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Cesare
De Bello Gallico
libro II, cap 1-29
1
Mentre Cesare si trovava in Gallia cisalpina e le legioni erano
state dislocate - lo si è visto sopra - negli accampamenti
invernali, di frequente gli giungevano delle voci, confermate
anche da una lettera di Labieno: tutti i Belgi, che rappresentano,
come abbiamo detto, una delle tre parti della Gallia, stavano
formando una lega contro il popolo romano e si scambiavano
ostaggi. I motivi dell'alleanza erano i seguenti. Primo, temevano
che il nostro esercito, una volta sottomessa la Gallia, li
attaccasse. Secondo, ricevevano le pressioni intanto di parecchi
Galli (c'era chi non aveva voluto la presenza dei Germani in
Gallia e, naturalmente, mal sopportava che l'esercito romano
svernasse e si impiantasse nel loro paese e c'era chi, instabile
e volubile d'animo, auspicava rivolgimenti politici) e poi di
molti altri: in tutta la Gallia generalmente i regni erano nelle
mani di chi aveva più potere e disponeva dei mezzi per assoldare
un esercito, e costoro, sotto il nostro dominio, non riuscivano
così facilmente a raggiungere i loro scopi.
2
Le notizie e la lettera di Labieno spinsero Cesare ad arruolare
in Gallia cisalpina due nuove legioni, e il legato Q. Pedio, all'inizio
dell'estate, ricevette l'incarico di condurle in Gallia
transalpina. Cesare stesso raggiunse l'esercito non appena
cominciò a esservi foraggio a sufficienza. Ai Senoni e agli
altri Galli confinanti con i Belgi diede incarico di informarsi e
di comunicargli che cosa i Belgi stessero preparando. Tutti,
concordemente, gli riferirono che erano in corso reclutamenti e
che le truppe venivano concentrate in un sol luogo. Solo allora
Cesare ritenne che non c'era da esitare a muovere contro di loro.
Preparate le scorte di grano, toglie le tende e in circa quindici
giorni giunge nella regione dei Belgi.
3
Il suo arrivo fu improvviso e più rapido di ogni previsione. I
Remi, il popolo belga più vicino alla Gallia, gli inviarono in
veste di ambasciatori Iccio e Andocumborio, i più insigni tra i
cittadini: si ponevano con tutti i loro beni sotto la protezione
e l'autorità del popolo romano; non avevano condiviso i
sentimenti degli altri Belgi, né aderito alla lega contro Roma;
erano pronti a consegnare ostaggi, a eseguire gli ordini, ad
accogliere i soldati romani nelle loro città. a rifornirli di
grano e di tutto il necessario; gli altri Belgi erano già in
armi e a essi si erano uniti i Germani stanziati al di qua dei
Reno; li aveva presi tutti una smania e follia tale, che i Remi
non erano riusciti a dissuadere neanche i Suessioni, dei fratelli,
dei consanguinei: eppure avevano in comune leggi e diritto,
dipendevano da un unico comandante militare e magistrato civile.
4
Cesare chiese ai Remi quanti e quali popoli si trovassero in armi
e quanto valessero in guerra. Ecco che cosa seppe: la maggior
parte dei Belgi discendeva dai Germani; anticamente avevano
varcato il Reno attratti dalla fertilità della regione e l'avevano
occupata, scacciando i Galli che l'abitavano; all'epoca dei
nostri padri erano stati gli unici a impedire ai Cimbri e ai
Teutoni, che avevano messo a ferro e fuoco tutta la Gallia, di
penetrare nei loro territori; perciò, memori di tale impresa, i
Belgi si attribuivano un'enorme importanza ed erano molto fieri
della loro forza militare. Circa il numero dei partecipanti alla
lega, i Remi sostenevano di avere tutti dati sicuri, perché
grazie ai legami di vicinanza e parentela sapevano quanti uomini
ciascun popolo avesse promesso per la guerra nell'assemblea
generale dei Belgi. I più potenti per valore, prestigio e numero
erano i Bellovaci, in grado di mettere insieme un esercito di
centomila uomini; ne avevano promessi sessantamila scelti e
chiedevano il comando supremo delle operazioni. Loro confinanti
erano i Suessioni, che possedevano territori molto estesi e
fertili. Fu loro re, anche ai nostri giorni, Diviziaco, il
sovrano più potente di tutta la Gallia, sotto il cui dominio
erano cadute molte regioni del paese e, addirittura, la Britannia;
ora regnava Galba: a lui, uomo giusto e saggio, era stato
conferito il comando supremo per unanime consenso; le loro città
erano dodici ed essi si erano impegnati a fornire cinquantamila
uomini, come pure i Nervi, che tra i Belgi erano i più lontani e
avevano fama di essere i più indomiti; gli Atrebati ne avevano
promesso quindicimila, gli Ambiani diecimila, i Morini
venticinquemila, i Menapi settemila, i Caleti diecimila,
altrettanti i Veliocassi e i Viromandui, gli Atuatuci
diciannovemila; inoltre, si pensava che i Condrusi, gli Eburoni,
i Cerosi e i Pemani, complessivamente designati con il nome di
Germani, avrebbero fornito circa quarantamila soldati.
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Cesare incoraggiò i Remi e rivolse loro parole di benevolenza.
Ordinò che tutti i senatori si recassero da lui e che gli
fossero consegnati in ostaggio i figli dei più nobili. Tutte le
sue disposizioni vennero puntualmente eseguite nel giorno fissato.
Cesare moltiplicò le pressioni sull'eduo Diviziaco, spiegandogli
quanto fosse vitale, per la repubblica e l'interesse di tutti,
tenere divise le forze nemiche, per non dover affrontare in un
solo scontro un esercito così numeroso. E ciò era possibile se
gli Edui avessero invaso i territori dei Bellovaci, incominciando
a devastarli. Affidatogli tale incarico, lo congedò. Quando vide
che tutte le truppe dei Belgi, concentrate in un unico luogo,
muovevano contro di lui e apprese, su informazione dei Remi e
degli esploratori inviati, che i nemici erano ormai vicini, si
affrettò a tradurre l'esercito al di là del fiume Aisne, che si
trova nei più lontani territori dei Remi, e qui si attestò. Così
difendeva un lato dell'accampamento per mezzo della riva del
fiume, metteva al riparo dai nemici la zona alle sue spalle e
garantiva la sicurezza dei rifornimenti inviati dai Remi e dagli
altri popoli. Sul fiume c'era un ponte. Su una sponda pone un
presidio e lascia, sull'altra, il legato Q. Titurio Sabino con
sei coorti. Dà ordine di fortificare l'accampamento con un vallo
di dodici piedi d'altezza e una fossa larga diciotto.
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A otto miglia di distanza dall'accampamento sorgeva una città
dei Remi, chiamata Bibrax. Appena giunti sul posto, i Belgi
cominciarono a stringerla d'assedio con accanimento. Per quel
giorno la città, a stento, resistette. I Belgi usano la stessa
tecnica di assedio dei Galli: circondano il perimetro delle mura
con un gran numero di uomini e da ogni parte iniziano a lanciare
pietre, costringendo i difensori ad abbandonare i propri posti;
poi formano la testuggine, incendiano le porte e abbattono le
mura. E a Bibrax una tale tecnica era facilmente attuabile: gli
attaccanti che scagliavano pietre e dardi erano così numerosi,
che nessuno dei difensori poteva rimanere sulle mura. L'arrivo
della notte costrinse i Belgi a interrompere l'assedio. Il Remo
Iccio, persona di nobilissima stirpe, che godeva di molta
influenza tra i suoi e all'epoca era capo della città, inviò a
Cesare un messo, uno degli ambasciatori già mandati per chiedere
la pace: se non gli pervenivano aiuti da Cesare, non era in grado
di resistere più a lungo.
7
Cesare, nel cuore della notte, di rinforzo agli abitanti manda
truppe della Numidia, arcieri cretesi e frombolieri delle Baleari,
sotto la guida dei messi inviati da Iccio. L'arrivo dei Romani
riaccese le speranze dei difensori e la loro voglia di combattere,
mentre per lo stesso motivo gli assedianti disperarono di poter
prendere Bibrax. Perciò, rimasero per un certo periodo nei
pressi della città, devastando i campi dei Remi e incendiando
tutti i villaggi e gli edifici che avevano potuto raggiungere,
poi, al gran completo, puntarono sul campo di Cesare e posero le
tende a meno di due miglia di distanza. Il loro accampamento, a
giudicare dal fumo e dai fuochi accesi, si estendeva per più di
otto miglia.
8
In un primo tempo, considerando sia il numero dei nemici, sia la
loro fama di soldati estremamente valorosi, Cesare decise di
evitare lo scontro aperto. Ogni giorno, però, con attacchi di
cavalleria saggiava il valore dei nemici e il coraggio dei Romani.
Si rese conto che i nostri non erano inferiori. Il terreno di
fronte all'accampamento era vantaggioso e adatto per schierare l'esercito,
perché il colle su cui si trovava il nostro campo sovrastava
leggermente la pianura, si estendeva per uno spazio equivalente a
quello che poteva occupare l'esercito in formazione da
combattimento, aveva entrambi i fianchi scoscesi e la cima
arrotondata, che digradava dolcemente verso la pianura. Perciò
ordinò di scavare, alla base di entrambi i fianchi del colle,
due fosse trasversali di circa quattrocento passi, in cima alle
quali comandò di costruire ridotte e collocare macchine da
lancio: voleva evitare che, una volta dispiegate le truppe, i
nostri durante la battaglia venissero aggirati dal nemico, che
era così numeroso. Attuate tali disposizioni, lasciò nell'accampamento,
pronte a intervenire in caso di necessità, le due legioni
arruolate per ultime e schierò di fronte al campo le altre sei.
Allo stesso modo i nemici fecero uscire le loro truppe e le
disposero per lo scontro.
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Tra il nostro esercito e il nemico c'era una palude non molto
estesa. I Belgi aspettavano i Romani al varco; i nostri, invece,
si tenevano armati, pronti ad assalire il nemico in difficoltà,
se avesse tentato per primo il passaggio. Nel frattempo, le
cavallerie dei due eserciti si scontravano. Nessuno osò
attraversare per primo il fiume, perciò, dopo che i nostri
cavalieri ebbero la meglio, Cesare ricondusse i suoi nell'accampamento.
I nemici si diressero immediatamente al fiume Aisne, che scorreva
- lo si è già detto - dietro il nostro campo. Trovati alcuni
guadi, tentarono di tradurre sull'altra sponda parte delle truppe.
La loro intenzione era, nel migliore dei casi, di espugnare la
ridotta comandata dal legato Q. Titurio e di distruggere il ponte,
altrimenti di devastare i campi dei Remi, che per noi erano di
vitale importanza al fine di proseguire la guerra, e di tagliarci
i rifornimenti.
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Cesare, informato della situazione da Titurio, portò tutta la
cavalleria, i Numidi armati alla leggera, i frombolieri e gli
arcieri al di là del ponte e marciò contro il nemico. Lo
scontro fu violento. I nostri li assalirono mentre stavano
attraversando il fiume ed erano in difficoltà. Ne uccisero la
maggior parte e respinsero con un nugolo di frecce gli altri che,
con estrema audacia, tentavano di passare sui corpi dei caduti,
circondarono con la cavalleria e uccisero i primi giunti sull'altra
sponda. I nemici si resero conto di non aver più speranze di
espugnare la città, né di attraversare il fiume e videro che i
nostri non avanzavano, per dare battaglia, su un terreno
sfavorevole. Perciò, dato che anche le loro scorte di grano
incominciavano a scarseggiare, convocarono l'assemblea e decisero
che la cosa migliore era tornare tutti in patria. Sarebbero
accorsi in difesa del primo popolo attaccato dai Romani: così
avrebbero combattuto nei propri territori, non in quelli altrui,
e si sarebbero serviti delle scorte di grano che avevano in
patria. Giunsero a tale decisione, tra l'altro, perché avevano
saputo che Diviziaco e gli Edui si stavano avvicinando ai
territori dei Bellovaci. E non si poteva convincere questi ultimi
ad attardarsi e a non soccorrere i loro.
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Presa la decisione, prima di mezzanotte i Belgi lasciarono l'accampamento
con grande strepito e tumulto, senza seguire ordini precisi o
comandanti. Ognuno voleva raggiungere la testa della colonna e si
affrettava a rientrare in patria, tanto che la loro partenza
sembrava piuttosto una fuga. Gli osservatori riferirono
immediatamente il fatto a Cesare, ma egli, temendo una trappola,
poiché non aveva ancora capito il motivo della loro partenza,
trattenne l'esercito e la cavalleria nell'accampamento. All'alba,
quando gli esploratori confermarono la notizia, Cesare mandò in
avanti tutta la cavalleria agli ordini dei legati Q. Pedio e L.
Aurunculeio Cotta, col compito di ostacolare la retroguardia
nemica. Ordinò al legato T. Labieno di seguirli con tre legioni.
I soldati romani assalirono la retroguardia avversaria e
protrassero l'inseguimento per molte miglia, facendo strage dei
Belgi in fuga. Gli ultimi della colonna nemica, raggiunti, si
fermarono e ressero con vigore all'urto dei nostri; i primi,
invece, ritenendosi fuori pericolo e non essendo trattenuti né
dalla necessità, né da comandanti, non appena udirono i clamori
della battaglia, ruppero l'ordine di marcia e si diedero tutti
alla fuga, cercando di salvarsi. Così, senza correre alcun
pericolo, i nostri uccisero tanti nemici, quanti ne consentì la
durata del giorno. Al tramonto posero fine al loro inseguimento e,
secondo gli ordini ricevuti, rientrarono all'accampamento.
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L'indomani, prima che i nemici potessero riaversi dal terrore e
dallo scompiglio della fuga, Cesare condusse l'esercito nei
territori dei Suessioni, al confine con i Remi, giungendo a marce
forzate alla città di Novioduno. Appena giunto sul posto, tentò
di espugnarla, perché si diceva che era sguarnita, ma la
larghezza del fossato e l'altezza delle mura non gli permisero di
impadronirsene, nonostante che i difensori fossero realmente
pochi. Forfificato l'accampamento, provvide a spingere in avanti
le vinee e a preparare tutto ciò che serve ad un assedio. Nel
frattempo, la notte successiva rientrarono in città tutti i
Suessioni che si erano dati alla fuga. Vedendo che i Romani
rapidamente accostavano le vinee, innalzavano un terrapieno e
costruivano delle torri, i Suessioni, scossi sia dall'imponenza
delle opere costruite, mai viste o di cui non avevano mai sentito
parlare prima, sia dalla rapidità dei Romani, mandano a Cesare
un'ambasceria per offrire la resa. Su richiesta dei Remi,
ottengono salva la vita.
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Cesare, ricevuti in ostaggio i cittadini più nobili, tra cui due
figli del re Galba stesso, dopo la consegna di tutte le armi che
vi erano in città, accettò la resa dei Suessioni e guidò l'esercito
contro i Bellovaci, asserragliati con tutti i loro beni nella
città di Bratuspanzio. Quando Cesare e le sue legioni distavano
circa cinque miglia, tutti i più anziani uscirono dalla città e
iniziarono a esprimere, a parole e con le mani protese verso
Cesare, l'intenzione di porsi sotto la sua protezione e autorità
e di non combattere contro il popolo romano. Allo stesso modo,
quando Cesare si era avvicinato alla città e poneva le tende,
dall'alto delle mura i bambini e le donne, con le mani protese,
secondo il loro costume, chiedevano pace ai Romani.
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In loro favore parlò Diviziaco, che dopo la ritirata dei Belgi
aveva rimandato in patria le truppe edue e raggiunto Cesare: i
Bellovaci in ogni circostanza si erano dimostrati alleati e amici
degli Edui; a spingere il popolo erano stati i capi con i loro
discorsi, sostenendo che gli Edui, ridotti in servitù da Cesare,
subivano umiliazioni e offese di ogni sorta; perciò, si erano
staccati dagli Edui e avevano dichiarato guerra al popolo romano.
I responsabili della decisione, consapevoli del danno provocato
alla loro gente, erano fuggiti in Britannia. Alle preghiere dei
Bellovaci, che chiedevano a Cesare clemenza e generosità, si
aggiungeva l'intercessione degli Edui. E se Cesare avesse
risparmiato i Bellovaci, avrebbe accresciuto l'autorità degli
Edui presso tutti i Belgi, che erano soliti fornire, in caso di
guerra, truppe e mezzi per farvi fronte.
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Cesare disse che, per aumentare il prestigio di Diviziaco e degli
Edui, avrebbe accolto e tenuto sotto la sua protezione i
Bellovaci. Poiché erano un popolo di grande autorità tra i
Belgi e molto numerosi, chiese seicento ostaggi. Gli furono
consegnati insieme a tutte le armi della città. Da lì passò
nella regione degli Ambiani, che senza indugio si posero con
tutti i loro beni sotto la sua autorità. Gli Ambiani confinavano
con i Nervi. Cesare prese informazioni sul carattere e sui
costumi di quest'ultimi e seppe quanto segue: i mercanti non
avevano alcun accesso e i Nervi non permettevano che si
introducessero vino o altri prodotti di lusso, perché ritenevano
che indebolissero gli animi e diminuissero la loro forza; gente
rude e molto valorosa, accusavano duramente gli altri Belgi di
essersi arresi al popolo romano e di aver rinnegato la virtù dei
padri; assicuravano che non avrebbero inviato ambascerie. né
accettato la pace, a nessuna condizione.
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Cesare, dopo tre giorni di marcia nella regione dei Nervi, veniva
a sapere dai prigionieri che il fiume Sambre non distava più di
dieci miglia dal suo accampamento: al di là del fiume si erano
attestati tutti i Nervi e aspettavano l'arrivo dei Romani insieme
agli Atrebati e ai Viromandui, loro confinanti (li avevano
persuasi, infatti, a tentare la stessa sorte in guerra);
attendevano anche le truppe degli Atuatuci, che erano in marcia;
le donne e chi, per ragioni d'età, non poteva essere impiegato
in guerra, erano stati ammassati in un luogo che le paludi
rendevano inaccessibile a un esercito.
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Avute tali informazioni, mandò in avanscoperta alcuni
esploratori e centurioni con l'incarico di scegliere una zona
adatta per accamparsi. Al seguito di Cesare c'erano parecchi
Belgi che avevano giurato sottomissione e altri Galli. Alcuni di
essi, come si seppe in seguito dai prigionieri, dopo aver
osservato l'ordine di marcia fin lì tenuto dal nostro esercito,
di notte raggiunsero i Nervi e riferirono che tra le singole
legioni procedeva un gran numero di salmerie, per cui non era
affatto difficile assalire la prima legione non appena fosse
giunta al campo, mentre le altre erano lontane e i soldati ancora
impacciati dagli zaini. Una volta messa in fuga la prima legione
e saccheggiate le salmerie, le rimanenti legioni non avrebbero
osato opporre resistenza. Un altro elemento giocava a favore del
piano degli informatori: fin dai tempi più antichi i Nervi non
avevano contingenti di cavalleria (neppure ai giorni nostri si
preoccupano di averne, ma tutta la loro forza risiede nella
fanteria); così, per ostacolare, in caso di razzia, i cavalieri
dei popoli limitrofi, incidevano gli alberi ancora giovani e li
piegavano, costringendo i rami a crescere, fitti, in senso
orizzontale; tra gli alberi, poi, piantavano rovi e arbusti
spinosi in modo che le siepi formassero una barriera simile a un
muro, impedendo non solo il passaggio, ma anche la vista. Dato
che il nostro esercito avrebbe trovato sulla sua strada tali
ostacoli, i Nervi ritennero di non dover scartare il piano
proposto.
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La conformazione naturale del luogo, scelto dai nostri per l'accampamento,
era la seguente: un colle, che digradava in modo uniforme,
scendeva fino alla Sambre, fiume di cui abbiamo già fatto cenno.
Sulla riva opposta, proprio di fronte, sorgeva un altro colle che
aveva identica pendenza: in basso, per un tratto di circa
duecento passi, era brullo, mentre sulla cima aveva fitti boschi,
impenetrabili alla vista. Qui i nemici si tenevano nascosti;
nella zona senza vegetazione, lungo il fiume, si vedevano poche
squadre di cavalleria. La profondità del fiume era di circa tre
piedi.
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Cesare, mandata in avanti la cavalleria, la seguiva con tutte le
truppe. La disposizione e l'ordine di marcia, però, erano
diversi da quelli che i Belgi avevano riferito ai Nervi. Infatti,
trovandosi in prossimità del nemico, Cesare, secondo la sua
abitudine, faceva avanzare libere da carichi le sei legioni,
ponendo dietro di esse i bagagli di tutto l'esercito; le due
legioni di recente arruolate chiudevano lo schieramento e
presidiavano le salmerie. La nostra cavalleria, insieme ai
frombolieri e agli arcieri, attraversò il fiume e si scontrò
con i cavalieri avversari. I nemici sistematicamente si
ritiravano nei boschi presso i loro e, da lì, attaccavano i
nostri, che non osavano inseguire i fuggitivi oltre il limite
segnato dalla zona pianeggiante e senza vegetazione. Nel
frattempo, le sei legioni che erano in testa, tracciato lo spazio,
iniziarono a fortificare il campo. I nemici, nascosti nelle selve,
avevano già formato le linee di attacco e le file, spronandosi
alla lotta: non appena videro i primi carri del nostro esercito -
era il segnale convenuto per l'attacco - in massa si lanciarono
in avanti e puntarono contro i nostri cavalieri. Li volsero in
fuga e dispersero con facilità, poi scesero di corsa verso il
fiume, velocissimi: sembrava quasi che fossero, nello stesso
istante, sul limitare dei boschi, nel fiume e già addosso ai
nostri. Poi, con altrettanta rapidità, salirono il colle opposto
dirigendosi contro il nostro accampamento e i legionari intenti
ai lavori di fortificazione.
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Cesare si trovò a dover far tutto contemporaneamente: inalberare
il vessillo, con cui si dava l'avviso di correre alle armi,
ordinare gli squilli di tromba, richiamare i soldati dai lavori,
comandare il rientro ai legionari che si erano un po' allontanati
in cerca di materiale, formare la linea di combattimento,
esortare i soldati e dare il segnale d'attacco. La mancanza di
tempo e l'incalzare dei nemici impedivano di eseguire la maggior
parte delle suddette operazioni. A fronte di tali difficoltà due
fattori erano d'aiuto: primo, la perizia e l'esperienza dei
nostri soldati, che, addestrati dalle precedenti battaglie, erano
in grado di imporsi da soli la condotta necessaria non meno
tranquillamente che se avessero ricevuto precise istruzioni da
altri; secondo, l'obbligo imposto da Cesare ai vari legati di non
allontanarsi dalla propria legione prima del termine dei lavori.
I legati, vista la vicinanza e la rapidità dei nemici, non
stettero ad aspettare ordini da Cesare, ma prendevano
personalmente le disposizioni che ritenevano opportune.
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Cesare, impartiti gli ordini necessari, corse a spronare i
soldati, guidato dal caso: capitò dalla decima legione. Si limitò
a incitare i soldati a ricordarsi dell'antico valore, a non
lasciarsi turbare, a reggere con vigore all'assalto nemico. Dato
che i Nervi erano quasi a tiro e i nostri potevano colpirli con
le frecce, diede il segnale d'attacco. E poi si precipitò in un'altra
direzione, sempre con lo scopo di incoraggiare i soldati, ma li
trovò che stavano già combattendo. Il tempo fu talmente breve e
i nemici così risoluti che i nostri non riuscirono non solo ad
applicare i fregi, ma neppure a mettersi in testa gli elmi o a
togliere le fodere dagli scudi. Chi tornava dai lavori si fermò
dove capitava, presso le prime insegne che vide, per non perdere
tempo alla ricerca della sua unità di appartenenza.
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L'esercito fu schierato tenendo presente non tanto i dettami
della tecnica militare, quanto la conformazione naturale del
luogo, il pendio del colle e le circostanze. Le legioni, operando
separate, resistevano ai nemici in zone diverse. Siepi fittissime,
come si è detto in precedenza, erano frapposte e impedivano la
vista. Non era possibile predisporre adeguati contingenti di
riserva e provvedere alle necessità di ciascun settore, era
esclusa l'unità di comando. Perciò, in tanta disparità di
situazioni, era inevitabile che la fortuna giocasse ruoli diversi
sul campo di battaglia.
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I soldati della nona e della decima legione, schierati all'ala
sinistra, lanciarono i giavellotti e respinsero rapidamente i
nemici che avevano di fronte, gli Atrebati, rimasti senza fiato
per la corsa e sfiniti dalle ferite; li costrinsero a retrocedere
dall'alto fino al fiume e qui, mentre tentavano il guado e si
trovavano in difficoltà, li inseguirono con le spade in pugno e
ne fecero strage. Poi senza esitazione attraversarono il fiume e
avanzarono, anche se la posizione era sfavorevole; i nemici, a
loro volta, opposero resistenza, riaprendo la battaglia, ma i
nostri li volsero in fuga. E anche in un altro settore, due
legioni, l'undicesima e l'ottava, agendo separatamente, avevano
respinto dalla sommità del colle i Viromandui, con i quali si
erano scontrate, e combattevano ormai sulla riva del fiume. Ma
quasi tutto l'accampamento sulla fronte e sulla sinistra era
rimasto sguarnito (la dodicesima legione e, non lontano, la
settima avevano preso posto all'ala destra), perciò lì
puntarono tutti i Nervi in formazione compatta, sotto la guida di
Boduognato, il comandante in capo. Parte di essi iniziò una
manovra di aggiramento per sorprendere le legioni dal fianco
scoperto, parte si diresse verso la sommità del nostro campo.
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In quel mentre, rientravano nell'accampamento i nostri cavalieri
e i fanti armati alla leggera, che a essi si erano affiancati (entrambi
erano stati messi in fuga, come avevamo detto, al primo assalto
dei Nervi). Trovandosi di fronte i nemici, si sbandarono di nuovo,
in un'altra direzione. I caloni, invece, che dalla porta decumana
e dalla sommità del colle avevano visto i nostri, vittoriosi,
portarsi oltre il fiume, uscivano dall'accampamento per far
bottino, ma, dopo essersi voltati e aver scorto i nemici nel
nostro campo, scapparono precipitosamente. Nello stesso istante
si levavano le grida e gli strepiti degli addetti alle salmerie:
in preda al panico, si lanciarono dove capitava. Scossi da tale
confusione, i cavalieri dei Treveri, che pure rispetto agli altri
Galli godono di una fama di straordinario valore e che erano
stati mandati dal loro popolo a Cesare come rinforzo, quando
videro il campo romano pieno di nemici, le legioni pressate da
vicino e quasi circondate, i caloni, i cavalieri, i frombolieri e
i Numidi dispersi in fuga disordinata, si diressero in patria,
convinti che la nostra situazione fosse disperata; al loro popolo
annunciarono che i Romani erano stati sconfitti e debellati e che
i nemici si erano impossessati dell'accampamento e delle salmerie.
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Cesare, terminato il suo discorso alla decima legione, si diresse
verso l'ala destra, dove vide che i suoi erano alle strette e che
i soldati della dodicesima legione, vicini l'uno all'altro, si
impacciavano a vicenda, perché le insegne erano state raccolte
in un sol luogo; tutti i centurioni e un vessillifero della
quarta coorte erano caduti, il vessillo perduto, quasi tutti i
centurioni delle altre coorti morti o feriti; tra di essi il
primipilo P. Sestio Baculo, soldato di grandissimo valore, non
riusciva più a reggersi in piedi, sfinito com'era dalle numerose
e gravi ferite; gli altri andavano esaurendo le forze e alcuni
della retroguardia, rimasti senza comandanti, lasciavano la
mischia e si sottraevano ai colpi; il nemico non cessava di
avanzare dal basso frontalmente e di premere dai lati. Quando
vide che la situazione era critica e che non aveva truppe di
rincalzo, prese lo scudo a un soldato della retroguardia (perché
era giunto fin lì senza), avanzò in prima linea, si rivolse ai
centurioni chiamandoli per nome, uno per uno, arringò i soldati
e diede l'ordine di muovere all'attacco e di allargare i manipoli,
perché i nostri potessero usare le spade con maggior facilità.
Il suo arrivo infuse fiducia nei soldati e restituì loro il
coraggio: ciascuno, pur in una situazione di estremo pericolo,
voleva dar prova di valore agli occhi del comandante, per cui l'impeto
dei nemici per un po' venne frenato.
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Cesare, quando si accorse che anche la settima legione, lì a
fianco, era in difficoltà, comandò ai tribuni militari di
avvicinare gradualmente le due legioni e, operata una conversione,
di muovere all'assalto. La manovra permise ai soldati di aiutarsi
reciprocamente e i nostri, adesso che non temevano più l'accerchiamento,
iniziarono a resistere con maggior coraggio e a combattere con più
vigore. Nel frattempo, i soldati delle due legioni della
retroguardia, che presidiavano le salmerie, non appena ebbero
notizia dello scontro, raggiunsero di corsa la cima del colle e lì
apparvero ai nemici. E T. Labieno, conquistato il campo dei Nervi,
dopo aver visto dall'alto che cosa stava accadendo nel nostro,
mandò in rinforzo la decima legione. Dalla fuga dei cavalieri e
dei caloni i soldati si resero conto di come stavano le cose e di
quale minaccia incombesse sul campo, sulle legioni e sul
comandante e si impegnarono al massimo per arrivare al più
presto.
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Il loro arrivo capovolse la situazione: perfino i nostri feriti
si rialzavano da terra appoggiandosi agli scudi e riprendevano a
combattere. I caloni, avendo visto i nemici impauriti,
affrontavano anche disarmati chi era armato. I cavalieri, poi,
per cancellare la vergogna della fuga con una prova di valore, in
tutte le zone dello scontro precedevano i legionari. Ma i nemici,
anche ridotti quasi alla disperazione, diedero prova di
grandissimo valore, al punto che i soldati delle seconde file
salivano sui corpi dei primi caduti e da lì combattevano;
abbattuti anch'essi, si formavano mucchi di cadaveri, dai quali i
superstiti, come da un tumulo, lanciavano frecce sui nostri e
scagliavano indietro i giavellotti da essi intercettati. Non era
da ritenersi senza ragione che uomini così valorosi avessero
osato attraverso un fiume larghissimo, scalare un monte tanto
alto e muovere all'attacco da una posizione assolutamente
sfavorevole: il loro eroismo aveva reso facili delle imprese
estremamente difficili.
28
Con la battaglia era pressoché annientata la stirpe e il nome
dei Nervi. I più anziani, che con le donne e i bambini, come si
era detto, si trovavano negli stagni e nelle paludi, non appena
seppero l'esito dello scontro, considerando che nulla avrebbe
ostacolato i vincitori o tutelato i vinti, con il consenso di
tutti i superstiti mandarono a Cesare dei messi e si arresero.
Menzionando la disfatta subita, gli dissero che di seicento
senatori tre soli erano sopravvissuti e che di sessantamila
uomini in grado di combattere se ne erano salvati a malapena
cinquecento. Cesare, per render palese la sua clemenza nei
confronti dei miseri e dei supplici, li tutelò con ogni cura,
permise ai Nervi di mantenere territori e città, ingiunse ai
popoli limitrofi e ai loro alleati di non provocare offese o
danni.
29
Gli Atuatuci - ne abbiamo parlato prima - stavano accorrendo con
l'esercito al completo in aiuto dei Nervi, ma, non appena fu loro
riferito l'esito dello scontro, senza neppure fermarsi
rientrarono in patria. Abbandonata ogni città o torre
fortificata, si asserragliarono con tutti i loro beni in una sola
roccaforte, molto ben difesa per posizione naturale. Da ogni lato
la circondavano altissime rupi, da dove la vista dominava; in un
solo punto si apriva un accesso, in lieve pendio, non più largo
di duecento passi: lo avevano fortificato con un duplice muro,
altissimo, e ora vi collocavano massi enormi e travi molto
acuminate. Gli Atuatuci discendevano dai Cimbri e dai Teutoni, i
quali all'epoca della loro penetrazione nella nostra provincia e
in Italia avevano lasciato al di qua del Reno le salmerie che non
si potevano portare dietro, affidandole a seimila dei loro,
incaricati di custodirle e proteggerle. Costoro, dopo l'annientamento
dei Cimbri e dei Teutoni, per molti anni tormentati dai popoli di
confine, sostennero guerre attaccando o difendendosi. Fatta la
pace, con il consenso generale delle genti limitrofe, si erano
scelti come sede la regione in cui si trovavano.
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