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Cesare
De Bello Gallico
libro IV, cap 1- 20

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L'inverno successivo, nell'anno di consolato di Cn. Pompeo e M. Crasso, gli Usipeti e pure i Tenteri, popoli germanici, con un gran numero di uomini oltrepassarono il Reno, non lontano dal mare in cui il fiume sfocia. Motivo della loro migrazione fu che, tormentati per molti anni dagli attacchi degli Svevi, si trovavano in difficoltà e non potevano coltivare i loro campi. Gli Svevi, tra tutti i Germani, sono il popolo più numeroso ed agguerrito in assoluto. Si dice che siano formati da cento tribù: ognuna fornisce annualmente mille soldati, che vengono portati a combattere fuori dai loro territori contro i popoli vicini. Chi è rimasto a casa, provvede a mantenere sé e gli altri; l'anno seguente si avvicendano: quest'ultimi vanno a combattere, i primi rimangono in patria. Così non tralasciano né l'agricoltura, né la teoria e la pratica delle armi. E non hanno terreni privati o divisi, nessuno può rimanere più di un anno nello stesso luogo per praticare l'agricoltura. Si nutrono poco di frumento, vivono soprattutto di latte e carne ovina, praticano molto la caccia. Il tipo di alimentazione, l'esercizio quotidiano e la vita libera che conducono (fin da piccoli, infatti, non sono sottoposti ad alcun dovere o disciplina e non fanno assolutamente. nulla contro la propria volontà) accrescono le loro forze e li rendono uomini dal fisico imponente. Sono abituati a lavarsi nei fiumi e a portare come vestito, in quelle regioni freddissime, solo delle pelli che, piccole come sono, lasciano scoperta gran parte del corpo.

2
Concedono libero accesso ai mercanti, più per aver modo di vendere il loro bottino di guerra che per desiderio di comprare prodotti d'importazione. Anzi, i Germani non fanno uso di puledri importati (al contrario dei Galli, che per essi hanno una vera passione e li acquistano a caro prezzo), ma sfruttano i cavalli della loro regione, piccoli e sgraziati, rendendoli con l'esercizio quotidiano robustissimi animali da fatica. Durante gli scontri di cavalleria spesso smontano da cavallo e combattono a piedi; hanno addestrato a rimanere sul posto i cavalli, presso i quali rapidamente riparano, se necessario; secondo il loro modo di vedere, non c'è niente di più vergognoso o inerte che usare la sella. Così, per quanto pochi siano, osano attaccare qualsiasi gruppo di cavalieri che montino su sella, non importa quanto numeroso. Non permettono assolutamente l'importazione del vino, perché ritengono che indebolisca la capacità di sopportare la fatica e che infiacchisca gli animi.

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Reputano vanto principale per la propria nazione che le regioni di confine, per il tratto più ampio possibile, siano disabitate: è segno che moltissimi popoli non sono in grado di resistere alla loro forza militare. A tal proposito corre voce che, in una zona di confine degli Svevi, le campagne siano spopolate per seicento miglia. Un'altra parte del loro territorio confina con gli Ubi, popolo un tempo numeroso e fiorente, per quanto possano esserlo i Germani. Gli Ubi sono un po' più civili rispetto alle altre genti della loro razza perché, vivendo lungo il Reno, sono visitati di frequente dai mercanti e, per ragioni di vicinanza, hanno assorbito i costumi dei Galli. Gli Svevi li avevano spesso affrontati in guerra, ma non erano riusciti a scacciarli dalle loro terre per via del loro numero e della loro importanza; tuttavia, li avevano costretti a versare tributi, rendendoli molto meno potenti e forti.

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Nella stessa situazione si trovarono gli Usipeti e i Tenteri, già nominati, che ressero per parecchi anni agli assalti degli Svevi, ma alla fine vennero scacciati dai loro territori e, dopo aver vagato tre anni per molte regioni della Germania, giunsero al Reno, nel paese dei Menapi che possedevano campi, case e villaggi su entrambe le rive del fiume; i Menapi, atterriti dall'arrivo di una massa così numerosa, abbandonarono gli edifici sull'altra sponda del fiume e, disposti presidi al di qua del Reno, cercavano di impedire il passaggio ai Germani. Quest'ultimi, dopo tentativi d'ogni sorta, non potendo combattere perché a corto di navi, né riuscendo a passare di nascosto per la sorveglianza dei Menapi, finsero di rientrare in patria, ma dopo tre giorni di cammino tornarono indietro: in una sola notte la cavalleria coprì tutto il tragitto e piombò inattesa sugli ignari Menapi, che erano rientrati nei loro villaggi d'oltre Reno senza timore, perché i loro esploratori avevano confermato la partenza dei nemici. I Germani fecero strage dei Menapi e, impadronitisi delle loro navi, attraversarono il fiume prima che sull'altra sponda giungesse notizia dell'accaduto; occupati tutti gli edifici dei Menapi, si servirono delle loro provviste per la restante parte dell'inverno.

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Informato di tali avvenimenti, Cesare, che temeva la debolezza di carattere dei Galli, volubili nel prendere decisioni e per lo più desiderosi di rivolgimenti, stimò di non doversi assolutamente fidare di essi. I Galli, infatti, hanno la seguente abitudine: costringono, anche loro malgrado, i viandanti a fermarsi e si informano su ciò che ciascuno di essi ha saputo o sentito su qualsiasi argomento; nelle città, la gente attornia i mercanti e li obbliga a dire da dove provengano e che cosa lì abbiano saputo; poi, sulla scorta delle voci e delle notizie udite, spesso decidono su questioni della massima importanza e devono ben presto pentirsene, perché prestano fede a dicerie infondate, in quanto la maggior parte degli interpellati risponde cose non vere pur di compiacerli.

6
Cesare, che conosceva tale abitudine, per non andare incontro a una guerra troppo pesante, partì alla volta dell'esercito prima del solito. Appena giunto, apprese che i suoi sospetti si erano avverati: parecchi popoli avevano inviato ambascerie ai Germani, chiedendo che varcassero il Reno e promettendo di esaudire ogni loro richiesta. I Germani, attratti da tali speranze, già si stavano spingendo più lontano ed erano pervenuti nelle terre degli Eburoni e dei Condrusi, clienti dei Treveri. Cesare convocò i principi della Gallia, ma ritenne opportuno dissimulare ciò di cui era invece al corrente; li blandì, li rassicurò, chiese i contingenti di cavalleria e prese la risoluzione di muovere guerra ai Germani.

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Preparate le scorte di grano e arruolati i cavalieri, marciò verso i territori in cui era segnalata la presenza dei Germani. Cesare si trovava a pochi giorni di distanza, quando gli si presentarono emissari dei Germani che parlarono nei termini seguenti: non erano i Germani a muovere per primi guerra al popolo romano, ma non avrebbero rinunciato allo scontro, se provocati, perché avevano la consuetudine, tramandata dai padri, di difendersi e di non implorare gli aggressori, chiunque essi fossero. Tuttavia precisavano di esser giunti contro il loro volere, scacciati dalla patria; se i Romani volevano il loro sostegno, i Germani avrebbero potuto diventare utili alleati; chiedevano l'assegnazione di nuovi territori oppure il permesso di mantenere le regioni occupate con le armi. Erano inferiori solo agli Svevi, che neppure gli dèi immortali potevano uguagliare; ma di tutti gli altri popoli sulla terra non ce n'era uno che i Germani non potessero superare.

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A tali parole Cesare rispose come gli sembrò più opportuno; ma ecco come terminò il suo discorso: non poteva stringere con loro alcuna alleanza, se rimanevano in Gallia; e non era giusto che occupasse le terre altrui chi non era riuscito a difendere le proprie; in Gallia non c'erano regioni libere da poter assegnare - tanto meno a un gruppo così numeroso - senza danneggiare nessuno, ma concedeva loro, se lo volevano, di stabilirsi nei territori degli Ubi, che gli avevano inviato emissari per lamentarsi dei soprusi degli Svevi e per chiedergli aiuto: ne avrebbe dato ordine agli Ubi.

9
I membri dell'ambasceria dissero che avrebbero riferito e che si sarebbero ripresentati dopo tre giorni con la risposta. Chiesero a Cesare, però, di non avanzare ulteriormente nel frattempo. Cesare dichiarò di non poter concedere neppure questo. Era venuto a conoscenza, infatti, che i Germani, alcuni giorni prima, avevano inviato gran parte della cavalleria al di là della Mosa, nella regione degli Ambivariti, a scopo di razzia e in cerca di grano. Riteneva, dunque, che stessero aspettando i loro cavalieri e che, a tal fine, cercassero di prendere tempo.

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La Mosa nasce dai monti Vosgi, nella regione dei Lingoni; a non più di ottanta miglia di distanza dall'Oceano, si getta nel Reno. Il Reno nasce nella regione dei Leponzi, un popolo delle Alpi, scorre vorticoso per lungo tratto nelle terre dei Nantuati, degli Elvezi, dei Sequani, dei Mediomatrici, dei Triboci e dei Treveri; poi, nei pressi dell'Oceano, si divide in diversi rami e forma molte isole di notevoli dimensioni, per la maggior parte abitate da genti incolte e barbare, alcune delle quali si ritiene che vivano di pesci e di uova d'uccelli. Sfocia con molte diramazioni nell'Oceano.

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Cesare non distava più di dodici miglia dal nemico, quando i membri dell'ambasceria ritornarono, secondo gli accordi. Gli si presentarono che era in marcia e lo pregavano, invano, di non avanzare ulteriormente. Gli chiedevano, allora, di dar ordine alla cavalleria, posta all'avanguardia, di non aprire le ostilità e gli domandavano il permesso di inviare un'ambasceria agli Ubi: se i capi e il senato degli Ubi avessero fornito garanzie mediante un giuramento solenne, si dichiaravano pronti ad accettare le condizioni proposte da Cesare. Ma, per condurre a termine le operazioni necessarie, chiedevano tre giorni di tempo. Cesare riteneva che la richiesta mirasse sempre a consentire, nei tre giorni di tregua, il rientro dei cavalieri che si erano allontanati; tuttavia, disse che per quel giorno si sarebbe spinto in avanti non oltre le quattro miglia, al solo scopo di rifornirsi d'acqua, ma comandò che l'indomani si presentassero lì nel maggior numero possibile per conoscere la sua risposta. Al tempo stesso, ai prefetti della cavalleria, che precedeva l'esercito, manda dei messi con l'ordine di non provocare a battaglia i nemici e di difendersi, in caso di attacco, fino al suo arrivo con le legioni.

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Ma i nemici, non appena videro la nostra cavalleria - benché contasse circa cinquemila unità, mentre essi non erano più di ottocento, non essendo ancora rientrati i cavalieri che avevano varcato la Mosa in cerca di grano - si lanciarono all'attacco e scompaginarono in breve tempo i nostri, che non nutrivano alcun timore, in quanto l'ambasceria dei Germani aveva appena lasciato Cesare chiedendo, per quel giorno, tregua. Quando i nostri riuscirono a opporre resistenza, gli avversari, secondo la loro tecnica abituale, balzarono a terra e, ferendo al ventre i cavalli, disarcionarono molti dei nostri e costrinsero alla fuga i superstiti, premendoli e terrorizzandoli al punto che non cessarono la ritirata se non quando furono in vista del nostro esercito in marcia. Nello scontro perdono la vita settantaquattro nostri cavalieri, tra cui l'aquitano Pisone, uomo di grandissimo valore e di alto lignaggio: un suo avo aveva tenuto la suprema autorità tra la sua gente e ricevuto dal senato di Roma il titolo di amico. Pisone, accorso in aiuto del fratello circondato dai nemici, era riuscito a liberarlo; disarcionato - il suo cavallo era stato colpito - resistette con estremo valore finché ebbe forza: poi, circondato da molti avversari, cadde. Il fratello, che aveva già lasciato la mischia, lo vide da lontano: sferzato il cavallo, si gettò sui nemici e rimase ucciso.

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Dopo tale scontro, Cesare ormai non stimava giusto ascoltare gli ambasciatori o accogliere le proposte di un popolo che, dopo aver chiesto pace, aveva deliberatamente aperto le ostilità con agguati e imboscate; d'altro canto, considerava pura follia aspettare che il numero dei nemici aumentasse con il rientro della cavalleria e, ben conoscendo la volubilità dei Galli, intuiva quanto prestigio i Germani avessero già acquisito con una sola battaglia; perciò, riteneva di non dover assolutamente concedere loro il tempo di prendere decisioni. Aveva già assunto tali risoluzioni e informato i legati e il questore che non intendeva differire l'attacco neppure di un giorno, quando si presentò un'occasione veramente favorevole: proprio la mattina seguente i Germani, sempre con la stessa perfida ipocrisia, si presentarono al campo di Cesare, in gran numero, con tutti i principi e i più anziani. Volevano, a detta loro, sia chiedere perdono per l'attacco sferrato il giorno precedente contro gli accordi e le loro stesse richieste, sia ottenere, se possibile, una dilazione: ma il solo scopo era di tendere una trappola. Cesare, lieto che gli si fossero offerti, ordinò di trattenerli, portò fuori dall'accampamento tutte le sue truppe e ordinò alla cavalleria di chiudere lo schieramento, ritenendola ancora scossa per la recente sconfitta.

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Disposto l'esercito su tre file, percorse rapidamente otto miglia e piombò sul campo nemico prima che i Germani potessero rendersi conto di cosa stava accadendo. I nemici, atterriti per più di una ragione, dall'arrivo improvviso dei nostri, dall'assenza dei loro, dal non avere il tempo di prendere alcuna decisione, né di correre alle armi, erano incerti se conveniva affrontare i Romani, difendere l'accampamento o darsi alla fuga. I rumori e la confusione davano il segno del timore che regnava tra i nemici; i nostri, irritati dal proditorio attacco del giorno precedente, fecero irruzione nel campo avversario. Qui, chi riuscì ad armarsi in fretta, per un po' oppose resistenza, combattendo tra i carri e le salmerie; gli altri, invece, ossia le donne e i bambini (infatti, avevano abbandonato le loro terre e attraversato il Reno con le famiglie) si diedero a una fuga disordinata. Al loro inseguimento Cesare inviò la cavalleria.

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I Germani, uditi i clamori alle spalle, quando videro che i loro venivano massacrati, gettarono le armi, abbandonarono le insegne e fuggirono dall'accampamento. Giunti alla confluenza della Mosa con il Reno, dove non avevano più speranze di fuga, molti vennero uccisi, gli altri si gettarono nel fiume e qui, vinti dalla paura, dalla stanchezza, dalla forte corrente, morirono. I nostri, tutti salvi dal primo all'ultimo, con pochissimi feriti, rientrarono al campo dopo le apprensioni nutrite per uno scontro così rischioso, considerando che il nemico contava quattrocentotrentamila persone. Ai Germani prigionieri nell'accampamento Cesare permise di allontanarsi, ma costoro, temendo atroci supplizi da parte dei Galli di cui avevano saccheggiato i campi, dissero di voler rimanere presso di lui. Cesare concesse loro la libertà.

16
Terminata la guerra con i Germani, Cesare decise che doveva varcare il Reno, per molte ragioni, di cui una importantissima: vedendo con quale facilità i Germani tendevano a passare in Gallia, voleva che nutrissero timore anche per il proprio paese, quando si fossero resi conto che l'esercito del popolo romano poteva e osava oltrepassare il Reno. Si aggiungeva un'altra considerazione: la parte della cavalleria degli Usipeti e dei Tenteri che, come abbiamo detto, attraversata la Mosa a scopo di razzia e in cerca di grano, non aveva partecipato alla battaglia, dopo la fuga dei suoi si era rifugiata al di là del Reno, nelle terre dei Sigambri, unendosi a essi. Cesare, per chiedere la consegna di chi aveva mosso guerra a lui e alla Gallia, mandò suoi emissari ai Sigambri, che così risposero: il Reno segnava i confini del dominio di Roma; se egli riteneva ingiusto che i Germani, contro il suo volere, passassero in Gallia, perché pretendeva di aver dominio o potere al di là del Reno? Gli Ubi, poi, l'unico popolo d'oltre Reno che avesse inviato a Cesare emissari, stringendo alleanza e consegnando ostaggi, lo scongiuravano di intervenire in loro aiuto perché incombevano su di loro, pesantemente, gli Svevi; oppure, se ne era impedito dagli affari di stato, lo pregavano, almeno, di condurre l'esercito al di là del Reno: sarebbe stato un ausilio sufficiente per il presente e una speranza per il futuro. Il nome e la fama dell'esercito romano, dopo la vittoria su Ariovisto e il recentissimo successo, aveva raggiunto anche le più lontane genti germane: considerati alleati del popolo romano, gli Ubi sarebbero stati al sicuro. Promettevano una flotta numerosa per trasportare l'esercito.

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Per i motivi che ho ricordato, Cesare aveva deciso di oltrepassare il Reno, ma riteneva che l'impiego delle navi non fosse abbastanza sicuro e non lo giudicava consono alla dignità sua e del popolo romano. Così, sebbene si presentassero gravi difficoltà per costruire un ponte - come la larghezza e la profondità del fiume, la rapidità della corrente - egli tuttavia stimava necessario adottare tale soluzione oppure rinunciare all'impresa. Ecco come progettò la struttura dei ponte. A distanza di due piedi univa, a due per volta, travi lievemente appuntite in basso, del diametro di un piede e mezzo di altezza commisurata alla profondità del fiume; poi, mediante macchinari le calava in acqua e con battipali le conficcava sul fondo del fiume, non a perpendicolo, come le travi delle palafitte, ma oblique e in pendenza, in modo da inclinare nel senso della corrente; più in basso, alla distanza di quaranta passi e dirimpetto alle prime travi, ne poneva altre, sempre legate a due a due, con inclinazione opposta all'impeto e alla corrente del fiume. Nell'interstizio collocava pali dello spessore di due piedi - pari alla distanza delle travi accoppiate - e, fissandoli con due arpioni, impediva che esse in cima si toccassero; perciò, poggiando su travi separate e ben ribadite in direzione contraria, la struttura del ponte risultava tale, da reggere, per necessità naturale, tanto più saldamente, quanto più impetuosa fosse la corrente. Sui pali venivano disposte, in senso orizzontale, altre travi su cui poggiavano tavole e graticci; inoltre, come sostegno, a valle venivano aggiunti, obliqui, pali fissati al resto della struttura per resistere alla corrente impetuosa; così pure altre travi, a monte, venivano collocate non lontano dal ponte, allo scopo di frenare eventuali tronchi o navi che i barbari avessero lanciato contro la costruzione per distruggerla: l'impatto sarebbe stato attutito e i danni al ponte limitati.

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Da quando ebbe inizio la raccolta del materiale, in dieci giorni il lavoro fu portato a termine e l'esercito oltrepassò il fiume. Lasciati saldi presidi su entrambe le sponde, Cesare marciò verso il territorio dei Sigambri. Frattanto gli si presentano ambascerie di parecchie nazioni, alle cui richieste di pace e alleanza egli risponde benevolmente e ordina la consegna di ostaggi. Da quando erano incominciati i lavori per il ponte, i Sigambri, su pressione dei Tenteri e degli Usipeti che erano con loro, avevano preparato la fuga ed evacuato i loro territori, portando con sé tutti i loro beni e rifugiandosi in foreste disabitate.

19
Cesare si trattenne pochi giorni nella regione dei Sigambri, dove diede alle fiamme tutti i villaggi e le singole abitazioni e distrusse i raccolti, quindi ripiegò nei territori degli Ubi, a cui aveva promesso il suo aiuto in caso di attacco degli Svevi. Dagli Ubi venne a sapere quanto segue: gli Svevi, messi al corrente dai loro esploratori che si costruiva un ponte, tenuta un'assemblea, secondo il loro costume, avevano poi inviato emissari in tutte le direzioni, con l'ordine di evacuare le città e di mettere al sicuro nelle selve i figli, le mogli e ogni loro bene, mentre tutti gli uomini in grado di combattere dovevano radunarsi in un solo luogo, quasi al centro delle regioni controllate dagli Svevi: si era stabilito che lì avrebbero atteso l'arrivo dei Romani e combattuto. Cesare, quando lo seppe, avendo raggiunto gli scopi che lo avevano spinto ad attraversare il Reno (incutere timore ai Germani, punire i Sigambri, liberare gli Ubi dall'oppressione degli Svevi) e ritenendo, inoltre, che i diciotto giorni, in tutto, trascorsi al di là del Reno gli avessero procurato fama e vantaggi sufficienti, rientrò in Gallia e distrusse il ponte.

20
Non rimaneva che un'esigua parte dell'estate, tuttavia, benché in quelle regioni l'inverno sia precoce, dato che la Gallia è volta a settentrione, Cesare decise di partire per la Britannia, perché capiva che da lì giungevano ai nostri nemici aiuti in quasi tutte le guerre in Gallia; inoltre, anche se la stagione non bastava per le operazioni belliche, riteneva molto utile raggiungere almeno l'isola, vedere che genere di uomini l'abitasse, rendersi conto di luoghi, approdi, accessi, notizie quasi tutte ignorate anche dai Galli. È difficile, infatti, che uno si spinga fin là, a eccezione dei mercanti, e pure essi, all'infuori della costa e delle regioni prospicienti la Gallia, non conoscono altro. Infatti, pur avendo convocato mercanti da ogni parte, Cesare non riuscì a sapere quanto fosse estesa l'isola, quali e quanti popoli l'abitassero, che tecniche di combattimento adottassero, che genere di istituzioni avessero e quali fossero i porti in grado di accogliere una flotta di navi di stazza superiore.

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