torna alla homepage + torna a copia, copiabbus + torna all'indice di latino
Cesare
De Bello Gallico
libro I, cap 1-25
1
La Gallia è, nel suo complesso, divisa in tre parti: la prima la
abitano i Belgi, l'altra gli Aquitani, la terza quelli che nella
loro lingua prendono il nome di Celti, nella nostra, di Galli. I
tre popoli differiscono tra loro per lingua, istituzioni e leggi.
Il fiume Garonna divide i Galli dagli Aquitani, la Marna e la
Senna li separano dai Belgi. Tra i vari popoli i più forti sono
i Belgi, ed eccone i motivi: sono lontanissimi dalla finezza e
dalla civiltà della nostra provincia; i mercanti, con i quali
hanno scarsissimi contatti, portano ben pochi fra i prodotti che
tendono a indebolire gli animi; confinano con i Germani d'oltre
Reno e con essi sono continuamente in guerra. Anche gli Elvezi
superano in valore gli altri Galli per la stessa ragione:
combattono con i Germani quasi ogni giorno, o per tenerli lontani
dai propri territori o per attaccarli nei loro. La parte in cui,
come si è detto, risiedono i Galli, inizia dal Rodano, è
delimitata dalla Garonna, dall'Oceano, dai territori dei Belgi,
raggiunge anche il Reno dalla parte dei Sequani e degli Elvezi,
è volta a settentrione. La parte dei Belgi inizia dalle più
lontane regioni della Gallia, si estende fino al corso inferiore
del Reno, guarda a settentrione e a oriente. L'Aquitania, invece,
va dalla Garonna fino ai Pirenei e alla parte dell'Oceano che
bagna la Spagna, è volta a occidente e a settentrione.
2
Tra gli Elvezi il più nobile e il più ricco in assoluto fu
Orgetorige. Costui, al tempo del consolato di M. Messala e M.
Pisone, mosso dal desiderio di regnare, spinse i nobili a fare
lega e convinse il popolo a emigrare in massa: sosteneva che
avrebbero potuto impadronirsi dell'intera Gallia con estrema
facilità, poiché erano più forti di tutti. Li persuase più
facilmente perché, da ogni parte, gli Elvezi sono bloccati dalla
conformazione naturale della regione: da un lato sono chiusi dal
Reno, fiume assai largo e profondo, che divide le loro terre dai
Germani; dall'altro incombe su di essi il Giura, un monte
altissimo, al confine tra Elvezi e Sequani; dal terzo lato sono
chiusi dal lago Lemano e dal Rodano, che li separa dalla nostra
provincia. Ne conseguiva che potevano compiere solo brevi
spostamenti e attaccare i popoli limitrofi con maggiore difficoltà.
Sotto questo aspetto gli Elvezi, gente con la voglia di
combattere, erano profondamente scontenti. Inoltre, mi rapporto
al loro numero e alla gloria della loro potenza militare,
ritenevano di possedere territori troppo piccoli, che si
estendevano per duecentoquaranta miglia in lunghezza e
centottanta in larghezza.
3
Spinti da tali motivi e indotti dal prestigio di Orgetorige, gli
Elvezi decisero di preparare ciò che serviva per la partenza:
comprarono quanti più giumenti e carri fosse possibile,
seminarono tutto il grano che gli riuscì di seminare, per averne
a sufficienza durante il viaggio, rafforzarono i rapporti di pace
e di amicizia con i popoli più vicini. Ritennero che due anni
fossero sufficienti per portare a termine i preparativi: con una
legge fissarono la partenza al terzo anno. Per eseguire tali
operazioni viene scelto Orgetorige, che si assume il compito di
recarsi in ambasceria presso gli altri popoli. Durante la sua
missione, il sequano Castico, figlio di Catamantalede, che era
stato per molti anni signore dei Sequani e aveva ricevuto dal
senato del popolo romano il titolo di amico, venne persuaso da
Orgetorige a impadronirsi del regno che in precedenza era stato
del padre. Allo stesso modo Orgetorige convince ad analoga azione
l'eduo Dumnorige, al quale dà in sposa sua figlia. Dumnorige era
fratello di Diviziaco, a quel tempo principe degli Edui e
amatissimo dal suo popolo. Orgetorige dimostra a Castico e a
Dumnorige che è assai facile portare a compimento l'impresa,
perché egli stesso sta per prendere il potere: gli Elvezi, senza
dubbio, erano i più forti tra tutti i Galli. Assicura che con le
sue truppe e con il suo esercito avrebbe procurato loro il regno.
Spinti dalle sue parole, si scambiano giuramenti di fedeltà,
sperando, una volta ottenuti i rispettivi domini, di potersi
impadronire di tutta la Gallia mediante i tre popoli più potenti
e più forti.
4
Un delatore svelò l'accordo agli Elvezi. Secondo la loro usanza,
essi costrinsero Orgetorige a discolparsi incatenato: se lo
avessero condannato, la pena comportava il rogo. Nel giorno
stabilito per il processo, Orgetorige fece venire da ogni parte
tutti i suoi familiari e servi, circa diecimila persone, nonché
tutti i suoi clienti e debitori, che erano molto numerosi. Grazie
a essi riuscì a sottrarsi all'interrogatorio. Mentre il popolo,
adirato per l'accaduto, cercava di far valere con le armi il
proprio diritto e i magistrati radunavano dalle campagne una
grande moltitudine di uomini, Orgetorige morì. Non mancò il
sospetto, secondo l'opinione degli Elvezi, che si fosse suicidato.
5
Dopo la morte di Orgetorige, gli Elvezi cercano ugualmente di
attuare il progetto di abbandonare il loro territorio. Quando
ritengono di essere ormai pronti per la partenza, incendiano
tutte le loro città, una dozzina, i loro villaggi, circa
quattrocento, e le singole case private che ancora restavano;
danno fuoco a tutto il grano, a eccezione delle scorte che
dovevano portare con sé, per essere più pronti ad affrontare
tutti i pericoli, una volta privati della speranza di tornare in
patria; ordinano che ciascuno porti da casa farina per tre mesi.
Persuadono i Rauraci, i Tulingi e i Latobici, con i quali
confinavano, a seguire la loro decisione, a incendiare le città
e i villaggi e a partire con loro. Accolgono e si aggregano come
alleati i Boi, che si erano stabiliti al di là del Reno, erano
passati nel Norico e avevano assediato Noreia.
6
Le strade, attraverso le quali gli Elvezi potevano uscire dal
loro territorio, erano in tutto due: la prima, stretta e
difficoltosa, attraversava le terre dei Sequani tra il monte
Giura e il Rodano e permetteva, a stento, il transito di un carro
per volta; inoltre, il Giura incombeva su di essa a precipizio,
in modo tale che pochissimi bastavano facilmente a impedire il
passaggio; la seconda attraversava la nostra provincia ed era
molto più agevole e rapida, perché tra i territori degli Elvezi
e degli Allobrogi, da poco pacificati, scorre il Rodano, che in
alcuni punti consente il guado. Ginevra è la città degli
Allobrogi più settentrionale e confina con i territori degli
Elvezi, ai quali è collegata da un ponte. Gli Elvezi, per
garantirsi via libera, pensavano di persuadere gli Allobrogi, che
non sembravano ancora ben disposti verso i Romani, o di
obbligarli con la forza. Ultimati i preparativi per la partenza,
stabiliscono la data in cui avrebbero dovuto riunirsi tutti sulla
riva del Rodano: cinque giorni prima delle calende di aprile,
nell'anno del consolato di L. Pisone e A. Gabinio.
7
Cesare, appena informato che gli Elvezi si proponevano di
attraversare la nostra provincia, affretta la sua partenza da
Roma, si dirige a marce forzate, con la massima rapidità, verso
la Gallia transalpina e giunge a Ginevra. Ordina che tutta la
provincia fornisca il maggior numero possibile di soldati (in
Gallia transalpina c'era una sola e unica legione) e dà
disposizione di distruggere il ponte che sorgeva nei pressi della
città. Gli Elvezi, conosciuto il suo arrivo, gli inviano come
ambasciatori i cittadini più nobili, con in testa Nammeio e
Veruclezio, incaricati di dirgli che, poiché non esisteva altro
cammino, erano intenzionati ad attraversare la provincia senza
arrecare danni e gliene chiedevano licenza. Cesare, memore che
gli Elvezi avevano ucciso il console L. Cassio e costretto l'esercito
romano, dopo averlo sconfitto, a subire l'onta del giogo, non
riteneva giusto concedere il permesso; inoltre, era convinto che
questa gente dall'animo ostile non si sarebbe astenuta da offese
e danni, una volta concessa la facoltà di attraversare la
provincia. Tuttavia, per guadagnare tempo fino all'arrivo dei
soldati da lui richiesti, risponde agli ambasciatori che si
riservava qualche giorno di tempo per decidere: se a loro andava
bene, ritornassero alle idi di aprile.
8
Nel frattempo, impiegando la legione al suo seguito e i soldati
giunti dalla provincia, Cesare scava un fossato ed erige un muro
lungo diciannove miglia e alto sedici piedi, dal lago Lemano, che
sbocca nel Rodano, fino al monte Giura, che divide i territori
dei Sequani dagli Elvezi. Ultimata l'opera, dispone presidi e
costruisce ridotte per respingere con maggior facilità gli
Elvezi, se avessero tentato di passare suo malgrado. Quando
giunse il giorno fissato con gli ambasciatori ed essi ritornarono,
Cesare disse che, conforme alle tradizioni e ai precedenti del
popolo romano, non poteva concedere ad alcuno il transito
attraverso la provincia e si dichiarò pronto a impedir loro il
passaggio nel caso cercassero di far ricorso alla forza. Gli
Elvezi, persa questa speranza, cercarono di aprirsi un varco sia
di giorno, sia, più spesso, di notte, o per mezzo di barche
legate insieme e di zattere, che avevano costruito in gran numero,
o guadando il Rodano nei punti in cui era meno profondo. Respinti
dalle fortificazioni e dall'intervento dei nostri soldati,
rinunciarono ai loro tentativi.
9
Agli Elvezi rimaneva solo la strada attraverso le terre dei
Sequani; contro il loro volere, però, non avrebbero potuto
passare, perché era troppo stretta. Da soli non sarebbero
riusciti a persuadere i Sequani, perciò mandarono degli emissari
all'eduo Dumnorige, per ottenere via libera grazie alla sua
intercessione. Dumnorige era molto potente presso i Sequani per
il favore di cui godeva e per le sue elargizioni, ed era amico
degli Elvezi perché aveva preso in moglie una elvetica, la
figlia di Orgetorige; inoltre, spinto dalla brama di regnare,
tendeva a novità politiche e voleva, mediante i benefici resi,
tenere legati a sé quanti più popoli possibile. Perciò, si
assume l'incarico e ottiene che i Sequani concedano agli Elvezi
il permesso di transito e che le due parti si scambino ostaggi: i
Sequani per non ostacolare gli Elvezi durante l'attraversamento
del paese, gli Elvezi per attraversarlo senza provocare offese o
danni.
10
A Cesare viene riferito il disegno degli Elvezi di attraversare i
territori dei Sequani e degli Edui per spingersi nella regione
dei Santoni, non lontani dai Tolosati, un popolo stanziato nella
nostra provincia. Si rendeva conto che, se ciò fosse accaduto,
la presenza di uomini bellicosi e ostili, al confine di quelle
zone pianeggianti ed estremamente fertili, avrebbe rappresentato
un grave pericolo per la provincia. Di conseguenza, posto il
legato T. Labieno a capo delle fortificazioni costruite, si
dirige a marce forzate in Italia, dove arruola due legioni e ne
mobilita altre tre, che svernavano nei pressi di Aquileia. Con le
cinque legioni si dirige nella Gallia transalpina per la via più
breve, attraverso le Alpi. Qui i Ceutroni, i Graioceli e i
Caturigi, appostatisi sulle alture, tentano di sbarrare la strada
al nostro esercito. Respinti questi popoli in una serie di
scontri, da Ocelo, la più lontana città della Gallia cisalpina,
Cesare dopo sei giorni di marcia giunge nel territorio dei
Voconzi, nella Gallia transalpina. Da qui conduce l'esercito
nelle terre degli Allobrogi e, poi, dei Segusiavi, il primo
popolo fuori della provincia, al di là del Rodano.
11
Gli Elvezi, oltrepassati con le loro truppe gli impervi territori
dei Sequani, erano giunti nella regione degli Edui e ne
devastavano i campi. Gli Edui, non essendo in grado di difendere
se stessi, né i propri beni, inviano a Cesare un'ambasceria per
chiedergli aiuto: in ogni circostanza avevano acquisito meriti
presso il popolo romano, perciò non avrebbero dovuto vedere,
quasi al cospetto del nostro esercito, i loro campi saccheggiati,
i loro figli asserviti, le loro città espugnate. Nello stesso
tempo gli Ambarri, affini per razza agli Edui, informano Cesare
che i loro campi erano stati devastati e che essi difficilmente
avrebbero potuto tenere lontane dalle loro città le forze
nemiche. Allo stesso modo gli Allobrogi, che al di là del Rodano
avevano villaggi e possedimenti, fuggono e si rifugiano da Cesare,
dicendogli che nulla rimaneva loro, se non la terra dei campi.
Cesare, spinto da tali notizie, decide di non dover aspettare che
gli Elvezi giungano nei territori dei Santoni, dopo aver
distrutto tutti i beni degli alleati di Roma.
12
C'è un fiume, la Saona, che scorre attraverso i territori degli
Edui e dei Sequani e si versa nel Rodano con incredibile placidità,
tanto che a occhio non è possibile stabilire quale sia il senso
della corrente. Gli Elvezi lo stavano attraversando con zattere e
imbarcazioni legate. Cesare, non appena fu informato dagli
esploratori che i tre quarti degli Elvezi erano già sull'altra
sponda e che circa un quarto era rimasto al di qua della Saona,
dopo mezzanotte partì dall'accampamento con tre legioni e
raggiunse gli Elvezi che non avevano ancora varcato il fiume. Li
colse alla sprovvista, mentre erano ancora impacciati dalle
salmerie: ne uccise la maggior parte, i superstiti fuggirono e si
nascosero nelle selve circostanti. Questa tribù (infatti, il
popolo degli Elvezi si divide, nel suo complesso, in quattro tribù)
si chiamava dei Tigurini. I Tigurini, all'epoca dei nostri padri,
erano stati gli unici a sconfinare, avevano ucciso il console L.
Cassio e sottoposto i suoi soldati all'onta del giogo. Così, o
per caso o per volontà degli dèi immortali, la prima a pagare
le proprie colpe fu proprio la tribù che aveva inferto al popolo
romano una memorabile sconfitta. Cesare vendicò non solo le
offese pubbliche, ma anche quelle private, perché i Tigurini,
nella stessa battaglia in cui era morto Cassio, avevano ucciso il
legato L. Pisone, avo di suo suocero L. Pisone.
13
Dopodiché, per poter raggiungere le rimanenti truppe degli
Elvezi, Cesare ordina di costruire un ponte sulla Saona e, così,
trasborda sull'altra riva le sue truppe. Gli Elvezi, scossi dal
suo arrivo repentino, quando si resero conto che per attraversare
il fiume a Cesare era occorso un giorno solo, mentre essi avevano
impiegato venti giorni di enormi sforzi, gli mandarono degli
ambasciatori. Li guidava Divicone, già capo degli Elvezi all'epoca
della guerra di Cassio. Divicone parlò a Cesare in questi
termini: se il popolo romano siglava la pace con gli Elvezi, essi
si sarebbero recati dove Cesare avesse deciso e voluto, per
rimanervi; se, invece, continuava con le operazioni di guerra, si
ricordasse sia del precedente rovescio del popolo romano, sia
dell'antico eroismo degli Elvezi. Aveva attaccato all'improvviso
una sola tribù, quando gli uomini ormai al di là del fiume non
potevano soccorrerla: non doveva, dunque, attribuire troppo
merito, per la vittoria, al suo grande valore, o disprezzare gli
Elvezi, che avevano imparato dai padri e dagli avi a combattere
da prodi più che con l'inganno o gli agguati. Perciò, non si
esponesse al rischio che il luogo dove si trovavano prendesse il
nome e tramandasse alla storia la disfatta del popolo romano e il
massacro del suo esercito.
14
A tali parole Cesare così rispose: tanto meno doveva esitare,
perché ciò che gli ambasciatori degli Elvezi avevano ricordato
era impresso nella sua mente, e quanto minore era stata la colpa
del popolo romano, tanto maggior dolore provava lui per la
sconfitta: se i Romani avessero avuto coscienza di qualche torto
commesso, facilmente si sarebbero tenuti in guardia; ma non
pensavano di aver compiuto qualcosa per cui temere, né di dover
temere senza motivo, e questo li aveva traditi. E se anche avesse
voluto dimenticare le antiche offese, poteva forse rimuovere
dalla mente le recenti? Gli Elvezi, contro il suo volere, non
avevano cercato di aprirsi a forza un varco attraverso la
provincia, non avevano infierito contro gli Edui, gli Ambarri,
gli Allobrogi? Che si gloriassero in modo tanto insolente e si
stupissero di aver evitato così a lungo la punizione delle
offese inflitte, concorreva a uno stesso scopo: gli dèi
immortali, di solito, quando vogliono castigare qualcuno per le
sue colpe, gli concedono, ogni tanto, maggior fortuna e un certo
periodo di impunità, perché abbia a dolersi ancor di più,
quando la sorte cambia. La situazione stava così, ma lui era
disposto a far pace: gli Elvezi, però, dovevano consegnargli
ostaggi, a garanzia che le promesse le avrebbero mantenute, e
risarcire gli Edui, i loro alleati e gli Allobrogi per i danni
arrecati. Divicone replicò che gli Elvezi avevano imparato dai
loro antenati a ricevere, non a consegnare ostaggi; di ciò il
popolo romano era testimone. Detto questo, se ne andò.
15
Il giorno seguente gli Elvezi tolgono le tende. Lo stesso fa
Cesare e, per vedere dove si dirigevano, manda in avanscoperta
tutta la cavalleria, di circa quattromila unità, reclutata sia
in tutta la provincia, sia tra gli Edui e i loro alleati. I
nostri, inseguita con troppo slancio la retroguardia degli Elvezi,
si scontrano con la cavalleria nemica in un luogo sfavorevole:
pochi dei nostri cadono. Gli Elvezi, esaltati dal successo, poiché
con cinquecento cavalieri avevano sbaragliato un numero di nemici
così alto, incominciarono a fermarsi, di tanto in tanto, con
maggiore audacia e a provocare con la loro retroguardia i nostri.
Cesare tratteneva i suoi e si accontentava, per il momento, di
impedire al nemico ruberie, foraggiamenti e saccheggi.
Proseguirono per circa quindici giorni la marcia, in modo che gli
ultimi reparti del nemico e i nostri primi non distassero più di
cinque o sei miglia.
16
Nel frattempo, Cesare ogni giorno chiedeva agli Edui il grano che
gli avevano promesso ufficialmente. Infatti, a causa del freddo,
dato che la Gallia, come già si è detto, è situata a
settentrione, non solo il frumento nei campi non era ancora
maturo, ma non c'era neppure una quantità sufficiente di
foraggio. Del grano, poi, che aveva fatto portare su nave
risalendo la Saona, Cesare non poteva far uso, perché gli Elvezi
si erano allontanati dal fiume ed egli non voleva perderne il
contatto. Gli Edui rimandavano di giorno in giorno: dicevano che
il grano lo stavano raccogliendo, che era già in viaggio, che
stava per arrivare. Cesare, quando si rese conto che da troppo
tempo si tirava in lungo e che incalzava il giorno della
distribuzione ai soldati, convocò i principi degli Edui,
presenti in buon numero nell'accampamento; tra di essi c'erano
Diviziaco e Lisco. Quest'ultimo era il "vergobreto" -
come lo chiamano gli Edui - ossia il magistrato che riveste la
carica più alta, è eletto annualmente e ha potere di vita e di
morte sui suoi concittadini. Cesare li accusa duramente: non lo
aiutavano proprio quando il grano non poteva né comprarlo, né
prenderlo dai campi, in un momento così critico e con il nemico
così vicino, tanto più che aveva intrapreso la guerra spinto
soprattutto dalle loro preghiere. Perciò, si lamenta ancor più
pesantemente di essere stato abbandonato.
17
Solo allora Lisco, spinto dal discorso di Cesare, espone ciò che
in precedenza aveva passato sotto silenzio: c'erano degli
individui che godevano di grande prestigio tra il popolo e che,
pur non rivestendo cariche pubbliche, avevano da privati più
potere dei magistrati stessi. Erano loro a indurre la massa, con
discorsi sediziosi e proditori, a non consegnare il grano dovuto:
sostenevano che, se gli Edui non erano più capaci di conservare
la signoria sul paese, era meglio sopportare il dominio dei Galli
piuttosto che dei Romani; i Romani, una volta sconfitti gli
Elvezi, avrebbero senza dubbio tolto la libertà agli Edui
insieme agli altri Galli. E le stesse persone rivelavano ai
nemici i nostri piani e tutto ciò che accadeva nell'accampamento.
Lisco non era in grado di tenerle a freno, anzi, adesso che era
stato costretto a palesare a Cesare la situazione così critica,
si rendeva conto di quale pericolo stesse correndo. Ecco il
motivo per cui aveva taciuto il più a lungo possibile.
18
Cesare intuiva che il discorso alludeva a Dumnorige, fratello di
Diviziaco, ma non voleva trattare l'argomento di fronte a troppa
gente; così, si affretta a sciogliere l'assemblea, ma trattiene
Lisco. A tu per tu gli chiede delucidazioni su ciò che aveva
detto durante la riunione. Lisco parla con maggior libertà e
minor timore. Cesare, poi, prende segretamente informazioni anche
da altre fonti e scopre che era vero: si trattava proprio di
Dumnorige, un individuo di estrema audacia, di gran credito
presso il popolo per la sua liberalità e avido di rivolgimenti.
Per parecchi anni aveva ottenuto a basso prezzo l'appalto delle
dogane e di tutte le altre imposte, perché nessuno osava fare
concorrenza alle sue offerte. In questo modo aveva aumentato il
patrimonio familiare e si era procurato ingenti mezzi per fare
delle elargizioni. A sue spese finanziava costantemente un gran
numero di cavalieri, che aveva sempre intorno a sé; inoltre, non
solo in patria, ma anche tra le genti confinanti godeva di molta
autorità e, per aumentarla, aveva dato in sposa sua madre a un
uomo molto nobile e potente della tribù dei Biturigi, aveva
preso in moglie una donna degli Elvezi, aveva fatto maritare una
sua sorella dal lato materno e altre sue parenti con uomini che
appartenevano ad altri popoli. Favoriva gli Elvezi ed era ben
disposto nei loro confronti per ragioni di parentela; nutriva
anche un odio personale nei confronti di Cesare e dei Romani,
perché con il loro arrivo il suo potere era diminuito e suo
fratello Diviziaco aveva riacquistato la precedente posizione di
influenza e di onore. Nel caso di una sconfitta dei Romani aveva
forti speranze di ottenere il regno con l'appoggio degli Elvezi;
sotto il dominio del popolo romano non poteva nutrire speranze
non solo di regnare, ma neppure di mantenere l'influenza che
aveva. Cesare, continuando nella sua indagine, veniva anche a
sapere che nel malaugurato scontro di cavalleria di recente
avvenuto, il primo a fuggire era stato Dumnorige con i suoi (infatti,
era lui il comandante della cavalleria che gli Edui avevano
mandato di rinforzo a Cesare): la loro fuga aveva seminato il
panico tra gli altri cavalieri.
19
Cesare, una volta appurato tutto ciò, poiché ai sospetti si
aggiungevano dati di assoluta certezza (Dumnorige aveva fatto
passare gli Elvezi attraverso i territori dei Sequani; aveva
promosso lo scambio degli ostaggi; aveva agito sempre senza
ricevere ordini da Cesare o dal suo popolo, anzi a loro insaputa;
era, infine, accusato dal magistrato degli Edui), riteneva che vi
fossero motivi sufficienti per procedere personalmente contro
Dumnorige o per invitare il suo popolo a punirlo. A tutte le
precedenti considerazioni, una sola si opponeva: Cesare aveva
conosciuto l'eccezionale devozione verso il popolo romano, la
disposizione davvero buona nei propri confronti, la straordinaria
fedeltà, giustizia e misura di Diviziaco, fratello di Dumnorige.
Intervenendo contro quest'ultimo, quindi, temeva di offendere i
sentimenti di Diviziaco. Perciò, prima di muoversi contro
Dumnorige, convocò Diviziaco: allontanati i soliti interpreti,
utilizzò, per il colloquio, C. Valerio Trocillo, principe della
provincia della Gallia, suo parente, nel quale riponeva la
massima fiducia. Cesare inizia subito col ricordare a Diviziaco
tutto ciò che in sua presenza era stato detto su Dumnorige
durante l'assemblea dei Galli e lo mette al corrente delle
informazioni che ciascuno, singolarmente, gli aveva dato sul
conto del fratello. Gli chiede, anzi lo prega di non offendersi,
se lui stesso, aperta un'inchiesta contro Dumnorige, emetterà un
giudizio o inviterà gli Edui a emetterlo.
20
Diviziaco abbracciò Cesare e scoppiò in lacrime: incominciò a
implorarlo di non prendere provvedimenti troppo gravi nei
confronti del fratello. Diceva di sapere che era vero, ma ne era
addolorato più di chiunque altro, perché a rendere potente
Dumnorige era stato proprio lui, Diviziaco, quando era molto
influente in patria e nel resto della Gallia, mentre suo fratello
non lo era affatto a causa della sua giovane età. Dumnorige, però,
si era servito delle risorse e delle forze acquisite, finendo non
solo per diminuire il favore di cui godeva suo fratello, ma quasi
per rovinare se stesso. Tuttavia, Diviziaco diceva di essere
mosso sia dall'affetto fraterno, sia dall'opinione della sua
gente. Se Cesare condannava Dumnorige a una pena grave, nessuno
avrebbe creduto all'estraneità di Diviziaco, che aveva una
posizione di privilegio, come amico di Cesare, ragion per cui
egli avrebbe perso l'appoggio di tutti i Galli. Piangendo,
continuava a rivolgergli parole di supplica. Cesare, prendendogli
la destra, lo consola, gli chiede di non aggiungere altro e gli
dichiara che la sua influenza contava per lui tanto, che avrebbe
sacrificato al suo desiderio e alle sue preghiere sia l'offesa
arrecata alla repubblica, sia il proprio risentimento. Alla
presenza del fratello convoca Dumnorige, gli espone gli addebiti
da muovergli, le cose che aveva capito e quelle di cui il suo
popolo si lamentava. Lo ammonisce a evitare in futuro tutti i
sospetti e gli dice che gli perdonava il passato in virtù di suo
fratello Diviziaco. Lo mette, però, sotto sorveglianza per poter
sapere che cosa facesse e con chi parlasse.
21
Nello stesso giorno Cesare venne informato dagli esploratori che
i nemici si erano fermati alle pendici di un monte a otto miglia
dal suo accampamento. Mandò allora ad accertare quale fosse la
conformazione del monte e se c'era una via d'accesso. Gli
riferirono che vi si poteva salire con facilità. Ordina a T.
Labieno, legato propretore, di salire dopo mezzanotte sulla
sommità del monte con due legioni, avvalendosi delle guide che
avevano effettuato il sopralluogo, e gli chiarisce il suo piano.
Lui stesso, dopo le tre di notte, per la stessa via percorsa dal
nemico, muove contro gli Elvezi, mandando avanti tutta la
cavalleria. In avanscoperta, con gli esploratori, viene spedito P.
Considio, che aveva fama di soldato espertissimo per avere
servito prima nell'esercito di L. Silla e, poi, in quello di M.
Crasso.
22
All'alba, mentre Labieno teneva la sommità del monte e Cesare
non distava più di millecinquecento passi dall'accampamento dei
nemici, ignari, come si seppe in seguito dai prigionieri, sia del
suo arrivo, sia della presenza di Labieno, Considio a briglia
sciolta si precipita da Cesare e gli comunica che il monte, di
cui Labieno doveva impadronirsi, era nelle mani dei nemici: lo
aveva capito dalle armi e dalle insegne galliche. Cesare comanda
alle sue truppe di ritirarsi sul colle più vicino e le schiera a
battaglia. Labieno aveva ricevuto ordine di non attaccare finché
non avesse visto nei pressi dell'accampamento nemico le truppe di
Cesare: lo scopo era di sferrare l'assalto contemporaneamente da
tutti i lati. Labieno, perciò, teneva la sommità del monte e
aspettava i nostri, senza attaccare. Solo a giorno già inoltrato
Cesare seppe dagli esploratori che il monte era in mano ai suoi,
che gli Elvezi avevano spostato l'accampamento e che Considio, in
preda al panico, aveva riferito di avere visto ciò che, in realtà,
non aveva visto. Quel giorno Cesare segue i nemici alla solita
distanza e si ferma a tre miglia dalle loro posizioni.
23
L'indomani, considerando che mancavano solo due giorni alla
distribuzione di grano e che Bibracte, la città degli Edui più
grande e più ricca in assoluto, non distava più di diciotto
miglia, Cesare pensò di dover provvedere ai rifornimenti. Smette
di seguire gli Elvezi e si affretta verso Bibracte. Alcuni
schiavi, fuggiti dalla cavalleria gallica del decurione L. Emilio,
riferiscono al nemico la faccenda. Gli Elvezi, o perché
pensavano che i Romani si allontanassero per paura, tanto più
che il giorno precedente non avevano attaccato pur occupando le
alture, o perché contavano di poter impedire ai nostri l'approvvigionamento
di grano, modificarono i loro piani, invertirono il senso di
marcia e incominciarono a inseguire e a provocare la nostra
retroguardia.
24
Cesare, quando se ne accorse, ritirò le sue truppe sul colle più
vicino e mandò la cavalleria a fronteggiare l'attacco nemico.
Nel frattempo, a metà del colle dispose, su tre linee, le
quattro legioni di veterani, mentre in cima piazzò le due
legioni da lui appena arruolate nella Gallia cisalpina e tutti
gli ausiliari, riempiendo di uomini tutto il monte. Ordinò,
frattanto, che le salmerie venissero ammassate in un sol luogo e
che lo difendessero le truppe schierate più in alto. Gli Elvezi,
che venivano dietro con tutti i loro carri, raccolsero in un
unico posto i bagagli, si schierarono in formazione serratissima,
respinsero la nostra cavalleria, formarono la falange e
avanzarono contro la nostra prima linea.
25
Cesare ordinò di allontanare e nascondere prima il suo cavallo,
poi quelli degli altri: voleva rendere il pericolo uguale per
tutti e togliere a ognuno la speranza della fuga. Spronati i
soldati, attaccò. I nostri riuscirono con facilità a spezzare
la falange nemica lanciando dall'alto i giavellotti; una volta
disunita la falange, sguainarono le spade e si gettarono all'assalto.
I Galli combattevano con grande difficoltà: molti dei loro scudi
erano stati trafitti e inchiodati da un solo lancio di
giavellotti; i giavellotti si erano piegati, per cui essi non
riuscivano né a svellerli, né a lottare nel modo migliore con
la mano sinistra impedita. Molti, dopo avere a lungo agitato il
braccio, preferirono gettare a terra gli scudi e combattere a
corpo scoperto. Alla fine, spossati per le ferite, incominciarono
a ritirarsi e a cercar riparo su un monte, che si trovava a circa
un miglio di distanza; lì si attestarono. Mentre i nostri si
spingevano sotto, i Boi e i Tulingi, che con circa quindicimila
uomini chiudevano lo schieramento nemico e proteggevano la
retroguardia, aggirarono i nostri e li assalirono dal fianco
scoperto. Vedendo ciò, gli Elvezi che si erano rifugiati sul
monte incominciarono a premere di nuovo e a riaccendere lo
scontro. I Romani operarono una conversione e attaccarono su due
fronti: la prima e la seconda linea per tener testa agli Elvezi
già vinti e respinti, la terza per reggere all'urto dei nuovi
arrivati.
torna alla homepage + torna a copia, copiabbus + torna all'indice di latino