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Cesare
De Bello Gallico
libro I, cap 26-46
26
Così, si combatté su due fronti a lungo e con accanimento. Alla
fine, quando non poterono più sostenere l'attacco dei nostri,
parte degli Elvezi, come aveva già fatto prima, si mise al
sicuro sul monte, parte si ritirò là dove avevano ammassato i
bagagli e i carri. A dire il vero, per tutto il tempo della
battaglia, durata dall'una del pomeriggio fino al tramonto,
nessuno poté vedere un solo nemico in fuga. Nei pressi delle
salmerie si lottò addirittura fino a notte inoltrata, perché
gli Elvezi avevano disposto i carri come una trincea e dall'alto
scagliavano frecce sui nostri che attaccavano. Alcuni, appostati
tra i carri e le ruote, lanciavano matare e tragule, colpendo i
nostri. Dopo una lunga lotta, i soldati romani si impadronirono
dell'accampamento e delle salmerie. Qui vennero catturati la
figlia di Orgetorige e uno dei figli. Sopravvissero allo scontro
centotrentamila Elvezi e per tutta la notte marciarono
ininterrottamente. Senza fermarsi mai neppure nelle notti
seguenti, dopo tre giorni giunsero nei territori dei Lingoni. I
nostri, invece, sia per curare le ferite riportate dai soldati,
sia per dare sepoltura ai morti, si attardarono per tre giorni e
non poterono incalzarli. Cesare inviò ai Lingoni una lettera e
dei messaggeri per proibir loro di fornire grano o altro agli
Elvezi: in caso contrario, li avrebbe trattati alla stessa
stregua. Al quarto giorno riprese a inseguire gli Elvezi con
tutte le truppe.
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Agli Elvezi mancava tutto il necessario per proseguire la guerra,
perciò inviarono degli ambasciatori a offrire la resa. Cesare
era ancora in marcia quando gli si fecero incontro; si gettarono
ai suoi piedi e gli chiesero pace, piangendo e supplicando.
Cesare ordinò agli Elvezi di aspettarlo dove adesso si trovavano,
ed essi obbedirono. Appena giunto, chiese la consegna degli
ostaggi, delle armi e degli schiavi fuggiti. Mentre gli Elvezi
stavano ancora provvedendo alla ricerca e alla raccolta, scese la
notte, nelle prime ore della quale circa seimila uomini della
tribù dei Verbigeni lasciarono l'accampamento degli Elvezi e si
diressero verso il Reno e i territori dei Germani: forse temevano
di essere uccisi, una volta consegnate le armi, oppure speravano
di salvarsi, pensando che in mezzo a tanta gente che si era
arresa la loro fuga potesse rimanere nascosta o passare del tutto
inosservata.
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Cesare, appena lo seppe, ordinò ai popoli, attraverso i cui
territori erano passati i Verbigeni, di cercarli e di
riportarglieli, se volevano essere giustificati ai suoi occhi.
Trattò come nemici i Verbigeni catturati, mentre accettò la
resa degli Elvezi che gli consegnarono ostaggi, armi e fuggiaschi.
Comandò agli Elvezi, ai Tulingi e ai Latobici di ritornare nei
territori dai quali erano partiti e, poiché in patria erano
andati perduti tutti i raccolti e non avevano più nulla con cui
sfamarsi, diede disposizione agli Allobrogi di rifornirli di
grano. Ordinò agli Elvezi di ricostruire le città e i villaggi
incendiati. La sua intenzione era, soprattutto, di non lasciare
spopolate le zone dalle quali gli Elvezi si erano mossi: non
voleva che i Germani d'oltre Reno passassero nei territori degli
Elvezi, più fertili, venendo a confinare con la provincia della
Gallia e con gli Allobrogi. I Boi, che avevano dato prova di
grande valore, ottennero il permesso di stabilirsi nei territori
degli Edui, che lo avevano richiesto. Ai Boi gli Edui diedero
campi da coltivare e, in seguito. concessero parità di diritti e
la stessa condizione di libertà di cui essi stessi godevano.
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Nell'accampamento degli Elvezi vennero trovate e consegnate a
Cesare delle tavolette scritte in caratteri greci. Si trattava di
un elenco nominativo degli uomini in grado di combattere che
avevano lasciato i loro territori; c'era anche, a parte, una
lista riguardante i bambini, i vecchi e le donne. La somma dei
due elenchi contava duecentosessantatremila Elvezi, trentaseimila
Tulingi, quattordicimila Latobici, ventitremila Rauraci,
trentaduemila Boi. Circa novantaduemila erano, tra di essi, gli
uomini in grado di portare armi. Il totale ammontava a
trecentosessantottomila. Si tenne, per ordine di Cesare, un
censimento generale degli Elvezi che rientravano in patria:
risultarono centodiecimila.
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Terminata la guerra con gli Elvezi, da quasi tutta la Gallia
vennero a congratularsi con Cesare, in veste di ambasciatori, i
più autorevoli cittadini dei vari popoli. Si rendevano conto che
Cesare, con questa guerra, aveva punito gli Elvezi per le vecchie
offese da essi inflitte al popolo romano, ma ne aveva tratto
vantaggio la Gallia non meno di Roma: gli Elvezi, pur godendo di
grandissima prosperità, avevano abbandonato la loro terra per
portare guerra a tutta la Gallia, conquistarla e scegliersi per
insediamento, tra tutte le regioni del paese, la zona che
avessero giudicato più vantaggiosa e fertile, assoggettando gli
altri popoli con un tributo. Chiesero a Cesare il permesso di
fissare una data per una riunione generale dei Galli: volevano
presentargli delle richieste, sulle quali c'era completo accordo.
Cesare acconsentì e tutti giurarono solennemente di non rivelare
gli argomenti trattati, se non su incarico dell'assemblea stessa.
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Dopo che l'assemblea fu sciolta, si ripresentarono a Cesare i
principi delle varie popolazioni, gli stessi che già erano
venuti da lui. Gli chiesero di poter trattare con lui,
segretamente, di questioni che riguardavano non solo loro, ma la
salvezza comune. Ottenuto il permesso, si gettarono tutti ai suoi
piedi, supplicandolo: desideravano e si preoccupavano di non fare
trapelare nulla del loro colloquio tanto quanto di vedere
esaudite le proprie richieste, perché erano certi che avrebbero
subito i peggiori tormenti, se la cosa si fosse risaputa. Parlò
a nome di tutti l'eduo Diviziaco: tutta la Gallia era divisa in
due fazioni con a capo, rispettivamente, gli Edui e gli Arverni.
I due popoli si erano contesi tenacemente la supremazia per molti
anni, fino a che gli Arverni e i Sequani non erano ricorsi all'aiuto
dei Germani, assoldandoli. In un primo tempo, avevano passato il
Reno circa quindicimila Germani; quando, però, questa gente
rozza e barbara aveva incominciato ad apprezzare i campi, la
civiltà e le ricchezze dei Galli, il loro numero era aumentato:
adesso, in Gallia, ammontavano a circa centoventimila. Gli Edui e
i popoli loro soggetti li avevano affrontati più di una volta,
ma avevano subito una grave disfatta, perdendo tutti i nobili,
tutti i senatori, tutti i cavalieri. In passato, gli Edui
detenevano il potere assoluto in Gallia sia per il loro valore,
sia per l'ospitalità e l'amicizia che li legava al popolo romano;
adesso, invece, prostrati dalle battaglie e dalle calamità,
erano stati costretti dai Sequani a consegnare in ostaggio i
cittadini più insigni e a vincolare il popolo con il giuramento
di non chiedere la restituzione degli ostaggi, di non implorare l'aiuto
del popolo romano e di non ribellarsi mai alla loro autorità. Ma
lui, Diviziaco, non erano riusciti a costringerlo: tra tutti gli
Edui, era l'unico a non aver giurato, né consegnato i propri
figli in ostaggio. Era fuggito dalla sua terra ed era venuto a
Roma dal senato per chiedere aiuto, proprio perché solo lui non
era vincolato da giuramenti o da ostaggi. Ma ai Sequani vincitori
era toccata sorte peggiore che agli Edui vinti: Ariovisto, re dei
Germani, si era stabilito nei territori dei Sequani e aveva
occupato un terzo delle loro campagne, le più fertili dell'intera
Gallia; adesso ordinava ai Sequani di evacuarne un altro terzo,
perché pochi mesi prima lo avevano raggiunto circa ventimila
Arudi e a essi voleva trovare una regione in cui potessero
stanziarsi. In pochi anni tutti i Galli sarebbero stati scacciati
dai loro territori e tutti i Germani avrebbero oltrepassato il
Reno. Non c'era paragone, infatti, tra le campagne dei Galli e
dei Germani, né tra il loro tenore di vita. Ariovisto, poi, da
quando aveva vinto l'esercito dei Galli ad Admagetobriga, regnava
con superbia e crudeltà, chiedeva in ostaggio i figli di tutti i
più nobili e riservava loro ogni specie di punizione e di
tortura, se non eseguivano gli ordini secondo il suo cenno e
volere. Era un uomo barbaro, iracondo e temerario. Non era
possibile sopportare più a lungo le sue prepotenze. Se non
avessero trovato aiuto in Cesare e nel popolo romano, a tutti i
Galli non restava che seguire la decisione degli Elvezi: emigrare
dalla patria, cercarsi altra dimora, altre sedi lontane dai
Germani e tentare la sorte, qualunque cosa accadesse. Ma se
Ariovisto avesse avuto notizia di tutto questo, senza dubbio
avrebbe inflitto terribili supplizi agli ostaggi in sua mano.
Cesare, avvalendosi del prestigio suo e dell'esercito oppure
sfruttando la recente vittoria o il nome del popolo romano,
poteva impedire che aumentasse il numero dei Germani in Gallia e
difendere tutto il paese dai torti di Ariovisto.
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Quando Diviziaco ebbe finito il suo discorso, tutti i presenti,
tra grandi pianti, iniziarono a chiedere aiuto a Cesare, il quale
notò che solo i Sequani non si comportavano per nulla come gli
altri, ma, senza alzare lo sguardo da terra, tenevano la testa
bassa, tristi. Stupito, ne chiese loro il motivo. I Sequani non
risposero, continuando a rimanere in silenzio, nello stesso
atteggiamento di tristezza. Più volte Cesare ripeté la sua
domanda, senza ottenere la benché minima risposta. Intervenne
ancora Diviziaco: la sorte dei Sequani era molto più misera e
pesante di quella degli altri perché non osavano, neppure in una
riunione segreta, lamentarsi e implorare aiuto e rabbrividivano
per la crudeltà di Ariovisto come se fosse lì presente, anche
se era lontano. E poi, perché gli altri, almeno, avevano la
possibilità di fuggire; essi, invece, che avevano accolto
Ariovisto nei loro territori e avevano visto le loro città
cadere nelle sue mani, dovevano sopportare tormenti d'ogni sorta.
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Cesare, sapute queste cose, rinfrancò i Galli con le sue parole
e la promessa che avrebbe preso a cuore la faccenda: aveva
fondate speranze che Ariovisto, in considerazione dei benefici
ricevuti e del prestigio di Cesare, avrebbe posto fine ai suoi
torti. Detto ciò, sciolse l'assemblea. Molte considerazioni,
oltre alle precedenti, lo spingevano a ritenere che fosse
necessario riflettere sulla situazione e occuparsene: primo,
vedeva che gli Edui, più volte definiti dal senato fratelli e
consanguinei, si trovavano sotto il dominio e la schiavitù dei
Germani e capiva che loro ostaggi si trovavano nelle mani di
Ariovisto e dei Sequani, cosa che giudicava una vergogna per sé
e per la repubblica, data la potenza del popolo romano; secondo,
riteneva pericoloso per Roma che, a poco a poco, i Germani
prendessero l'abitudine di oltrepassare il Reno e di stanziarsi
in Gallia in numero molto elevato. Infatti, stimava che questa
gente, rozza e barbara, una volta occupata tutta la Gallia, non
avrebbe fatto a meno di passare nella nostra provincia e di
dirigersi verso l'Italia, come un tempo i Cimbri ed i Teutoni,
soprattutto tenendo conto che solo il Rodano divide la nostra
provincia dalla regione dei Sequani. Stimava, dunque, di doversi
occupare al più presto del problema. Ariovisto stesso, poi,
aveva assunto una superbia e una arroganza tale, che non lo si
poteva più sopportare.
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Perciò, Cesare decise di mandare ad Ariovisto degli ambasciatori,
incaricati di chiedergli che scegliesse un luogo per un colloquio,
a metà strada tra loro: voleva trattare di questioni politiche
della massima importanza per entrambi. Agli ambasciatori
Ariovisto così rispose: se gli serviva qualcosa da Cesare, si
sarebbe recato di persona da lui; ma se era Cesare a volere
qualcosa, toccava a lui andare da Ariovisto. Inoltre, non osava
recarsi senza esercito nelle zone della Gallia possedute da
Cesare, né era possibile radunare l'esercito senza ingenti
scorte di viveri e grandi sforzi. Del resto, si domandava con
meraviglia che cosa Cesare o, in generale, il popolo romano
avessero a che fare nella sua parte di Gallia, da lui vinta in
guerra.
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Ricevuta tale risposta, Cesare manda di nuovo ad Ariovisto degli
ambasciatori, coi compito di comunicargli quanto segue: durante
il consolato di Cesare, il senato e il popolo romano lo avevano
definito re e amico. Adesso, poiché così dimostrava a Cesare e
al popolo romano la sua gratitudine, rifiutandosi di venire a
colloquio benché invitato e ritenendo di non dover discutere o
conoscere questioni di interesse comune, Cesare, allora, gli
notificava le proprie richieste: primo, di non far più passare
in Gallia altri Germani; secondo, di restituire gli ostaggi
ricevuti dagli Edui e di permettere ai Sequani di rendere quelli
che detenevano per ordine suo; infine, di non provocare
ingiustamente gli Edui e di non muovere guerra né a essi, né ai
loro alleati. Regolandosi così, Ariovisto si sarebbe garantito
per sempre il favore e l'amicizia del popolo romano. Cesare,
invece, se non avesse ottenuto quanto chiedeva, non sarebbe
rimasto indifferente alle offese inflitte agli Edui, perché
sotto il consolato di M. Messala e M. Pisone il senato aveva
stabilito che il governatore della Gallia transalpina doveva
difendere gli Edui e gli altri amici del popolo romano, per
quanto ciò rispondesse agli interessi di Roma.
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Ariovisto replicò così: il diritto di guerra permetteva ai
vincitori di dominare i vinti a proprio piacimento; allo stesso
modo il popolo romano era abituato a governare i vinti non
secondo le imposizioni altrui, ma a proprio arbitrio. Se
Ariovisto non dava ordini ai Romani su come esercitare il loro
diritto, non c'era ragione che i Romani ponessero ostacoli a lui,
quando applicava il suo. Gli Edui avevano tentato la sorte in
guerra, avevano combattuto ed erano usciti sconfitti; perciò, li
aveva resi suoi tributari. Era Cesare a fargli un grave torto,
perché con il suo arrivo erano diminuiti i versamenti dei popoli
sottomessi. Non avrebbe restituito gli ostaggi agli Edui, ma
neppure avrebbe mosso guerra a essi, né ai loro alleati, se
rispettavano gli obblighi assunti, pagando ogni anno i tributi.
In caso contrario, poco sarebbe servito loro il titolo di
fratelli del popolo romano. Se Cesare lo aveva avvertito che non
avrebbe lasciato impunite le offese inferte agli Edui, gli
rispondeva che nessuno aveva combattuto contro Ariovisto senza
subire una disfatta. Attaccasse pure quando voleva: si sarebbe
reso conto del valore degli invitti Germani, che erano
addestratissimi e per quattordici anni non avevano mai avuto
bisogno di un tetto.
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Nel momento stesso in cui a Cesare veniva riferita la risposta di
Ariovisto, giungevano emissari da parte degli Edui e dei Treveri.
Gli Edui si lamentavano che gli Arudi, da poco trasferitisi in
Gallia, devastavano il loro territorio: neppure la consegna degli
ostaggi era valsa a ottenere la pace da Ariovisto. I Treveri,
invece, dicevano che le cento tribù degli Svevi si erano
stabilite lungo le rive del Reno e tentavano di attraversarlo; li
guidavano i fratelli Nasua e Cimberio. Cesare, fortemente scosso
dalle notizie, pensò di dover stringere i tempi per evitare di
incontrare maggiore resistenza, se il nuovo gruppo degli Svevi si
fosse aggiunto alle precedenti truppe di Ariovisto. Perciò,
fatta al più presto provvista di grano, mosse contro Ariovisto
forzando le tappe.
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Dopo tre giorni di marcia gli riferirono che Ariovisto era
partito dai suoi territori già da tre giorni e si dirigeva con
tutte le truppe verso Vesonzione, la più grande città dei
Sequani, per occuparla. Cesare giudicò di dover impedire a ogni
costo che Vesonzione cadesse. Infatti, nella città si trovava,
in abbondanza, tutto ciò che serve in guerra; inoltre, era così
protetta dalla conformazione naturale, da permettere con facilità
le operazioni belliche: il fiume Doubs la circonda quasi
completamente, come se il suo corso fosse stato tracciato con un
compasso; dove non scorre il fiume, in una zona che si estende
per non più di milleseicento piedi, sorge un monte molto elevato,
la cui base tocca da entrambi i lati le sponde del Doubs. Un muro
circonda il monte, lo unisce alla città e ne fa una roccaforte.
Cesare qui si diresse, a marce forzate di giorno e di notte.
occupò la città e vi pose un presidio.
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Nei pochi giorni in cui Cesare si trattenne a Vesonzione per
rifornirsi di grano e di viveri, i Galli e i mercanti,
interrogati dai nostri soldati, andavano dicendo che i Germani
erano uomini dal fisico imponente, incredibilmente valorosi e
avvezzi al combattimento; spesso li avevano affrontati, ma non
erano neppure riusciti a sostenerne l'aspetto e lo sguardo. Di
colpo, in seguito a tali voci, un timore così grande si impadronì
dei nostri, da sconvolgere profondamente le menti e gli animi di
tutti. Dapprima, si manifestò tra i tribuni militari, i prefetti
e gli altri privi di grande esperienza militare, che avevano
seguito Cesare da Roma per ragioni di amicizia. Tutti adducevano
scuse, chi l'una, chi l'altra, sostenendo di avere dei motivi che
li costringevano a partire, e ne chiedevano a Cesare il permesso.
Alcuni, trattenuti dalla vergogna, rimanevano, per non destare
sospetti di timore, ma non potevano contraffare l'espressione del
volto, né talora trattenere le lacrime; al sicuro, nelle loro
tende, si lamentavano del loro destino o compiangevano con i loro
amici il comune pericolo. In ogni angolo dell'accampamento si
facevano testamenti. I discorsi e la paura di questa gente, a
poco a poco, impressionavano anche le persone provviste di grande
esperienza militare: legionari, centurioni e capi della
cavalleria. Chi voleva apparire meno pusillanime diceva di
paventare non tanto il nemico, quanto la strada molto stretta e l'estensione
delle foreste che li dividevano da Ariovisto, oppure di avere
paura che il frumento non potesse essere trasportato tanto
facilmente. Alcuni avevano addirittura riferito a Cesare che, all'ordine
di togliere le tende e di avanzare, i soldati non avrebbero
obbedito, né levato il campo, terrorizzati com'erano.
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Cesare, messo in allarme, riunì il consiglio di guerra e convocò
anche i centurioni di ogni grado. Li rimproverò aspramente,
perché, soprattutto, avevano la presunzione di chiedersi e di
rimuginare dove li portasse e con quali intenzioni. Sotto il suo
consolato, Ariovisto aveva ricercato con molta ansia l'amicizia
del popolo romano: chi poteva immaginarsi che sarebbe venuto meno
ai propri doveri così avventatamente? Dal canto suo, era
convinto che Ariovisto, conosciute le richieste e constatata l'equità
dei patti proposti, non avrebbe respinto l'appoggio di Cesare e
del popolo romano. E se, spinto da un demenziale impulso, avesse
mosso guerra ai Romani, che cosa mai dovevano temere? Che motivo
c'era di non aver più fiducia nel valore dei soldati o nella sua
efficienza di generale? Ai tempi dei loro padri avevano già
affrontato il pericolo rappresentato da quei nemici, quando i
Cimbri e i Teutoni erano stati sconfitti da C. Mario e l'esercito
si era meritato non meno gloria del comandante stesso; un
pericolo simile lo avevano corso, e non erano passati molti anni,
anche in Italia con la rivolta degli schiavi, che però si erano
avvalsi della pratica e della disciplina imparate dai Romani.
Tali esempi permettevano di giudicare come sia positiva in sé la
fermezza d'animo: proprio il nemico, temuto a lungo e senza
motivo quando era privo d'armi, lo avevano successivamente
sconfitto quando era armato e già vincitore. Infine, i Germani
erano lo stesso popolo con il quale gli Elvezi si erano più
volte scontrati, non solo nei propri territori, ma anche nei loro,
riportando la vittoria nella maggior parte dei casi. E gli Elvezi
non erano riusciti a tener testa all'esercito romano. Chi era
rimasto scosso perché i Galli erano stati sconfitti e messi in
fuga, avrebbe scoperto, se si fosse informato, che Ariovisto
aveva logorato i suoi avversari con una guerra di attesa,
tenendosi per molti mesi in un accampamento tra le paludi, senza
esporsi mai. Poi, quando ormai i Galli disperavano di poter
combattere e si erano disuniti, li aveva assaliti, riuscendo, così,
a sconfiggerli grazie ai suoi calcoli e ai suoi piani più che al
suo valore. Ma se c'era spazio per questi calcoli contro dei
barbari privi di esperienza militare, neppure Ariovisto stesso si
illudeva di poter così sorprendere il nostro esercito. Chi
esprimeva il proprio timore, fingendo di essere preoccupato per
le scorte di grano e per la strada molto stretta, era un
insolente, perché osava negare il senso del dovere del
comandante o addirittura voleva impartirgli delle direttive. I
suoi compiti di comandante erano di indurre i Sequani, i Leuci e
i Lingoni a fornire il grano, ormai maturo nei campi; quanto alla
strada, avrebbero giudicato tra breve essi stessi. Se si
mormorava che i soldati non avrebbero eseguito gli ordini, né
levato il campo, non se ne curava affatto: conosceva, infatti,
casi di disobbedienza da parte delle truppe, ma si trattava di
comandanti che avevano fallito un'impresa ed erano stati
abbandonati dalla fortuna dei quali era stato scoperto qualche
misfatto e dimostrata l'avidità. Ma tutta la sua vita comprovava
la sua onestà, la guerra contro gli Elvezi la sua fortuna. Perciò,
avrebbe dato subito l'ordine che voleva rimandare a più tardi:
avrebbe levato le tende la notte successiva, dopo le tre, per
accertarsi al più presto se in loro prevaleva la vergogna, unita
al senso del dovere, oppure la paura. E se, poi, nessuno lo
avesse seguito, si sarebbe messo in marcia, comunque, con la sola
decima legione, su cui non aveva dubbi: sarebbe stata la sua
coorte pretoria. Nei confronti della decima legione Cesare aveva
avuto una benevolenza particolare e in essa riponeva la massima
fiducia per il suo valore.
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Dopo il discorso di Cesare, lo stato d'animo di tutti mutò in
modo sorprendente e in ognuno nacque una gran voglia di agire, un
gran desiderio di combattere. Per prima la decima legione,
attraverso i tribuni militari, lo ringraziò per lo straordinario
apprezzamento ricevuto e confermò di essere prontissima a
scendere in campo. Poi le altre legioni, con i tribuni militari e
i centurioni più alti in grado, provvidero a scusarsi con Cesare:
non avevano mai nutrito dubbi o timori, né avevano pensato che
la valutazione delle scelte strategiche spettasse a loro, ma al
comandante. Cesare ne accettò le scuse e a Diviziaco, l'unico a
cui riservava la massima fiducia tra i Galli, chiese l'itinerario
da seguirsi per portare l'esercito in luoghi aperti compiendo un
giro di oltre cinquanta miglia. Come aveva preannunziato, dopo le
tre di notte partì. Il settimo giorno di marcia ininterrotta fu
informato dagli esploratori che le truppe di Ariovisto distavano
dai nostri ventiquattro miglia.
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Ariovisto, informato dell'arrivo di Cesare, gli manda degli
ambasciatori: il colloquio sollecitato in precedenza poteva, per
quanto lo riguardava, aver luogo, perché Cesare si era
avvicinato ed egli stimava di non correre pericolo. Cesare non
respinge la proposta, perché riteneva ormai che Ariovisto avesse
riacquistato il buon senso, visto che offriva spontaneamente ciò
che prima aveva negato, quando ne era stato richiesto. Inoltre,
Cesare nutriva grandi speranze che Ariovisto, in considerazione
dei grandi benefici ricevuti da lui e dal popolo romano, avrebbe
deposto la sua ostinazione, una volta conosciuto che cosa si
voleva da lui. Il colloquio fu fissato da lì a cinque giorni.
Nel periodo di tempo che lo precedette, si ebbe un'intensa
attività diplomatica. Ariovisto pose come condizione che Cesare
non portasse al colloquio truppe di fanteria, perché temeva di
cadere in un'imboscata: entrambi sarebbero giunti con la
cavalleria, altrimenti non si sarebbe presentato. Cesare non
voleva che, per il frapporsi di un pretesto, il colloquio
saltasse, ma neppure osava mettersi nelle mani della cavalleria
dei Galli; decise, perciò, che la cosa più conveniente era
lasciare a terra i cavalieri Galli e mettere in sella i soldati
della decima legione, nella quale riponeva la massima fiducia,
per avere, se c'era bisogno di agire, la scorta più leale
possibile. Mentre veniva eseguita l'operazione, uno dei soldati
della decima legione, non senza spirito, disse che Cesare aveva
fatto per loro più di quanto avesse promesso: aveva detto che li
avrebbe presi come coorte pretoria, adesso li faceva passare
addirittura al rango equestre.
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C'era un'ampia pianura, con un rialzo di terra abbastanza grande,
all'incirca a pari distanza dagli accampamenti di Ariovisto e di
Cesare. Qui, come stabilito, si incontrarono per il colloquio. A
duecento passi dal rialzo, Cesare fermò i legionari che lo
seguivano a cavallo. Anche i cavalieri di Ariovisto si fermarono
alla stessa distanza. Ariovisto chiese che si parlasse senza
scendere da cavallo e che ciascuno portasse con sé dieci uomini.
Quando giunsero sul posto, Cesare iniziò il suo discorso
ricordando i benefici resi ad Ariovisto da lui e dal senato: era
stato definito re e amico, gli erano stati inviati doni in
abbondanza. Onori del genere toccavano a poche persone ed i
Romani, di solito, li concedevano in considerazione di servigi
eccezionali; Ariovisto, invece, pur non avendo né titoli, né
motivo per pretendere simili privilegi, li aveva ottenuti grazie
al favore e alla liberalità di Cesare e del senato. E gli
illustrava anche quanto fossero antiche e giuste le ragioni dei
legami che intercorrevano tra i Romani e gli Edui, quante e quali
onorifiche disposizioni il senato avesse preso nei loro riguardi,
come gli Edui avessero sempre detenuto l'egemonia su tutta la
Gallia, ancor prima di cercare la nostra amicizia. Il popolo
romano voleva, per consuetudine, che gli alleati e gli amici non
solo non perdessero nulla del potere acquisito, ma vedessero
crescere il favore, la dignità, l'onore di cui godevano: chi
poteva, dunque, tollerare che venisse tolto agli Edui ciò che
avevano offerto all'amicizia del popolo romano? Ribadì, poi, le
stesse richieste presentate dai suoi ambasciatori: che Ariovisto
non muovesse guerra né agli Edui, né ai loro alleati,
restituisse gli ostaggi e, se non poteva rimandare indietro
nessuno dei Germani ormai presenti in Gallia, almeno non
permettesse che altri oltrepassassero il Reno.
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Ariovisto dedicò poche parole alle richieste di Cesare, ma molte
ne spese per elencare i propri meriti: aveva passato il Reno non
per volontà sua, ma su richiesta e invito dei Galli; non aveva
certo lasciato la patria e i congiunti senza viva speranza di
forti ricompense; in Gallia occupava sedi che gli erano state
concesse; gli ostaggi gli erano stati consegnati spontaneamente;
percepiva tributi secondo il diritto di guerra, che i vincitori
sono soliti imporre ai vinti. Non era stato lui ad aggredire i
Galli, ma i Galli lui; tutti i popoli della Gallia si erano mossi
ed erano scesi in campo contro di lui; li aveva respinti e
sconfitti, tutti, in una sola battaglia. Se i Galli intendevano
riprovarci, era pronto a battersi di nuovo, ma, se desideravano
la pace, non era giusto che si rifiutassero di pagare il tributo
fino ad allora versato volontariamente. L'amicizia del popolo
romano doveva essere per lui non un danno, ma un vanto e una
protezione, e con questa speranza l'aveva richiesta. Se a causa
del popolo romano doveva rimetterci i tributi e restituire i
prigionieri, avrebbe rinunciato all'amicizia di Roma con lo
stesso piacere con cui l'aveva cercata. Se faceva passare al di
qua del Reno molti Germani, era per difendersi, non per assalire
la Gallia: lo testimoniava il fatto che era venuto solo perché
lo avevano chiamato e non aveva mosso guerra, ma si era difeso.
Era giunto in Gallia prima del popolo romano, il cui esercito, in
precedenza, non era mai uscito dai confini della provincia della
Gallia. Che cosa cercava Cesare, come mai entrava nei
possedimenti di Ariovisto? Questa parte di Gallia era sua, così
come l'altra era nostra. Come non era ammissibile che i Romani
cedessero, se i Germani avessero attaccato il nostro territorio,
così noi, allo stesso modo, eravamo in torto a interferire nel
suo diritto. Se Cesare dichiarava che gli Edui avevano ricevuto
il titolo di amici dal senato, gli rispondeva che non era così
barbaro, né sprovveduto da ignorare che gli Edui non avevano
aiutato i Romani nel recente conflitto con gli Allobrogi, né si
erano avvalsi del sostegno del popolo romano nella lotta contro
di lui e i Sequani. Doveva sospettare che Cesare simulasse questa
amicizia e tenesse in Gallia un esercito con il solo scopo di
sopraffarlo. Se Cesare non si ritirava con le sue truppe dalle
regioni in questione, lo avrebbe considerato non un amico, ma un
nemico. E se lo avesse ucciso, avrebbe fatto cosa gradita a molti
nobili e capi del popolo romano; lo aveva saputo da loro emissari:
con la morte di Cesare poteva guadagnarsi il favore e l'amicizia
di tutti loro. Ma se Cesare si allontanava e gli concedeva il
libero possesso della Gallia, lo avrebbe ricompensato ampiamente
e gli avrebbe consentito di muovere qualsiasi guerra volesse,
senza travaglio o pericolo alcuno.
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Cesare, in risposta, spiegò lungamente ad Ariovisto perché non
poteva venir meno all'impegno preso: né lui, né il popolo
romano avevano l'abitudine di abbandonare gli alleati molto
benemeriti; inoltre, non riteneva che la Gallia spettasse ad
Ariovisto più che al popolo romano. Q. Fabio Massimo aveva
sconfitto gli Arverni e i Ruteni; il popolo romano li aveva
perdonati, non aveva ridotto a provincia i loro territori, né
imposto tributi. Se occorreva riandare ai tempi più antichi, il
dominio del popolo romano in Gallia era il più giusto; se
bisognava rispettare il decreto del senato, la Gallia doveva
rimanere libera, perché, vinta in guerra da Roma, aveva voluto
mantenere le proprie leggi.
46
Mentre il colloquio andava svolgendosi in questo modo, a Cesare
venne riferito che i cavalieri di Ariovisto si avvicinavano al
rialzo e si dirigevano contro i nostri, scagliando pietre e
frecce. Allora interruppe il discorso, raggiunse i suoi e diede
ordine tassativo di non rispondere ai nemici neanche con un dardo.
Infatti, anche se nello scontro con la cavalleria nemica non
prevedeva alcun pericolo per la sua legione prediletta, tuttavia
non ritenne opportuno ingaggiar battaglia, perché i nemici,
battuti, non potessero sostenere di essere caduti vittima di un
tradimento di Cesare, durante il colloquio. Quando tra le nostre
truppe si sparse la voce, dappertutto, del tono di arroganza
assunto da Ariovisto, che aveva interdetto ai Romani tutta la
Gallia, e di come i suoi cavalieri avessero assalito i nostri,
causando l'interruzione del colloquio, nell'esercito si destò un
ardore e un desiderio di combattere ancor più vivo.
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