altri popoli, perché sapeva che le loro truppe avevano
registrato gravi perdite nella battaglia da lui combattuta contro
Dumnaco. Non dubitava che dopo la recente disfatta avrebbero
abbassato la testa; ma passato un certo periodo di tempo,
avrebbero anche potuto riprendere la rivolta per istigazione
dello stesso Dumnaco. Nella circostanza C. Fabio agisce con la più
felice e rapida prontezza nel sottomettere i vari popoli. I
Carnuti, che nonostante i ripetuti rovesci non avevano mai
chiesto pace, adesso gli consegnano ostaggi e si arrendono; le
altre genti, stanziate nelle regioni più lontane della Gallia,
che si affacciano sull'Oceano e si chiamano aremoriche, indotte
dal prestigio dei Carnuti, obbediscono agli ordini senza
frapporre indugi, appena arriva C. Fabio con le legioni. Dumnaco,
cacciato dalle sue terre, è costretto a vagare, solo e nascosto,
e a dirigersi verso le regioni estreme della Gallia.
32
Ma Drappete e Lucterio, appreso l'arrivo di Caninio e delle
legioni, convinti di non poter entrare in provincia senza andar
incontro a una sicura disfatta - tanto più che li inseguiva l'esercito
romano - e di non aver più la libera possibilità di spostarsi e
di compiere razzie, si fermano nei territori dei Cadurci. Un
tempo, quando le cose erano tranquille, Lucterio aveva presso i
suoi concittadini grande potere e anche adesso, instancabile
fautore di piani di rivolta, godeva tra i barbari di grande
autorità. Perciò, con i soldati suoi e di Drappete, occupa la
città di Uxelloduno, molto ben protetta per posizione e che era
già stata in passato sotto la sua tutela, e guadagna alla sua
causa gli abitanti.
33
C. Caninio giunge lì in tutta fretta e si accorge che la città,
su tutti i lati, era difesa da rocce a picco, di modo che, pur in
assenza di difensori, la scalata risultava comunque difficile per
degli armati. D'altro canto, vede la quantità di salmerie degli
assediati: se i barbari avessero cercato di portarle via di
nascosto, non avrebbero potuto sfuggire non dico alla cavalleria,
ma neppure alle legioni. Allora divide in tre gruppi le coorti e
pone tre distinti campi in un luogo molto elevato. Da qui, a poco
a poco, per quanto permetteva il numero delle sue truppe, cominciò
a circondare la città con un vallo.
34
Appena se ne accorgono, gli assediati, inquieti per il
tristissimo ricordo di Alesia, temono l'eventualità di un blocco
simile. Tra tutti Lucterio in particolare, che quel pericolo lo
aveva corso, invita a preoccuparsi del grano. Decidono, per
consenso generale, di lasciare lì parte dell'esercito e di
recarsi personalmente in cerca di frumento con truppe leggere.
Approvata la decisione, la notte successiva Drappete e Lucterio
lasciano duemila armati in città e si allontanano con i
rimanenti. Si trattengono pochi giorni e raccolgono una gran
quantità di grano nelle terre dei Cadurci, che in parte
desideravano aiutarli nell'approvvigionamento, in parte non
potevano impedirne la raccolta. Di tanto in tanto, poi, attaccano
le nostre ridotte con assalti notturni. Per tale motivo, Caninio
rallenta i lavori di fortificazione tutt'intorno alla città, nel
timore di non poterli difendere, una volta terminati, oppure di
essere costretto a dislocare in più settori guarnigioni troppo
deboli.
35
Dopo essersi procurati grandi scorte di grano, Drappete e
Lucterio si attestano a non più di dieci miglia dalla città,
nell'intento di portare da qui, a poco a poco, il grano entro le
mura. Si dividono le incombenze: Drappete con parte delle truppe
rimane al campo per difenderlo, Lucterio guida verso la città le
bestie da soma. Dispone dei presidi e, verso l'ora decima della
notte, comincia a introdurre il grano in città per anguste
strade tra i boschi. Ma i rumori della colonna in movimento erano
stati uditi dalle sentinelle del nostro campo: quando gli uomini
mandati in esplorazione riferiscono cosa stava accadendo, dalle
ridotte più vicine Caninio esce rapidamente con le coorti già
pronte e, sul fare dell'alba, attacca i nemici occupati nel
trasporto del grano. I Galli, sconvolti dall'attacco improvviso,
fuggono verso i loro posti di difesa; non appena i nostri videro
i nemici armati, con furia ancora maggiore si lanciarono su di
essi e non ne fecero prigioniero nessuno. Da qui Lucterio cerca
scampo con pochi dei suoi, senza neppure rientrare al campo.
36
Condotta a termine con successo l'operazione, Caninio apprende
dai prigionieri che parte delle truppe, con Drappete, era rimasta
nell'accampamento a non più di dodici miglia. La cosa gli viene
confermata da diverse fonti ed egli si rende conto che, dopo la
rotta di uno dei due capi, poteva con facilità schiacciare gli
altri nemici atterriti, ma riteneva ben difficile l'eventualità
per lui più fortunata, ossia che qualche superstite fosse
rientrato all'accampamento nemico, portando a Drappete la notizia
della disfatta subita. Fare un tentativo, comunque, gli sembrava
che non comportasse alcun rischio: manda in avanti, verso il
campo nemico, la cavalleria al completo e i fanti germanici,
uomini straordinariamente veloci; dal canto suo, sistema una
legione nei tre diversi accampamenti, l'altra la porta con sé
senza bagagli. Quando è ormai vicino al nemico, gli esploratori,
mandati in avanscoperta, lo avvisano che i barbari, secondo la
loro consuetudine, avevano lasciato le alture e posto il campo
lungo le rive del fiume; inoltre, i Germani e i cavalieri erano
piombati all'improvviso sui nemici che non se l'aspettavano e
avevano attaccato battaglia. Appena lo sa, avanza con la legione
in armi e schierata. Così, al segnale, da tutte le parti
repentinamente i nostri occupano le alture. Subito i Germani e i
cavalieri, avendo visto le insegne della legione, combattono con
estremo ardore. Le coorti si lanciano immediatamente all'attacco
da ogni lato: tutti i nemici vengono uccisi o catturati, i nostri
si impadroniscono di un grande bottino. Nella battaglia cade
prigioniero lo stesso Drappete.
37
Caninio, dopo aver compiuto con grande successo la missione,
quasi senz'alcun ferito, ritorna ad assediare la città. Adesso
che aveva annientato il nemico esterno, per timore del quale
prima non aveva potuto dividere i presidi e stringere d'assedio
gli abitanti con un'opera di fortificazione, ordina di procedere
ai lavori su tutta la linea. Il giorno seguente giunge C. Fabio
con tutte le truppe e assume il comando delle operazioni d'assedio
per un settore della città.
38
Cesare, frattanto, lascia il questore M. Antonio tra i Bellovaci
con quindici coorti, per togliere ai Belgi la possibilità di
scatenare altre rivolte. Dal canto suo, visita gli altri popoli,
impone nuovi ostaggi, tranquillizza e rassicura la gente tutta in
preda alla paura. Poi, giunge nelle terre dei Carnuti, dove era
scoppiata l'insurrezione, come Cesare ha esposto nel precedente
commentario. Siccome intuiva che i Carnuti, consci della loro
colpa, nutrivano forti apprensioni, al fine di liberare al più
presto la popolazione da ogni timore esige la punizione del
responsabile del crimine e istigatore della guerra, Gutuatro.
Tutti, anche se non si era mai messo nelle mani dei suoi
concittadini, gli dettero rapidamente la caccia con zelo, e fu
condotto al nostro campo. Cesare, contro la propria natura, è
costretto a giustiziarlo per l'accorrere in massa dei soldati,
che in Gutuatro vedevano il responsabile di tutti i pericoli e le
pene patite in guerra; colpito a nerbate fino a perdere la
conoscenza, fu poi decapitato con la scure.
39
Mentre era ancora dai Carnuti, grazie alle frequenti lettere di
Caninio viene informato delle novità di Drappete e Lucterio e
dell'irriducibile resistenza degli abitanti di Uxelloduno. Cesare,
sebbene ne disprezzasse lo scarso numero, giudicava di dover
infliggere a tanta pervicacia una dura lezione, perché la Gallia
intera non pensasse che nella resistenza ai Romani le era mancata
non la forza, ma la costanza, oppure per evitare che, seguendo l'esempio,
gli altri popoli cercassero di rendersi liberi, confidando sui
vantaggi dei luoghi; inoltre, a tutti i Galli - ben lo sapeva -
era noto che gli restava una sola estate da passare in provincia,
e se per quel lasso di tempo riuscivano a resistere, non
avrebbero più dovuto temere alcun pericolo. Così, lascia il
legato Q. Caleno con due legioni e lo incarica di seguirlo a
tappe normali; dal canto suo, si dirige il più velocemente
possibile alla volta di Caninio con tutta la cavalleria.
40
Dopo aver raggiunto Uxelloduno contro le aspettative di tutti,
vede che la città è già serrata dalle nostre fortificazioni e
si rende conto che non si può più recedere dall'assedio. Saputo
dai fuggiaschi che in città c'erano abbondanti scorte di grano,
cercò di tagliare i rifornimenti idrici. Un fiume scorreva in
mezzo a una valle profonda, che attorniava quasi tutto il monte
su cui sorgeva Uxelloduno. La conformazione naturale della zona
impediva di deviarlo: scorreva, infatti, così vicino ai piedi
del monte, che non era assolutamente possibile scavare canali di
derivazione. Ma gli assediati, per raggiungere il fiume, dovevano
discendere una china disagevole e molto ripida: se i nostri li
ostacolavano, non sarebbero riusciti né ad arrivare al fiume, né
a ritirarsi per l'erta salita, senza il rischio di ferite o
addirittura di morte. Appena Cesare si rese conto di tale
difficoltà dei nemici, appostò arcieri e frombolieri e dispose
anche macchine da lancio proprio nelle zone di fronte ai sentieri
più praticabili, impedendo agli abitanti di attingere acqua dal
fiume.
41
Allora tutta la gente della città scese a prendere l'acqua in un
solo luogo, proprio ai piedi delle mura, dove sgorgava una grande
fonte, in corrispondenza della zona in cui, per un intervallo di
circa trecento piedi, il fiume non chiudeva il suo anello intorno
al monte. Tutti avrebbero voluto impedire agli assediati di
avvicinarsi alla fonte, ma solo Cesare ne vide il modo: proprio
dirimpetto cominciò a spingere le vinee sulle falde del monte e
a costruire un terrapieno, a prezzo di grandi fatiche e continui
scontri. Gli assediati, infatti, correvano giù dalle loro
posizioni dominanti e dall'alto combattevano senza rischi e
colpivano molti dei nostri che continuavano ad avanzare con
tenacia; i nostri soldati, comunque, non si lasciano distogliere
dal sospingere le vinee e dal superare le difficoltà del terreno
con faticosi lavori. Al contempo, scavano gallerie sotterranee
verso le vene e l'alveo della sorgente, un'operazione che si
poteva effettuare senza alcun rischio. né sospetto da parte dei
nemici. Viene costruito un terrapieno alto sessanta piedi, su cui
è posta una torre di dieci piani, che doveva non tanto
raggiungere l'altezza delle mura (un risultato impossibile con
qualsiasi tipo di costruzione), quanto sovrastare il luogo dove
nasceva la sorgente. Dalla torre le macchine da lancio
scagliavano dardi verso l'accesso alla fonte e gli abitanti non
potevano rifornirsi senza pericolo. Così, non solo il bestiame e
i giumenti soffrivano la sete, ma anche la grande massa dei
nemici.
42
Atterriti dal pericolo, gli abitanti riempiono barili di sego,
pece, assicelle, gli danno fuoco e li fanno rotolare sulle nostre
costruzioni. Nello stesso tempo attaccano risolutamente, in modo
che la lotta minacciosa distolga i Romani dall'estinguere l'incendio.
Subito alte fiamme si levano in mezzo alle nostre opere di difesa.
Infatti, i barili, dovunque rotolassero a precipizio lungo la
china, bloccati dalle vinee e dal terrapieno, appiccavano il
fuoco agli ostacoli sul loro cammino. Tuttavia, i nostri soldati,
benché costretti a un genere di combattimento pericoloso e in
posizione sfavorevole, tenevano testa a tutte le avversità con
indomito coraggio. Lo scontro difatti si svolgeva in alto,
davanti agli occhi del nostro esercito; da entrambe le parti si
levavano alte grida. Così, quanto più uno era conosciuto per il
suo coraggio, tanto più si esponeva ai dardi dei nemici e alle
fiamme, per rendere ancor più noto e provato il suo valore.
43
Cesare, vedendo che parecchi dei suoi venivano colpiti, ordina
alle coorti di scalare il monte da tutti i lati della città e di
levare dappertutto violenti clamori, simulando di dover occupare
le mura. Gli abitanti, terrorizzati dalla nostra manovra,
inquieti su ciò che succedeva altrove, richiamano i soldati che
attaccavano le nostre costruzioni e li dispongono sulle mura. Così,
i nostri, chiusosi lo scontro, presto in parte domano, in parte
isolano l'incendio che si era propagato sulle nostre difese.
Eppure gli assediati continuavano testardamente la difesa e, pur
avendo perso per sete gran parte dei loro, rimanevano fermi nel
loro proposito; alla fine i nostri, con le gallerie, riuscirono a
tagliare le vene della sorgente e a deviare l'acqua. Il che
inaridì all'improvviso una fonte perenne e provocò negli
abitanti la caduta di ogni speranza, al punto che pensarono si
trattasse non di opera umana, ma della volontà divina. Così,
costretti dalla necessità, si arresero.
44
Cesare sapeva che a tutti era nota la sua mitezza e non temeva di
apparire un individuo crudele se avesse assunto provvedimenti
piuttosto severi; d'altronde, non vedeva sbocco ai suoi disegni,
se in diverse zone i Galli avessero continuato a prendere
iniziative del genere. Ritenne opportuno, allora, dissuadere gli
altri con un castigo esemplare. Dunque, mozzò le mani a chiunque
avesse impugnato le armi, ma li mantenne in vita, per lasciare più
concreta testimonianza di come puniva i traditori. Drappete,
catturato da Caninio, come ho detto, o per l'umiliazione e il
dolore delle catene o per la paura di un supplizio ancor più
atroce non toccò cibo per un po' di giorni e così morì. Nello
stesso tempo Lucterio, che era fuggito dopo la battaglia, come ho
scritto in precedenza, aveva affidato la propria persona all'arverno
Epasnacto (infatti, mutando luogo di frequente, si metteva nelle
mani di molti, poiché gli sembrava rischioso dimorare troppo a
lungo in qualsiasi posto, ben conscio di quanto doveva essergli
nemico Cesare). L'arverno Epasnacto, però, fedelissimo alleato
del popolo romano, senz'alcuna esitazione lo mette in catene e lo
consegna a Cesare.
45
Labieno, nel frattempo, giunge a uno scontro di cavalleria nelle
terre dei Treveri, con successo; uccisi molti dei Treveri e dei
Germani, che non negavano a nessuno rinforzi contro i Romani,
ridusse in suo potere, vivi, i capi nemici, tra cui l'eduo Suro,
che godeva di straordinaria fama quanto a valore e nobiltà ed
era il solo tra gli Edui a non aver ancora deposto le armi.
46
Appena ne è informato, Cesare, constatato che in tutte le parti
della Gallia le operazioni erano state condotte con successo,
giudicando che dopo la campagna estiva dell'anno precedente il
paese era ormai vinto e piegato, visto che non si era mai recato
in Aquitania, ma l'aveva solo parzialmente sconfitta grazie a P.
Crasso, con due legioni si dirige in quella regione della Gallia,
per spendervi l'ultimo periodo della campagna estiva. Come in
tutti gli altri casi, porta a termine le operazioni con rapidità
e successo. Infatti, tutti i popoli dell'Aquitania inviarono a
Cesare emissari e gli consegnarono ostaggi. Quindi, con la scorta
della cavalleria parte per Narbona e incarica i legati di
condurre l'esercito ai quartieri d'inverno. Stanziò in Belgio
quattro legioni con M. Antonio e i legati C. Trebonio e P.
Vatinio; due le trasferì nelle terre degli Edui, di cui ben
conosceva il prestigio in tutta la Gallia; presso i Turoni, al
confine coi Carnuti, ne collocò due per tenere a bada tutta
quella regione che si affacciava sull'Oceano; le due rimanenti le
pose nei territori dei Lemovici, non lontano dagli Arverni, per
non lasciare sguarnita nessuna parte della Gallia. Si trattenne
in provincia pochi giorni, toccò rapidamente tutti i centri
giudiziari, venne informato dei conflitti politici, attribuì
premi ai benemeriti (del resto, per lui era assai facile capire
quali sentimenti ciascuno avesse nutrito durante l'insurrezione
di tutta la Gallia, a cui aveva potuto far fronte grazie alla
lealtà e al sostegno della suddetta provincia). Sistemate tali
faccende, rientrò presso le legioni stanziate in Belgio e svernò
a Nemetocenna.
47
Qui lo avvertirono che l'atrebate Commio era venuto a battaglia
con la sua cavalleria. Quando Antonio era giunto agli
accampamenti invernali, il popolo degli Atrebati era rimasto
fedele. Ma Commio, da quando era stato ferito - l'ho ricordato in
precedenza - era sempre a disposizione dei suoi concittadini,
pronto a ogni sollevazione, perché non mancasse, a chi voleva la
guerra, un fomentatore e un capo. Adesso, poiché il suo popolo
obbediva ai Romani, Commio viveva di scorrerie con i suoi
cavalieri e, infestando le strade, intercettava spesso le colonne
di rifornimenti dirette ai quartieri d'inverno dei Romani.
48
Ad Antonio era stato assegnato il prefetto della cavalleria C.
Voluseno Quadrato, che svernava con lui. Antonio lo manda a
inseguire la cavalleria nemica. Voluseno, allo straordinario
valore, accompagnava un odio feroce nei confronti di Commio,
perciò obbedì all'ordine ancor più volontieri. Così, tendendo
imboscate, attaccava con notevole frequenza i cavalieri nemici e
dava vita a scontri coronati da successo. In ultimo, mentre si
combatteva con particolare asprezza, Voluseno, con pochi dei suoi,
insegue Commio con eccessiva ostinazione, per la smania di
catturarlo; e quello, fuggendo a precipizio, costringe Voluseno
ad allontanarsi troppo. Poi, nemico com'era di Voluseno, all'improvviso
fa appello alla fedeltà e all'aiuto dei suoi, chiede loro di non
lasciar invendicate le ferite che gli erano state inferte a
tradimento: volge il cavallo e, spingendosi davanti a tutti, si
lancia inaspettatamente contro il prefetto. Altrettanto fanno i
suoi cavalieri: costringono i pochi nostri a volgere le spalle e
li inseguono. Commio, pungolando ferocemente coi talloni il
cavallo, affianca il destriero di Quadrato e, lancia in resta,
gli trapassa con violenza la coscia. Vedendo il prefetto colpito,
i nostri non esitano a bloccarsi di colpo, volgono i cavalli e
respingono il nemico. Subito molti degli avversari, scombussolati
dall'impetuoso assalto dei nostri, vengono feriti; alcuni cadono
sotto gli zoccoli dei cavalli mentre cercavano la fuga, altri
sono catturati. Il comandante nemico, grazie alla velocità del
suo cavallo, riesce a scamparla; in quella battaglia vittoriosa,
però, il prefetto romano rimase gravemente ferito, al punto che
sembrava dovesse morire, e fu riportato all'accampamento. Ma
Commio, vuoi, che sentisse placato il proprio rancore, vuoi per
la perdita della maggior parte dei suoi, invia una legazione ad
Antonio: sarebbe rimasto dove gli avesse ordinato e avrebbe
obbedito a ogni comando, sancendo la promessa con l'invio di
ostaggi; di una sola cosa lo pregava, che, in ragione del suo
timore, gli fosse concesso di non comparire al cospetto di nessun
romano. Antonio, giudicando che la richiesta nasceva da una
giusta paura, accordò il permesso e accolse gli ostaggi. So che
Cesare ha composto singoli commentari per ciascun anno, ma non ho
ritenuto il caso di fare altrettanto, perché l'anno seguente,
durante il consolato di L. Paolo e C. Marcello, non si
verificarono in Gallia imprese di rilievo. Tuttavia, perché si
sappia in quali zone rimasero in quell'anno Cesare e l'esercito,
ho deciso di scrivere poche pagine e di unirle al presente
commentario.
49
Cesare, mentre svernava in Belgio, mirava a un unico scopo: tener
legate all'alleanza le varie genti e non fornire a nessuno
speranze o motivi di guerra. Infatti, niente gli pareva meno
auspicabile, alla vigilia della sua uscita di carica, che
trovarsi costretto ad affrontare un conflitto; altrimenti, al
momento della sua partenza con l'esercito, si sarebbe lasciato
alle spalle una guerra che tutta la Gallia avrebbe intrapreso con
entusiasmo, liberata dal pericolo della sua presenza. Così,
distribuendo titoli onorifici ai vari popoli, accordando
grandissime ricompense ai loro principi, non imponendo nuovi
oneri, la Gallia, prostrata da tante sconfitte, riuscì con
facilità a tenerla in pace, garantendo più lieve l'assoggettamento.
50
Alla fine dell'inverno, contro la sua abitudine, si diresse a
marce forzate in Italia, per rivolgersi ai municipi e alle
colonie, a cui aveva raccomandato la candidatura al sacerdozio di
M. Antonio, suo questore. Da un lato, ben volentieri faceva
valere tutto il suo prestigio per un uomo a lui così legato, che
poco prima aveva mandato a presentare la sua candidatura; dall'altro
voleva colpire duramente il potente partito di quei pochi che,
con una sconfitta elettorale di M. Antonio, desideravano minare l'autorità
di Cesare, allo scadere della sua carica. E anche se durante il
viaggio, prima di giungere in Italia, aveva saputo che M. Antonio
era stato eletto augure, stimò di avere, nondimeno, un buon
motivo per visitare i municipi e le colonie, perché voleva
ringraziarli di aver accordato ad Antonio il loro favore con un'affluenza
davvero massiccia. Allo stesso tempo voleva raccomandare la
propria candidatura per il consolato dell'anno successivo, visto
che i suoi avversari con insolenza menavano vanto sia per l'elezione
di L. Lentulo e C. Marcello, creati consoli, al solo scopo di
spogliare Cesare di ogni carica e dignità, sia di aver sottratto
il consolato a Ser. Galba, che, nonostante godesse di maggior
credito e avesse raccolto più voti, era stato escluso per i suoi
vincoli di parentela con Cesare e la lunga militanza come suo
legato.
51
L'arrivo di Cesare fu accolto con incredibili onoranze e
manifestazioni d'affetto da parte dei municipi e delle colonie.
Era la prima volta, infatti, che giungeva dopo la famosa
sollevazione generale della Gallia. Di tutto ciò che si poteva
escogitare, niente fu tralasciato per ornare le porte, le vie e
tutti i luoghi in cui Cesare doveva passare. Tutta la popolazione,
insieme ai bambini, gli si faceva incontro, dappertutto venivano
immolate vittime, le piazze e i templi erano pieni di mense
imbandite: si poteva pregustare la gioia di un trionfo davvero
attesissimo. Così grande era la magnificenza dispiegata dai
ricchi, l'entusiasmo manifestato dai poveri.
52
Dopo aver percorso tutte le regioni della Gallia togata, con
estrema rapidità Cesare rientrò a Nemetocenna presso l'esercito;
richiamate nelle terre dei Treveri le legioni che erano nei campi
invernali, le raggiunse e passò in rassegna le truppe. Pose T.
Labieno a capo della Gallia togata, per guadagnare un maggior
favore alla sua candidatura al consolato. Spostava l'esercito di
tanto, quanto gli pareva utile mutare i luoghi per ragioni
igieniche. In quel periodo gli giungeva ripetutamente voce che i
suoi avversari facevano pressioni su Labieno e veniva avvertito
che, per le manovre di pochi, si cercava di sottrargli parte
delle truppe mediante un intervento del senato. Tuttavia, non
prestò fede alle voci su Labieno, né si lasciò indurre ad atti
che contrastassero con l'autorità del senato. Era convinto,
infatti, che se vi fosse stata una libera votazione dei senatori,
la sua causa avrebbe prevalso con facilità. E C. Curione,
tribuno della plebe, avendo preso a difendere le ragioni e l'onore
di Cesare, aveva più volte detto al senato che, se il timore
delle armi di Cesare infastidiva qualcuno, il potere assoluto e
gli armamenti di Pompeo incutevano al foro non meno terrore, e
aveva proposto che entrambi deponessero le armi e congedassero i
loro eserciti: la città, così, sarebbe ritornata libera e
indipendente. E non si limitò a proporlo, ma prese, lui, l'iniziativa
di una votazione per spostamento: a essa si opposero i consoli e
gli amici di Pompeo e tirarono in lungo la cosa fino a che l'assemblea
non si sciolse.
53
Era una prova lampante dell'unanimità del senato e coincideva
con quanto era accaduto in precedenza. L'anno prima, infatti, M.
Marcello aveva cercato di scalzare Cesare dalla sua carica e,
contro una legge di Pompeo e Crasso, aveva tenuto al senato una
relazione sulle province di Cesare, prima della scadenza del
mandato. Dopo la discussione, Marcello, che ricercava ogni
prestigio politico dalla sua ostilità contro Cesare, aveva messo
ai voti la sua proposta, ma il senato, compatto, l'aveva respinta.
L'insuccesso non aveva demoralizzato i nemici di Cesare, anzi li
incitava a prepararsi a misure più gravi, con cui costringere il
senato ad approvare ciò che loro volevano.
54
Il senato, in seguito, decise che per la guerra contro i Parti Cn.
Pompeo e C. Cesare inviassero una legione a testa; ma è chiaro
che le due legioni sono sottratte a uno solo. Cn. Pompeo, infatti,
diede, come proveniente dal dalle sue, la prima legione, da lui
inviata a Cesare dopo averla arruolata nella provincia di Cesare
stesso. Quest'ultimo, tuttavia, benché non ci fossero dubbi
sulle intenzioni dei suoi avversari, restituì la legione a
Pompeo e, a proprio titolo, rispettando la delibera del senato,
invia la quindicesima, dislocata in Gallia cisalpina. Al posto di
questa, invia in Italia la tredicesima legione, a protezione dei
posti di difesa evacuati dalla quindicesima. Assegna all'esercito
i quartieri d'inverno: situa C. Trebonio in Belgio con quattro
legioni e con altrettante invia C. Fabio nelle terre degli Edui.
Pensava che, così, la Gallia sarebbe stata veramente sotto
controllo, se le truppe avessero tenuto a bada i Belgi, che erano
i più valorosi, e gli Edui, che godevano di grandissimo
prestigio. Dal canto suo, parte per l'Italia.
55
Appena vi giunge, viene a sapere che, per iniziativa del console
C. Marcello, le due legioni da lui fornite per la guerra contro i
Parti, come da ordine del senato, erano invece state assegnate a
Cn. Pompeo e trattenute in Italia. L'accaduto non lasciava dubbi
su che cosa stessero tramando contro di lui, ma Cesare decise di
sopportare tutto, finché gli restava qualche speranza di
risolvere la questione in termini di diritto piuttosto che con le
armi. Si diresse...
torna alla homepage + torna a copia, copiabbus + torna all'indice di latino