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Cesare
De Bello Gallico
libro I, cap 47-54

 

47
Due giorni dopo, Ariovisto inviò a Cesare un'ambasceria: voleva trattare delle questioni di cui avevano cominciato a discutere senza giungere a una conclusione: perciò, gli chiedeva di scegliere un giorno per un nuovo incontro o, se preferiva, di mandare uno dei suoi in veste di legato. Cesare non vedeva motivo di riprendere il colloquio, tanto più che il giorno precedente i Germani non avevano saputo trattenersi dal lanciare frecce contro i nostri. Riteneva che mandare uno dei suoi in veste di legato, mettendolo nelle mani di quegli uomini rozzi, fosse molto pericoloso. La cosa più utile gli sembrò inviare C. Valerio Procillo, un giovane di notevolissimo valore e civiltà, figlio di C. Valerio Caburo, il quale aveva ricevuto la cittadinanza romana da C. Valerio Flacco: gli dava piena fiducia, conosceva la lingua gallica, che Ariovisto parlava piuttosto bene per lunga consuetudine e, infine, i Germani non avevano motivo di essere scorretti nei riguardi di C. Valerio Procillo. Con lui inviò M. Mezio, che aveva con Ariovisto vincoli di ospitalità. Cesare li incaricò di sentire le proposte e di riferirgliele. Ma quando Ariovisto li vide nel suo accampamento, alla presenza del suo esercito cominciò a gridare: cosa venivano a fare da lui? Volevano spiarlo? I due tentarono di rispondere, ma Ariovisto li obbligò a tacere e li fece gettare in catene.

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Quel giorno stesso Ariovisto si spostò in avanti e si stabilì ai piedi di un monte, a sei miglia dall'accampamento di Cesare. L'indomani transitò con le sue truppe davanti al campo romano, lo oltrepassò e pose le tende a due miglia di distanza, con l'intento di impedire a Cesare di ricevere il grano e i viveri che venivano forniti dai Sequani e dagli Edui. Da quel momento, per cinque giorni consecutivi, Cesare condusse le sue truppe davanti al campo, in formazione da combattimento, per dare ad Ariovisto la possibilità di misurarsi con lui, se lo voleva. Ma Ariovisto, per tutti e cinque i giorni, tenne bloccato il suo esercito nell'accampamento, limitandosi quotidianamente a semplici scaramucce di cavalleria. I Germani erano addestrati in questa tecnica militare disponevano di seimila cavalieri e di altrettanti fanti molto veloci e forti; ciascun cavaliere aveva scelto tra tutta la truppa, a propria tutela, un fante, insieme al quale entrava nella mischia. I cavalieri si riparavano presso i fanti, che, se c'era qualche pericolo, si precipitavano; se il cavaliere veniva ferito piuttosto gravemente e cadeva da cavallo, lo attorniavano; se dovevano spingersi più lontano o ripiegare più alla svelta, si erano garantiti con l'esercizio una tale rapidità, da reggere all'andatura dei cavalli, tenendosi aggrappati alla criniera.

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Constatato che Ariovisto rimaneva nel suo accampamento, Cesare, per non vedersi tagliati i rifornimenti, scelse una zona adatta per porre le tende, al di là del posto in cui si erano stabiliti i Germani, a una distanza di circa seicento passi da essi. Schierato l'esercito su tre linee, giunse al luogo prescelto e ordinò che le prime due linee rimanessero in armi e che la terza fortificasse l'accampamento. Il luogo distava, come già si è detto, circa seicento passi dal nemico. Ariovisto vi inviò circa sedicimila uomini senza bagagli e tutta la cavalleria, per atterrire i nostri e impedire l'opera di fortificazione. Cesare, non di meno, come aveva in precedenza stabilito, ordinò alle prime due linee di respingere il nemico e alla terza di portare a termine i lavori. Fortificato il sito, con una parte delle truppe ausiliarie lasciò due legioni e ricondusse nel campo maggiore le quattro rimanenti.

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Il giorno successivo, secondo la sua abitudine, Cesare fece uscire le sue truppe dai due accampamenti, le schierò a battaglia non molto lontano dal campo maggiore e diede al nemico la possibilità di combattere. Quando si rese conto che neppure allora i nemici si sarebbero fatti avanti, verso mezzogiorno ordinò ai suoi soldati di rientrare negli accampamenti. Solo allora Ariovisto inviò una parte delle sue truppe ad assalire il campo minore. Fino a sera si combatté con accanimento da ambo le parti. Al tramonto Ariovisto richiamò le sue truppe, che avevano inflitto ai nostri molte perdite, ma molte ne avevano subite. Cesare chiese ai prigionieri per quale motivo Ariovisto non accettasse lo scontro aperto e ne scoprì la causa: presso i Germani era consuetudine che le madri di famiglia, consultando le sorti e i vaticini, dichiarassero se era vantaggioso combattere o no. In questo caso, il responso era stato il seguente: il destino è avverso alla vittoria dei Germani, se combatteranno prima della luna nuova.

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Il giorno successivo Cesare lasciò in entrambi gli accampamenti un presidio a suo parere sufficiente e dispiegò tutte le truppe degli alleati davanti all'accampamento minore, ben visibili, sfruttandole per ingannare il nemico, dato che i legionari erano inferiori ai Germani, dal punto di vista numerico; sistemato l'esercito su tre linee, avanzò fino all'accampamento dei nemici. Solo allora i Germani furono costretti a condurre fuori le loro truppe e si disposero secondo le varie tribù, a pari distanza le une dalle altre: gli Arudi, i Marcomanni, i Triboci, i Vangioni, i Nemeti, i Sedusi, gli Svevi. Tutto intorno collocarono carri e carriaggi, per togliere a chiunque la speranza di fuggire. Sui carri fecero salire le loro donne, che, mentre essi partivano per combattere, piangevano e con le mani protese li imploravano di non renderle schiave dei Romani.

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Cesare mise a capo di ciascuna legione i rispettivi legati e il questore, perché ognuno li avesse a testimoni del proprio valore; egli stesso guidò l'attacco alla testa dell'ala destra, perché si era accorto che da quella parte lo schieramento nemico era molto debole. Al segnale, i nostri attaccarono con tale veemenza e i nemici si slanciarono in avanti così all'improvviso e con tale rapidità, che non si ebbe il tempo di lanciare i giavellotti. Ci si sbarazzò di essi e si combatté corpo a corpo, con le spade. I Germani formarono rapidamente, secondo la loro abitudine, delle falangi e ressero all'assalto condotto con le spade. Si videro molti soldati romani salire sopra le varie falangi, strappare via con le mani gli scudi dei nemici e colpire dall'alto. Mentre l'ala sinistra dello schieramento nemico veniva respinta e messa in fuga, l'ala destra con la sua massa premeva violentemente sui nostri. Il giovane P. Crasso, comandante della cavalleria, essendo nei movimenti più libero di chi combatteva nel folto dello schieramento, se ne accorse e mandò la terza linea in aiuto dei nostri in difficoltà.

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Questa mossa salvò le sorti della battaglia: i nemici volsero tutti le spalle e non si fermarono prima di aver raggiunto il Reno, che distava circa cinque miglia dal luogo dello scontro. Qui, pochissimi o cercarono di attraversare il fiume a nuoto, confidando nelle proprie forze, o scovarono delle imbarcazioni e si misero in salvo. Tra di loro ci fu Ariovisto, il quale trovò legata alla riva una piccola barca che gli servì per fuggire; tutti gli altri Germani furono inseguiti dalla nostra cavalleria e uccisi. Ariovisto aveva due mogli: una sveva, che si era portato da casa, l'altra norica, sorella del re Voccione, che gli era stata inviata dal fratello stesso e che Ariovisto aveva sposato in Gallia. Entrambe morirono nella rotta. Delle due figlie, una fu uccisa, l'altra catturata. C. Valerio Procillo, mentre durante la fuga veniva portato via dai suoi guardiani legato con triplice catena, si imbatté proprio in Cesare, che con la cavalleria stava inseguendo i nemici. Ciò procurò a Cesare una gioia non minore della vittoria stessa, perché si vedeva restituito, strappato alle mani del nemico, l'uomo più onesto della provincia della Gallia, suo amico e ospite: la Fortuna non aveva voluto togliere nulla alla sua grande gioia e contentezza e aveva impedito la morte di C. Valerio Procillo. Il giovane raccontava che, in sua presenza, erano state consultate tre volte le sorti per decidere se doveva essere arso sul rogo subito o in un secondo tempo: era vivo per beneficio delle sorti. Anche M. Mezio fu ritrovato e riportato a Cesare.

54
Quando al di là del Reno si ebbe notizia della battaglia, gli Svevi, che erano giunti alle rive del fiume, incominciarono a ritornare in patria. Non appena gli Ubi, che abitano nei pressi del Reno, si accorsero che gli Svevi erano in preda al panico, li inseguirono e ne uccisero un gran numero. Cesare, che in una sola campagna aveva concluso due grandissime guerre, tradusse l'esercito negli accampamenti invernali, nelle terre dei Sequani, un po' prima di quanto non richiedesse la stagione. Qui lasciò Labieno come comandante e si recò in Gallia cisalpina, per tenervi le sessioni giudiziarie.

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