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Cesare
De Bello Gallico
libro II, cap 30-35

30
In un primo tempo, dopo l'arrivo del nostro esercito, gli Atuatuci effettuavano spesso sortite e si misuravano con i nostri in scaramucce di poco conto; in seguito, quando vennero circondati da un vallo di quindici miglia di perimetro con numerose ridotte, si tenevano entro le mura della città. Le vinee erano già state spinte in avanti e il terrapieno costruito; ma, quando videro che stavamo preparando, lontano, una torre, dalle mura incominciarono subito a deriderci e a gridare perché mai un marchingegno così grande veniva costruito a tanta distanza: su quali mani e quale forza i Romani, piccoletti com'erano (tutti i Galli, infatti, per lo più disprezzano la nostra statura a confronto dell'imponenza del loro fisico), facevano conto per avvicinare alle mura una torre così pesante?

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Quando, però, videro che la torre veniva mossa e si avvicinava alle mura, scossi dallo spettacolo, per loro nuovo e inusitato, mandarono a Cesare, per offrire la resa, degli emissari che si espressero nei termini seguenti: erano convinti che i Romani, capaci di muovere tanto rapidamente un marchingegno così alto, dovevano godere, in guerra, dell'aiuto divino, perciò essi si sottomettevano con tutti i propri beni alla loro autorità. Avevano una sola richiesta, una supplica: se mai Cesare avesse deciso di risparmiarli dando ancora prova della clemenza e mitezza di cui avevano sentito parlare, lo pregavano di non essere privati delle armi. Quasi tutti i popoli limitrofi erano loro nemici e invidiavano il loro valore; una volta consegnate le armi, non avrebbero potuto difendersi. Preferivano, se dovevano esserne costretti, subire dal popolo romano qualsiasi punizione anziché morire tra i tormenti per mano di gente su cui erano abituati a comandare.

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Alle loro richieste Cesare rispose: avrebbe risparmiato il popolo degli Atuatuci, per proprio costume più che per loro merito, se si fossero arresi prima che l'ariete avesse toccato le mura: ma l'unica condizione di resa era la consegna delle armi. Si sarebbe regolato come con i Nervi, ordinando ai popoli confinanti di non infliggere torti a chi si era arreso al popolo romano. Le parole di Cesare furono riferite e gli Atuatuci si dichiararono disposti a obbedire. Dal muro gettarono nel fosso, che correva davanti alla città, una tale quantità di armi, che il cumulo raggiungeva quasi la sommità del muro e l'altezza del nostro terrapieno: e tuttavia - lo si scoprì in seguito - si erano tenuti e avevano nascosto in città circa un terzo delle armi. Aperte le porte, per quel giorno rimasero tranquilli.

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Verso sera Cesare ordinò che le porte venissero chiuse e che i soldati romani lasciassero la città, perché non si verificassero atti di violenza nei confronti della popolazione. Gli Atuatuci, come si capì in seguito, avevano architettato un piano, pensando che i nostri, dopo la resa, avrebbero tolto i presidi o, almeno, avrebbero allentato la sorveglianza. Perciò, con le armi che si erano tenute e avevano nascosto oppure con scudi di corteccia o vimini intrecciati, ricoperti di pelli sul momento, come richiedeva l'esiguo tempo a disposizione, dopo mezzanotte tentarono in massa un'improvvisa sortita, puntando contro le nostre fortificazioni per la via meno erta. Rapidamente, come da ordine precedente di Cesare, furono fatte segnalazioni coi fuochi e dalle ridotte più vicine accorsero i nostri. Il nemico si batté con accanimento, come si addice a guerrieri valorosi che, costretti a lottare, nel momento estremo e in una posizione difficile, contro avversari che scagliavano su di loro frecce dal vallo e dalle torri, ripongono ogni speranza di salvezza solo nel proprio valore. Ne furono uccisi circa quattromila, gli altri vennero ricacciati in città. Il giorno seguente furono abbattute le porte, ormai sguarnite, e i nostri soldati entrarono in città. Cesare vendette all'asta tutto quanto il bottino. I compratori gli riferirono il numero dei prigionieri: cinquantatremila.

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Nello stesso tempo P. Crasso, che era stato mandato con una legione nelle terre dei Veneti, degli Unelli, degli Osismi, dei Coriosoliti, degli Esuvi, degli Aulerci e dei Redoni, popoli marittimi che si affacciano sull'Oceano, informò Cesare di averli sottomessi tutti all'autorità e al dominio di Roma.

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Portate a termine tali imprese e pacificata la Gallia, si diffuse tra i barbari una tale fama di questa guerra, che i popoli d'oltre Reno inviarono a Cesare ambascerie impegnandosi alla consegna di ostaggi e all'obbedienza. Cesare, che aveva fretta di partire per l'Italia e l'Illirico, invitò i messi delle legazioni a ripresentarsi all'inizio dell'estate successiva. E, condotte le legioni negli accampamenti invernali, nelle terre dei Carnuti, degli Andi, dei Turoni e dei popoli vicini ai luoghi in cui avevano combattuto, se ne partì per l'Italia. In seguito alle sue imprese, comunicate per lettera da Cesare stesso, furono decretati quindici giorni di feste solenni di ringraziamento, onore mai tributato a nessuno prima di allora.

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