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Cesare
De Bello Gallico
libro III, cap 1-
29
1
Cesare, partendo per l'Italia, mandò Servio Galba con la
dodicesima legione e parte della cavalleria nei territori dei
Nantuati, dei Veragri e dei Seduni, che dalla regione degli
Allobrogi, dal lago Lemano e dal Rodano raggiungono la cima delle
Alpi. Lo scopo era di aprire la via attraverso le Alpi, che i
mercanti di solito percorrevano sottoposti a gravi rischi e
pesanti dazi. Cesare diede a Galba il permesso di svernare con la
legione in quei luoghi, se lo avesse ritenuto opportuno. Galba
riportò alcuni successi in battaglia ed espugnò parecchie
fortezze nemiche: tutti i popoli della zona gli mandarono
ambascerie. Ricevuti gli ostaggi e conclusa la pace, decise di
stanziare nelle terre dei Nantuati due coorti, mentre con le
rimanenti pose i quartieri d'inverno in un villaggio dei Veragri,
Octoduro, situato in una valle a cui si aggiunge una modesta
pianura, chiuso tutt'intorno da monti altissimi. Dato che un
fiume divideva il villaggio in due parti, una Galba la concesse
ai Galli, perché vi svernassero, ma l'altra ordinò di evacuarla
e la riservò alle sue coorti. Fortificò il sito con un vallo e
un fossato.
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Galba, trascorsi già parecchi giorni nell'accampamento invernale,
aveva dato ordine di consegnare le scorte di grano, quando
improvvisamente seppe dagli esploratori che, di notte, tutta la
popolazione aveva abbandonato la parte di villaggio concessa ai
Galli e che i monti sovrastanti erano nelle mani di una massa
enorme di Seduni e Veragri. Le cause che avevano spinto i Galli a
prendere repentinamente la decisione di riaprire le ostilità e
di cogliere di sorpresa la nostra legione erano molteplici: primo,
disprezzavano lo scarso numero dei nostri - la legione, in
effetti, non era al completo, perché le mancavano due coorti e
molti soldati che, a piccoli gruppi, erano stati mandati in cerca
di viveri; secondo, ritenevano che i nostri, in posizione
svantaggiosa com'erano, non avrebbero potuto reggere neppure al
primo assalto, quando essi, scagliando dardi, si fossero lanciati
all'attacco dai monti verso valle. A ciò si aggiungeva il
risentimento per i loro figli sottratti come ostaggi e la
convinzione che i Romani cercassero di occupare le cime delle
Alpi non tanto per aprire una via, quanto per prendere
definitivamente possesso delle loro regioni, annettendole alla
nostra provincia, che con esse confinava.
3
I lavori e l'opera di fortificazione del campo non erano stati
ultimati, né si era provveduto a sufficienti scorte di grano o
di viveri, dato che non si vedeva motivo, dopo la resa e la
consegna degli ostaggi, di temere una guerra. Galba, messo al
corrente della situazione, convocò d'urgenza i membri del
consiglio di guerra e chiese il loro parere. Il pericolo, grave e
repentino, era giunto contro ogni aspettativa: quasi tutti i
monti circostanti, ormai, brulicavano di nemici in armi, lo si
vedeva; non potevano pervenire, con le vie di comunicazione
tagliate, né rinforzi, né viveri. Perduta, ormai, ogni speranza
di salvezza, durante il consiglio alcuni espressero la proposta
di lasciare i bagagli e di tentare, con una sortita, di porsi in
salvo per la via da cui erano giunti. La maggioranza, però,
decise di riservare tale piano in caso di necessità estrema,
limitandosi per il momento a valutare come si metteva la faccenda
e a difendere campo.
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Poco dopo - si ebbe appena il tempo di approntare le cose e di
eseguire gli ordini impartiti - i nemici, al segnale di attacco,
si slanciarono in avanti da tutte le direzioni, scagliando pietre
e gese contro il vallo. In un primo tempo i nostri, quando ancora
erano nel pieno delle forze, li contrastarono con vigore: dall'alto
nessuna freccia falliva il bersaglio ed essi accorrevano e
portavano aiuto dove l'accampamento, sguarnito di difensori,
appariva in pericolo. Ma, prolungandosi la battaglia, apparve
chiaro in che cosa eravamo inferiori: i nemici stanchi uscivano
dalla mischia, lasciando il posto a forze fresche; i nostri,
pochi com'erano, non avevano modo di darsi il cambio, anzi, non
solo non veniva concesso di allontanarsi dalla battaglia a chi
era stanco, ma neppure i feriti avevano la possibilità di
abbandonare il proprio posto e di ritirarsi.
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Si combatteva, ininterrottamente, ormai da più di sei ore e ai
nostri venivano a mancare, oltre alle forze, anche le frecce. I
nemici, premendo con impeto ancora maggiore sui legionari, sempre
più spossati, avevano iniziato ad abbattere il vallo e a
riempire il fossato. La situazione era ormai agli estremi. P.
Sestio Baculo, centurione primipilo - abbiamo prima ricordato che,
durante la guerra con i Nervi, aveva riportato numerose ferite -
e anche C. Voluseno, tribuno militare, uomo di grande saggezza e
valore, si precipitano da Galba per dirgli che restava un'unica
speranza: tentare una sortita come ultimo rimedio. Così,
convocati i centurioni, Galba dà rapidamente ordine ai legionari
di sospendere per il momento lo scontro e di limitarsi a evitare
i dardi nemici e a riprendere fiato: poi, al segnale, dovevano
erompere dall'accampamento e porre ogni speranza di salvezza nel
proprio valore.
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I legionari eseguono gli ordini e si lanciano immediatamente all'attacco
da tutte le porte, senza lasciare al nemico la possibilità di
capire che cosa stesse accadendo o di riorganizzarsi. Così,
capovolte le sorti, accade che i nemici, già sicuri di aver in
pugno l'accampamento romano, vengono invece circondati da ogni
parte e uccisi. Degli oltre trentamila uomini (tanti risultavano
i barbari che avevano partecipato all'assedio dell'accampamento
romano), i nostri ne uccidono più di un terzo, costringendo alla
fuga gli altri, in preda al panico, senza permettere loro neppure
di attestarsi sulle alture. Così, messe in rotta e private delle
armi le forze nemiche, i legionari si ritirano nell'accampamento
e nelle fortificazioni. Dopo la battaglia, Galba non voleva
mettere ulteriormente alla prova la fortuna, si ricordava di aver
posto i quartieri d'inverno con ben altre intenzioni e vedeva di
essere incorso in circostanze ben diverse. Perciò, spinto
soprattutto dalla mancanza di grano e di viveri, il giorno
successivo diede fuoco a tutti gli edifici del villaggio e si
incamminò sulla via del ritorno, verso la provincia; senza che
il nemico gli sbarrasse la strada o ne rallentasse la marcia,
guidò la legione nei territori dei Nantuati e, quindi, degli
Allobrogi dove passò l'inverno.
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Dopo tali eventi, Cesare aveva tutti i motivi di ritenere la
Gallia sottomessa: erano stati battuti i Belgi, scacciati i
Germani, vinti i Seduni sulle Alpi. Così, all'inizio dell'inverno,
partì per l'Illirico, perché voleva conoscerne i popoli e
visitarne le regioni, ma improvvisamente in Gallia scoppiò la
guerra. Eccone il motivo: il giovane P. Crasso stava svernando
con la settima legione nei pressi dell'Oceano, nella regione
degli Andi. Visto che nella zona il frumento scarseggiava, Crasso
mandò molti prefetti e tribuni militari presso i popoli
limitrofi per procurarsi grano e viveri. Tra di essi T.
Terrasidio fu inviato presso gli Esuvi, M. Trebio Gallo presso i
Coriosoliti, Q. Velanio con T. Sillio presso i Veneti.
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I Veneti sono il popolo che, lungo tutta la costa marittima, gode
di maggior prestigio in assoluto, sia perché possiedono molte
navi, con le quali, di solito, fanno rotta verso la Britannia,
sia in quanto nella scienza e pratica della navigazione superano
tutti gli altri, sia ancora perché, in quel mare molto
tempestoso e aperto, pochi sono i porti della costa e tutti
sottoposti al loro controllo, per cui quasi tutti i naviganti
abituali di quelle acque versano loro tributi. I Veneti, per
primi, trattengono Sillio e Velanio, convinti di ottenere,
mediante uno scambio, la restituzione degli ostaggi consegnati a
Crasso. Influenzati dall'autorità dei Veneti, dato che le
decisioni dei Galli sono improvvise e repentine, anche i popoli
limitrofi trattengono Trebio e Terrasidio con le stesse
intenzioni. Vengono stabiliti, rapidamente, dei contatti: i
principi stringono patti per non prendere, se non di comune
accordo, nessuna iniziativa e per affrontare insieme l'esito
della sorte, qualunque fosse. Sollecitano gli altri popoli a
difendere la libertà ereditata dai loro padri piuttosto che
sopportare la schiavitù dei Romani. Ben presto tutti i popoli
della costa ne sposano la causa e mandano un'ambasceria unitaria
a P. Crasso: restituisse i loro ostaggi, se voleva riavere i suoi.
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Informato della situazione da Crasso, Cesare, trovandosi troppo
lontano, si limita a dar ordine, per il momento, di costruire
navi da guerra lungo la Loira, un fiume che sfocia nell'Oceano,
di arruolare rematori dalla provincia e di procurare marinai e
timonieri. Dopo aver rapidamente provveduto a tutto ciò, non
appena la stagione lo consentì, raggiunse l'esercito. I Veneti e
gli altri popoli, saputo del suo arrivo e rendendosi conto della
gravità del proprio operato - avevano trattenuto e gettato in
catene degli ambasciatori, il cui nome è da sempre sacro e
inviolabile presso tutte le genti - intraprendono preparativi di
guerra commisurati a un pericolo così grande, provvedendo in
particolare a tutto ciò che serve alla navigazione, con tanta
maggior speranza di successo, in quanto confidavano molto sulla
conformazione naturale del loro paese. Sapevano, infatti, che le
vie di terra erano tagliate dalle maree e che i Romani avevano
difficoltà di navigazione, per l'ignoranza dei luoghi e la
scarsità degli approdi; inoltre, confidavano che le nostre
truppe, per la mancanza di grano, non potessero trattenersi a
lungo. E anche ammesso che nessuna delle loro aspettative si
fosse realizzata, disponevano di una marina potente, mentre i
Romani mancavano di una flotta, non conoscevano neppure i
passaggi, gli approdi, le isole delle zone in cui si sarebbe
combattuto; infine - lo capivano perfettamente - era ben diverso
navigare nell'Oceano, così vasto e aperto, e in un mare chiuso.
Prese tali decisioni, fortificano le città, vi ammassano scorte
di grano provenienti dalle campagne e concentrano il maggior
numero possibile di navi lungo le coste dei Veneti, dove si
pensava che Cesare avrebbe iniziato le operazioni di guerra. Si
aggregano come alleati gli Osismi, i Lexovii, i Namneti, gli
Ambiliati, i Morini, i Diablinti e i Menapi; chiedono aiuti alla
Britannia, situata di fronte alle loro regioni.
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Abbiamo esposto le difficoltà che la guerra presentava, ma molte
erano le ragioni che spingevano Cesare allo scontro: i cavalieri
romani trattenuti contro ogni diritto, la rivolta dopo la resa,
la defezione a ostaggi consegnati, la coalizione di tante nazioni
e, soprattutto, il timore che gli altri popoli ritenessero lecito
agire come i Veneti, se egli non fosse intervenuto. A Cesare era
ben noto che, per lo più, i Galli amano i rivolgimenti e
facilmente e prontamente sono disposti a far guerra (del resto,
la natura spinge tutti gli uomini ad amare la libertà e a odiare
la condizione di asservimento). Perciò, prima che la
cospirazione si estendesse ad altri popoli, ritenne opportuno
dividere l'esercito per coprire una zona di territorio più ampia.
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Così, manda il legato T. Labieno con la cavalleria nella regione
dei Treveri, che abitano lungo il Reno. Gli dà disposizione sia
di prendere contatto con i Remi e gli altri Belgi e di tenerli a
dovere, sia di ostacolare i Germani (si diceva che i Belgi
avessero chiesto il loro aiuto), se, a forza, avessero tentato di
attraversare il fiume su navi. Ordina a P. Crasso di partire per
l'Aquitania alla testa di dodici coorti della legione e di un
buon numero di cavalieri, per evitare che i popoli aquitani
inviassero aiuti ai Galli e che nazioni così potenti si unissero.
Manda il legato Q. Titurio Sabino, alla testa di tre legioni,
nelle terre degli Unelli, dei Coriosoliti e dei Lexovi con l'ordine
di tenerne impegnate le forze. Al giovane D. Bruto affida il
comando della flotta gallica e delle navi che, dietro suo ordine,
erano state fornite dai Pictoni, dai Santoni e dalle altre
regioni pacificate. Gli ingiunge di partire alla volta dei Veneti
non appena possibile. Cesare vi si dirige con la fanteria.
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La posizione delle città dei Veneti era in genere la seguente:
situate all'estremità di lingue di terra e di promontori, erano
inaccessibili via terra quando si alzava la marea - un fenomeno
che si verifica regolarmente nell'arco di dodici ore - ma anche
le navi non potevano accostarsi, perché rimanevano incagliate
nei bassifondi quando l'acqua si ritirava: entrambi i fattori
erano di ostacolo per un assedio. E se mai, grazie a imponenti
lavori, si riusciva ad arginare il mare con un terrapieno e con
dighe, fino a raggiungere, tramite tali opere, l'altezza delle
mura, i nemici, quando incominciavano a sentirsi perduti,
facevano approdare un gran numero di navi - ne avevano moltissime
- imbarcavano tutti i loro beni e si rifugiavano nelle città
vicine, dove nuovamente potevano sfruttare gli stessi vantaggi
naturali nella difesa. Per gran parte dell'estate avevano
applicato anche più agevolmente la loro tattica, in quanto le
nostre navi erano state trattenute da tempeste e nella
navigazione trovavano enormi difficoltà, in un mare vasto e
aperto, privo di approdi o quasi.
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Le navi dei Veneti, poi, erano costruite e attrezzate come segue:
le carene erano alquanto più piatte delle nostre, per poter
resistere con maggior facilità alle secche e alla bassa marea;
le prore erano estremamente alte e così pure le poppe, adatte a
sopportare la violenza dei flutti e delle tempeste; le navi erano
completamente di rovere, capaci di resistere a qualsiasi urto e
offesa; le travi di sostegno, dello spessore di un piede, erano
fissate con chiodi di ferro della misura di un pollice; le ancore
erano legate non con funi, ma con catene di ferro; al posto delle
vele usavano pelli e cuoio sottile e morbido - forse perché non
avevano lino o non lo sapevano adoperare oppure, ed è più
probabile, perché ritenevano che le vele non potessero
agevolmente reggere alle tempeste così violente dell'Oceano, al
vento tanto impetuoso e al peso dello scafo. La nostra flotta
negli scontri poteva risultare superiore solo per rapidità e
impeto dei rematori, ma per il resto le navi nemiche erano ben più
adatte alla natura del luogo e alla violenza delle tempeste. In
effetti, le nostre non potevano danneggiare con i rostri le navi
dei Veneti, tanto erano robuste, né i dardi andavano facilmente
a segno, perché erano troppo alte; per l'identica ragione
risultava arduo trattenerle con gli arpioni. Inoltre, quando il
vento cominciava a infuriare e le navi si abbandonavano alle
raffiche, le loro riuscivano con maggior facilità a sopportare
le tempeste e a navigare nelle secche, senza temere massi o
scogli lasciati scoperti dalla bassa marea, tutti pericoli che le
nostre navi dovevano paventare.
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Cesare espugnò parecchie città, ma vedendo che tanta fatica era
vana e che non poteva impedire ai nemici di fuggire, né
danneggiarli, decise di aspettare la flotta. Non appena questa
giunse e fu avvistata, circa duecentoventi navi nemiche, assai
ben equipaggiate e perfettamente attrezzate, salparono e
affrontarono le nostre; Bruto, che comandava la flotta, non
sapeva bene che cosa fare o quale tattica adottare, e così pure
i tribuni militari e i centurioni a capo di ciascuna imbarcazione.
Sapevano che il rostro non danneggiava le navi nemiche; se anche
avessero costruito delle torri, non avrebbero comunque raggiunto
l'altezza delle poppe delle navi barbare; dal basso era più
difficile che le frecce andassero a segno, mentre i dardi
scagliati dai Galli risultavano micidiali. L'unica arma di grande
efficacia preparata dai nostri erano falci acutissime, fissate a
lunghi pali, di forma non dissimile dalle falci murali. Le falci
agganciavano le funi che assicuravano i pennoni agli alberi delle
navi, e le tiravano fino a spezzarle, quando i nostri marinai
aumentavano la spinta sui remi. Troncate le funi, i pennoni
inevitabilmente cadevano e così contemporaneamente, dato che
tutta la forza delle navi dei Galli consisteva nelle vele e nell'attrezzatura,
veniva sottratto alla flotta nemica ogni vantaggio. Il resto
dipendeva dal valore e in ciò i nostri avevano facilmente la
meglio, tanto più che si combatteva al cospetto di Cesare e di
tutto l'esercito, per cui ogni atto di un certo coraggio non
poteva rimanere nascosto: tutti i colli e le alture circostanti,
infatti, da cui la vista dominava a strapiombo sul mare, erano
occupati dal nostro esercito.
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Una volta abbattuti, come abbiamo descritto, i pennoni, ciascuna
nave nemica veniva circondata da due o tre delle nostre e i
soldati romani si lanciavano all'abbordaggio con grande impeto.
Quando i barbari se ne accorsero, già molte delle loro navi
erano state catturate; non trovando alcun mezzo di difesa contro
la tattica romana, cercavano salvezza nella fuga. Avevano già
orientato le navi nella direzione in cui soffiava il vento,
quando si verificò un'improvvisa, totale bonaccia, che impedì
loro di allontanarsi. La cosa fu del tutto favorevole per portare
a termine le operazioni: i nostri inseguirono le navi nemiche e
le catturarono una a una. Ben poche, di quante erano, riuscirono
a prender terra grazie al sopraggiungere della notte. Si era
combattuto dalle dieci circa del mattino fino al tramonto.
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La battaglia segnò la fine della guerra con i Veneti e i popoli
di tutta la costa. Infatti, tutti i giovani e anche tutti gli
anziani più assennati e autorevoli si erano là radunati e
avevano raccolto in un sol luogo ogni nave disponibile. Perduta
la flotta, i superstiti non sapevano dove rifugiarsi, né come
difendere le loro città. Perciò, si arresero con tutti i loro
beni a Cesare ed egli decise di agire con più rigore nei loro
confronti, perché i barbari, per il futuro, imparassero a
osservare con maggior scrupolo il diritto che tutela gli
ambasciatori. Così, ordinò di mettere a morte tutti i senatori
e di vendere come schiavi gli altri.
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Mentre accadono tali avvenimenti nella guerra con i Veneti, Q.
Titurio Sabino giunge nel territorio degli Unelli con le truppe
fornitegli da Cesare. Capo degli Unelli era Viridovice, che
deteneva anche il comando supremo di tutti i popoli in rivolta.
Tra di essi aveva raccolto un esercito e truppe numerose. In
pochi giorni gli Aulerci Eburovici e i Lexovi, uccisi i senatori,
che non approvavano la guerra, sbarrarono le porte delle loro
città e si allearono con Viridovice: inoltre, da ogni parte
della Gallia era giunta una gran quantità di disperati e
deliquenti, che avevano lasciato il lavoro dei campi e le
occupazioni quotidiane attratti dalla speranza di bottino e dal
desiderio di combattere. Sabino si teneva nell'accampamento, in
un luogo ottimo da tutti i punti di vista, mentre Viridovice, che
si era stanziato lì di fronte, a una distanza di due miglia,
schierava ogni giorno le sue truppe a battaglia, offrendo ai
Romani la possibilità di combattere. Così, Sabino non solo si
procurava il disprezzo dei nemici, ma non veniva risparmiato
neppure dai discorsi dei nostri soldati. A tal punto diede l'impressione
di aver paura, che i nemici osavano addirittura avanzare fino al
vallo dell'accampamento. Il motivo del suo comportamento era il
seguente: dinnanzi a tanti nemici, soprattutto in assenza del
comandante in capo, riteneva che un legato non dovesse accettare
lo scontro, se non su un terreno favorevole o in circostanze
vantaggiose.
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Sabino, quando l'impressione che avesse timore era ormai radicata,
scelse tra le truppe ausiliarie un Gallo adatto ed astuto. Con la
promessa di grandi ricompense lo convince a passare dalla parte
del nemico e gli illustra il suo piano. Il Gallo, giunto al campo
nemico fingendosi un fuggiasco, descrive il timore dei Romani,
espone le difficoltà che i Veneti procurano a Cesare e rivela
che non più tardi della notte seguente Sabino alla testa dell'esercito
avrebbe lasciato di nascosto l'accampamento e si sarebbe diretto
da Cesare per portargli aiuto. A queste notizie, tutti gridano
che non si deve lasciar perdere una simile occasione: bisogna
marciare sul campo romano. Molti elementi spingevano i Galli a
decidere in tal senso: l'esitazione di Sabino nei giorni
precedenti, la conferma del fuggiasco, le scarse riserve di
viveri, cui non avevano provvisto con la dovuta cura, la speranza
di una vittoria dei Veneti e il fatto che, in genere, gli uomini
sono inclini a credere vero ciò che desiderano. Spinti da tali
sentimenti, non permettono a Viridovice e agli altri capi di
lasciare l'assemblea prima di ottenere il consenso a prendere le
armi e ad assalire l'accampamento romano. Accordato il consenso,
lieti come se avessero già la vittoria in pugno, raccolgono
fascine e legname per riempire i fossati del campo romano e lì
si dirigono.
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L'accampamento si trovava in cima a un lieve pendio di circa
mille passi. I nemici mossero all'attacco per non dare ai Romani
il tempo di radunarsi e di prendere le armi, ma così giunsero
senza fiato. Sabino, esortati i suoi, impazienti ormai di
combattere, dà il segnale e ordina di piombare repentinamente
dalle due porte sui nemici impacciati dal carico delle fascine.
Risultò che, per la posizione a noi vantaggiosa, per l'inesperienza
e la stanchezza degli avversari, per il valore e l'addestramento
dei nostri nelle battaglie precedenti, i nemici non ressero
neppure al primo assalto e volsero subito le spalle. I nostri,
ancora freschi, li raggiunsero mentre erano in difficoltà e ne
fecero strage; i superstiti li inseguirono, i cavalieri e se ne
lasciarono sfuggire ben pochi. Così, contemporaneamente, Sabino
venne informato della battaglia navale e Cesare della vittoria
del suo legato. Immediatamente, tutti gli altri popoli si
sottomisero a Titurio. Infatti, lo spirito dei Galli è
entusiasta e pronto a dichiarare guerra, ma il loro animo è
fragile e privo di fermezza nel sopportare le disgrazie.
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All'incirca nello stesso tempo P. Crasso giunse in Aquitania,
regione che, come si è visto, deve essere considerata, per
estensione e per numero di abitanti, una delle tre parti della
Gallia. Crasso, conscio di dover affrontare un conflitto nella
regione dove, pochi anni prima, era stato ucciso il legato L.
Valerio Preconino e sconfitto il suo esercito e da dove aveva
cercato scampo il proconsole L. Manlio, dopo aver perduto le
salmerie, si rendeva conto di dover operare con non poca
attenzione. Perciò, provvide alle scorte di grano, si procurò
contingenti ausiliari e cavalleria, arruolò molti soldati
valorosi chiamati individualmente da Tolosa e Narbona, città
della limitrofa provincia romana, dopodiché penetrò nella
regione dei Soziati. Saputo del suo arrivo, i Soziati, dopo aver
radunato ingenti truppe di fanteria e la cavalleria, che
costituiva il loro punto di forza, attaccarono il nostro esercito
in marcia. Si scontrarono subito le due cavallerie: la loro venne
messa in fuga e la nostra si lanciò all'inseguimento. Allora i
nemici all'improvviso dispiegarono la fanteria, che avevano
piazzato in un vallone per tendere un'imboscata. Si gettarono
addosso ai nostri che si erano disuniti e riaccesero la mischia.
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La battaglia fu lunga e aspra: i Soziati, forti delle vittorie
del passato, ritenevano che dal loro valore dipendesse la
salvezza di tutta l'Aquitania; i nostri, invece, volevano
mostrare di che cos'erano capaci sotto la guida di un giovane,
pur senza il comandante e le altre legioni. Alla fine i nemici,
fiaccati dai colpi ricevuti, si ritirarono. Crasso ne fece strage
e, appena giunto alla città dei Soziati, la cinse d'assedio. Di
fronte all'aspra resistenza dei nemici, ricorse alle vinee e alle
torri. I Soziati tentarono prima una sortita, poi provarono a
scavare fino al terrapieno e alle vinee cunicoli (specialità in
cui gli Aquitani sono i più esperti in assoluto, perché nella
loro regione si trovano molte miniere di rame e cave di pietra).
Quando, però, si resero conto che i loro sforzi erano vanificati
dalla sorveglianza dei nostri, mandano a Crasso un'ambasceria per
offrire la resa. La loro richiesta viene accolta ed essi, dietro
suo ordine, consegnano le armi.
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Ma mentre l'attenzione dei nostri era concentrata sulla consegna
delle armi, dalla parte opposta della città tentò una sortita
Adiatuano, il capo supremo, insieme a seicento fedelissimi, i
solduri, come li chiamano i Galli. La condizione dei solduri è
la seguente: fruiscono di tutti gli agi dell'esistenza insieme
alle persone alla cui amicizia si sono votati, ma se quest'ultime
periscono in modo violento, essi devono affrontare lo stesso
destino oppure suicidarsi; finora, a memoria d'uomo, non risulta
che nessuno si sia rifiutato di morire, dopo che era stata uccisa
la persona a cui si era votato. Adiatuano, dunque, tentò una
sortita con i solduri, ma dalla zona fortificata dove si era
diretto si levarono grida e i nostri corsero alle armi. La lotta
fu accanita: alla fine Adiatuano venne ricacciato in città e
tuttavia ottenne da Crasso la resa alle stesse condizioni degli
altri.
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Ricevute armi e ostaggi, Crasso partì per la regione dei Vocati
e dei Tarusati. Allora i barbari, molto scossi per aver saputo
che una città ben fornita di difese naturali e fortificazioni
era caduta nei pochi giorni successivi all'arrivo dei Romani,
iniziarono a mandare ambascerie in tutte le direzioni, a
stringere leghe, a scambiarsi ostaggi, a mobilitare truppe.
Emissari vengono inviati anche ai popoli della Spagna citeriore,
al confine con l'Aquitania: da lì giungono rinforzi e comandanti.
Grazie al loro arrivo riescono a intraprendere le operazioni di
guerra con molta autorità e molte truppe. Come capi, poi,
scelgono gli ufficiali che erano stati sempre al fianco di Q.
Sertorio, dotati, si riteneva, di grande esperienza militare.
Costoro, secondo la tecnica dei Romani, incominciano a occupare i
punti chiave, a fortificare l'accampamento, a tagliare i
rifornimenti ai nostri. Crasso, quando si rese conto che non
poteva dividere le sue truppe, troppo esigue, mentre il nemico
aveva libertà di movimento, presidiava le vie di comunicazione,
lasciava nell'accampamento un presidio sufficiente, ostacolava i
rifornimenti di grano e di viveri per i Romani e aumentava ogni
giorno i suoi effettivi, ritenne di non dover ritardare lo
scontro. Riferite le sue intenzioni al consiglio di guerra,
quando vide che tutti condividevano il suo parere, fissò il
combattimento per il giorno seguente.
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All'alba Crasso spiegò le truppe fuori dal campo e le schierò
su duplice fila, con al centro gli ausiliari, in attesa delle
mosse del nemico. Essi, pur convinti di non correre rischi, vista
la loro superiorità numerica, la loro antica gloria militare e
le esigue forze dei nostri, tuttavia pensavano ancor più sicuro
di ottenere la vittoria, senza colpo ferire, presidiando le vie e
tagliando ai nostri i rifornimenti. Se, poi, i Romani, spinti
dalla mancanza di grano, avessero tentato la ritirata, si
proponevano di assalirli mentre, impacciati dalla marcia e dal
peso dei bagagli, erano meno ardimentosi. Tale fu il loro piano,
perciò non si mossero quando i capi romani portarono le truppe
fuori dall'accampamento. Avendo preso atto della situazione,
Crasso, visto che la tattica di attesa dei nemici, scambiata per
timore, aveva reso i nostri soldati più animosi (tutti gridavano
che non bisognava perdere altro tempo e che si doveva marciare
sul campo avversario), esortò i suoi tra il fervore generale e
puntò sui nemici.
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I nostri, parte riempiendo i fossati, parte lanciando un nugolo
di frecce, costrinsero i difensori ad abbandonare il vallo e le
fortificazioni. Pure gli ausiliari, sul cui apporto Crasso non
faceva troppo affidamento, rifornendo i soldati di pietre e
frecce e portando zolle per elevare un terrapieno, davano l'effettiva
impressione di combattere. Ma anche il nemico lottava con tenacia
e coraggio e i dardi, scagliati dall'alto, non andavano a vuoto.
A quel punto i cavalieri, che avevano fatto il giro del campo
nemico, riferirono a Crasso che la porta decumana non era
altrettanto ben difesa ed era facile penetrarvi.
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Crasso, esortati i capi della cavalleria a spronare i loro con la
promessa di grandi ricompense, espose il suo piano. Costoro,
secondo gli ordini, portarono fuori dal campo le coorti che lo
presidiavano, fresche e riposate, compirono una lunga deviazione
per non essere visti dall'accampamento nemico e, mentre gli occhi
e gli animi di tutti erano intenti alla battaglia, raggiunsero
rapidamente le fortificazioni di cui si è parlato, le
abbatterono e penetrarono nell'accampamento prima che i nemici
potessero scorgerli o capire che cosa stesse accadendo. E quando
i nostri sentirono levarsi da lì clamori, ripresero forza, come
spesso succede quando si spera di vincere, e iniziarono ad
attaccare con maggior vigore. I nemici, circondati da tutti i
lati e persa ogni speranza, cercarono di gettarsi giù dalle
fortificazioni e di darsi alla fuga. La nostra cavalleria li
inseguì nei campi, pianeggianti e privi di vegetazione: di
cinquantamila nemici - tali erano stimate le forze provenienti
dall'Aquitania e dai Cantabri - appena un quarto si mise in salvo.
I nostri cavalieri rientrarono all'accampamento a notte fonda.
27
L'eco della battaglia spinse ad arrendersi e a consegnare
spontaneamente ostaggi a Crasso la maggior parte dei popoli dell'Aquitania.
Tra di essi ricordiamo i Tarbelli, i Bigerrioni, i Ptiani, i
Vocati, i Tarusati, gli Elusati, i Gati, gli Ausci, i Garunni, i
Sibuzati e i Cocosati. Poche genti e le più lontane, confidando
nella stagione - l'inverno si stava avvicinando - trascurarono di
farlo.
28
Quasi contemporaneamente Cesare, sebbene l'estate stesse ormai
per finire, condusse l'esercito nei territori dei Morini e dei
Menapi: era convinto di poter concludere rapidamente le
operazioni contro di essi, gli unici due popoli che, in tutta la
Gallia ormai pacificata, ancora erano in armi e non gli avevano
mai mandato ambascerie per chiedere pace. I nemici adottarono una
tattica ben diversa rispetto agli altri Galli. Avevano visto che,
in campo aperto, nazioni molto potenti erano state respinte e
battute dai Romani; perciò, visto che nei loro territori si
trovavano selve e paludi a non finire, vi si radunarono con tutti
i loro averi. Cesare giunse sul limitare di quei boschi e cominciò
a fortificare il campo senza che si scorgesse l'ombra del nemico.
Di colpo, mentre i nostri, sparpagliati, erano intenti ai lavori,
i nemici sbucarono da ogni anfratto della foresta e li assalirono.
I Romani presero rapidamente le armi e li respinsero nelle
boscaglie, uccidendone molti. Ma, protratto eccessivamente l'inseguimento,
finirono in luoghi più intricati e subirono perdite di lieve
entità.
29
Nei giorni seguenti Cesare decise di disboscare la zona e, per
impedire al nemico di attaccare ai fianchi i nostri, inermi e
mentre non se l'aspettavano, dette ordine di ammassare dinnanzi
al nemico tutto il legname tagliato e di disporlo come un vallo
su entrambi i lati. In pochi giorni, con velocità incredibile,
era già stato aperto un grande varco. I nostri tenevano ormai in
pugno il bestiame e i primi bagagli dei nemici, che si ritiravano
sempre più nel cuore della foresta, quando scoppiarono temporali
così violenti, da costringere a sospendere i lavori, e le piogge
ininterrote ci impedirono di tenere più a lungo i soldati sotto
le tende. Così, incendiati tutti i campi, incendiati i villaggi
e le case isolate, Cesare ritirò l'esercito e lo acquartierò
per l'inverno nella regione degli Aulerci, dei Lexovi e degli
altri popoli che di recente gli avevano mosso guerra.
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