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Cesare
De Bello Gallico
libro IV, cap 1-
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Allo scopo di raccogliere informazioni in proposito, prima di
affrontare l'impresa, Cesare manda in avanscoperta una nave da
guerra agli ordini di C. Voluseno, ritenendolo adatto per la
missione. Lo incarica di rientrare al più presto, una volta
terminata la ricognizione. Dal canto suo, con l'esercito al
completo si dirige nei territori dei Morini, perché da lì il
tragitto verso la Britannia era il più breve. Ordina che qui si
radunino le navi provenienti da tutte le regioni limitrofe e la
flotta allestita l'estate precedente per la guerra contro i
Veneti. Nel frattempo, le sue manovre vengono risapute e i
mercanti le riferiscono ai Britanni: da parte di molti popoli
dell'isola giungono messi per promettere che avrebbero consegnato
ostaggi e si sarebbero sottomessi al dominio del popolo romano.
Cesare li ascolta e, esortandoli a non mutare parere, con
benevoli promesse li rimanda in patria accompagnati da Commio,
che in Britannia godeva di grande autorità: Cesare ne stimava il
valore e l'intelligenza e lo riteneva fedele al punto che lo
aveva designato re degli Atrebati dopo averli sconfitti in
battaglia. A Commio dà ordine di prendere contatti con il
maggior numero di popoli per sollecitarli a mettersi sotto la
protezione di Roma e per annunciare che presto Cesare sarebbe
giunto. Voluseno, compiuta la ricognizione in tutte le zone, per
quanto gli fu possibile, dato che non volle correre il rischio di
sbarcare e di entrare in contatto con i barbari, raggiunge Cesare
quattro giorni dopo e gli riferisce ciò che aveva osservato.
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Mentre per preparare la flotta Cesare si attardava nei territori
dei Morini, molte tribù della regione gli inviarono emissari per
scusarsi della loro condotta passata, quando, barbari e ignari
delle nostre consuetudini, avevano mosso guerra al popolo romano:
adesso promettevano ubbidienza ai suoi ordini. Cesare la giudicò
una circostanza veramente favorevole, perché non voleva
lasciarsi un nemico alle spalle e, con l'estate che volgeva al
termine, non aveva il tempo di sostenere una guerra; inoltre,
stimava di non dover anteporre un problema di così lieve entità
alla Britannia; pretese, allora, la consegna di un alto numero di
ostaggi. Ricevuti i quali, pose i Morini sotto la propria
protezione. Circa ottanta navi da carico, numero che giudicava
sufficiente per il trasporto delle legioni, vennero radunate e
munite di tolde. Le navi da guerra di cui disponeva vennero
suddivise tra il questore, i legati e i prefetti. A esse si
aggiungevano altre diciotto navi da carico, che erano a otto
miglia di distanza e non riuscivano a raggiungere il porto per
via del vento: le riservò alla cavalleria. Ai legati Q. Titurio
Sabino e L. Aurunculeio Cotta affidò il resto dell'esercito col
compito di guidarlo contro i Menapi e le tribù dei Morini che
non avevano inviato ambascerie. Lasciò al legato P. Sulpicio
Rufo una guarnigione giudicata sufficiente, con l'ordine di
presidiare il porto.
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Presi tali provvedimenti, approfittando del tempo favorevole alla
navigazione, salpò all'incirca dopo mezzanotte e comandò alla
cavalleria di raggiungere il porto successivo per imbarcarsi e
seguirlo. I cavalieri eseguirono gli ordini troppo lentamente;
Cesare, invece, con le prime navi pervenne alle coste della
Britannia verso le nove di mattina e lì vide le truppe nemiche,
in armi, schierate su tutte le alture circostanti. La natura del
luogo era tale e le scogliere erano così a precipizio sul mare,
che i dardi scagliati dall'alto potevano raggiungere il litorale.
Avendo giudicato il luogo assolutamente inadatto per uno sbarco,
gettò l'ancora e fino alle due del pomeriggio attese l'arrivo
delle altre navi. Nel frattempo, convocati i legati e i tribuni
militari, espose le informazioni raccolte da Voluseno e il suo
piano, invitandoli a compiere tutte le manovre al primo cenno e
istantaneamente, come richiede la tecnica militare, soprattutto
negli scontri navali, dove i movimenti sono rapidi e variano
continuamente. Dopo averli congedati, sfruttando il contemporaneo
favore della marea e del vento, diede il segnale e levò le
ancore. Avanzò per circa sette miglia e mise le navi alla fonda
in un punto in cui il litorale era aperto e piano.
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Ma i barbari, avendo inteso i propositi dei Romani, avevano
mandato in avanti, seguiti dal resto dell'esercito, i cavalieri e
gli essedari - reparti che di solito impiegano in battaglia -
impedendo lo sbarco ai nostri, che incontravano enormi difficoltà:
le navi, per le loro dimensioni, potevano fermarsi solo al largo;
i soldati, poi, non conoscevano i luoghi, non avevano le mani
libere, erano appesantiti dalle armi e dovevano,
contemporaneamente, scendere dalle navi, resistere alle onde,
combattere contro i nemici. I barbari, invece, liberi nei
movimenti, combattevano dalla terraferma o entravano appena in
acqua, conoscevano alla perfezione i luoghi, con audacia
scagliavano frecce e lanciavano alla carica i loro cavalli,
abituati a tali operazioni. I nostri, sgomenti per tutto ciò,
trovandosi di fronte a una tecnica di combattimento del tutto
nuova, non si battevano con il solito zelo e ardore dimostrato in
campo aperto.
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Quando se ne accorse, Cesare ordinò che le navi da guerra, di
forma inconsueta per i barbari e facilmente manovrabili, si
staccassero un po' dalle imbarcazioni da carico e, accelerando a
forza di remi, si disponessero sul fianco destro del nemico e, da
qui, azionassero le fionde, gli archi, le macchine da lancio per
costringere gli avversari alla ritirata. La manovra si rivelò
molto utile. Infatti, i barbari, scossi dalla forma delle navi,
dal movimento dei remi e dall'insolito genere di macchine da
lancio, si arrestarono e ripiegarono leggermente. Ma, visto che i
nostri soldati, soprattutto per la profondità dell'acqua,
esitavano, l'aquilifero della decima legione, dopo aver pregato
gli dèi di dare felice esito all'impresa, gridò: "Saltate
giù, commilitoni, se non volete consegnare l'aquila al nemico:
io, per parte mia, avrò fatto il mio dovere verso la repubblica
e il comandante". Lo disse a gran voce, poi saltò giù
dalla nave e cominciò a correre contro i nemici. Allora i nostri,
vicendevolmente spronandosi a non permettere un'onta così grave,
saltarono giù dalla nave, tutti quanti. Anche i soldati delle
navi vicine, come li videro, li seguirono e avanzarono contro i
nemici.
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Si combatté con accanimento da entrambe le parti. I nostri,
tuttavia, erano in preda allo scompiglio, non riuscendo a
mantenere lo schieramento, ad attestarsi saldamente, a seguire le
proprie insegne, in quanto ciascuno, appena sbarcato, si univa
alle prime in cui si imbatteva. I nemici, invece, che conoscevano
tutti i bassifondi, non appena dal litorale vedevano alcuni dei
nostri sbarcare isolati dalle navi, lanciavano i cavalli al
galoppo e alla carica dei legionari in difficoltà: molti dei
loro circondavano pochi dei nostri, mentre altri dal fianco
destro, scagliavano un nugolo di frecce sul grosso dello
schieramento. Cesare, appena se ne accorse, ordinò di riempire
di soldati le scialuppe delle navi da guerra e i battelli da
ricognizione e li inviò in aiuto di chi aveva visto in difficoltà.
I nostri, non appena riuscirono ad attestarsi sulla terraferma,
formati i ranghi, passarono al contrattacco e costrinsero alla
fuga gli avversari, ma non ebbero modo di protrarre l'inseguimento,
perché le navi con la cavalleria avevano perso la rotta e non
erano riuscite a raggiungere l'isola: solo questo mancò alla
solita buona stella di Cesare.
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I nemici, vinti in battaglia, non appena si riebbero dall'affanno
della fuga, immediatamente inviarono messi a Cesare per offrirgli
la resa, promettendo la consegna di ostaggi e il rispetto degli
ordini che volesse impartire. Insieme a loro giunse l'atrebate
Commio, l'uomo mandato da Cesare in Britannia in avanscoperta,
come in precedenza avevo chiarito. Non appena Commio era sceso
dalla nave e aveva riferito, come portavoce, le richieste di
Cesare, i Britanni lo avevano fatto prigioniero e messo in catene;
ora, dopo la battaglia, lo avevano liberato e, nel domandare pace,
attribuivano la responsabilità dell'accaduto al popolo,
chiedendo di perdonare una colpa dovuta alla leggerezza. Cesare
si lamentò che i Britanni, dopo aver spontaneamente inviato
ambascerie sul continente per domandare pace, gli avevano poi
mosso guerra senza motivo, ma disse che perdonava la loro
leggerezza e chiese ostaggi. Una parte venne consegnata
immediatamente, altri invece, fatti venire da regioni lontane. li
avrebbero consegnati - dissero - entro pochi giorni. Nel
frattempo, diedero disposizione ai loro di ritornare alle
campagne; i principi di tutte le regioni si riunirono e
cominciarono a pregare Cesare di aver riguardo per loro e per i
rispettivi popoli.
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Con tali misure la pace era assicurata: quattro giorni dopo il
nostro arrivo in Britannia, le diciotto navi di cui si è parlato,
su cui era imbarcata la cavalleria, dal porto più settentrionale
salparono con una leggera brezza. Si stavano avvicinando alla
Britannia ed erano già state avvistate dall'accampamento, quando
all'improvviso si levò una tempesta così violenta, che nessuna
delle navi riuscì a tenere la rotta: alcune vennero risospinte
verso il porto di partenza, altre con grave pericolo vennero
spinte verso la parte sud-occidentale dell'isola. Tentarono di
gettare l'ancora, ma, sommerse dalla violenza dei flutti, furono
costrette, sebbene fosse notte, a prendere il largo e a dirigersi
verso il continente.
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Capitò che quella notte stessa ci fosse luna piena, momento in
cui la marea nell'Oceano è più alta, e i nostri non lo sapevano.
Così, nello stesso tempo, la marea sommerse le navi da guerra
impiegate per trasportare l'esercito e poi tirate in secco,
mentre la tempesta sbatteva l'una contro l'altra le imbarcazioni
da carico, che erano all'àncora, senza che i nostri avessero la
minima possibilità di manovrare o porvi rimedio. Molte navi
rimasero danneggiate, le altre, perse le funi, le ancore e il
resto dell'attrezzatura, erano inutilizzabili: un profondo
turbamento, com'era inevitabile, si impadronì di tutto l'esercito.
Non c'erano, infatti, altre navi con cui ritornare, mancava tutto
il necessario per riparare le barche danneggiate e, poiché tutti
pensavano che si dovesse svernare in Gallia, sull'isola non si
era provvisto il grano per l'inverno.
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Appena ne furono informati, i principi britanni, che si erano
recati da Cesare dopo la battaglia, presero accordi: rendendosi
conto che i Romani non avevano né cavalleria, né navi, né
frumento e constatando che dovevano essere ben pochi, viste le
dimensioni dell'accampamento, ancor più ridotto del solito in
quanto Cesare aveva trasportato le legioni senza bagagli,
ritennero che la cosa migliore fosse ribellarsi, ostacolare i
nostri nell'approvvigionamento di grano e viveri, protrarre le
ostilità fino all'inverno, perché erano sicuri che,
sconfiggendo i Romani o impedendo loro il ritorno, nessuno in
futuro sarebbe penetrato in Britannia per portarvi guerra. Così,
formata nuovamente una lega, a poco a poco cominciarono a
lasciare l'accampamento romano e a radunare di nascosto i loro
uomini dalle campagne.
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Cesare non conosceva ancora il loro piano, ma dopo il disastro
capitato alle navi e visto che non gli venivano più consegnati
ostaggi, sospettava quello che sarebbe poi accaduto. Perciò, si
premuniva per qualsiasi evenienza. Ogni giorno, infatti,
disponeva che dalle campagne portassero grano all'accampamento,
si serviva del legname e del bronzo delle navi più danneggiate
per riparare le altre e ordinava di procurarsi dal continente il
materiale necessario a tale scopo. Così, grazie allo
straordinario impegno dei nostri soldati, pur risultando perdute
dodici navi, mise le altre in condizione di navigare senza
problemi.
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Mentre accadevano tali fatti, come di consueto una legione, la
settima, era stata inviata in cerca di grano (fino ad allora non
si nutriva alcun sospetto di guerra, visto che parte dei Britanni
si trovava nelle campagne, parte frequentava ancora l'accampamento
romano). Le guardie dislocate alle porte del campo annunziarono a
Cesare che, nella direzione in cui si era mossa la nostra legione,
si vedeva levarsi più polvere del solito. Cesare, sospettando
che i barbari, come in effetti era, stessero tentando qualche
novità, ordinò alle coorti di guardia di partire con lui in
quella direzione, e a due delle altre di prendere il loro posto:
le rimanenti avrebbero dovuto armarsi e seguirlo al più presto.
A una certa distanza dal campo, vide che i suoi erano pressati
dal nemico e resistevano a fatica: sulla legione, serrata,
piovevano frecce da tutti i lati. Ecco che cosa era accaduto:
poiché il grano era stato raccolto in tutti i campi tranne uno,
i nemici, supponendo che i nostri si sarebbero qui diretti, di
notte si erano nascosti nelle selve; poi, erano piombati all'improvviso
sui nostri, che si erano sparpagliati e avevano deposto le armi
per attendere alla mietitura. Ne avevano uccisi pochi, ma gli
altri, che non riuscivano a riformare i ranghi ed erano in pieno
scompiglio, li avevano accerchiati contemporaneamente con i
cavalieri e gli essedari.
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La loro tecnica di combattimento con i carri è la seguente:
prima corrono in tutte le direzioni, scagliano frecce e con i
loro cavalli e lo strepito delle ruote gettano il panico, in
genere, tra le file avversarie, che si disuniscono; poi, quando
riescono a penetrare tra gli squadroni di cavalleria, scendono
dai carri e combattono a piedi. Nel frattempo, gli aurighi a poco
a poco si allontanano dalla mischia e piazzano i carri in modo
tale che i loro compagni, nel caso siano incalzati da un gran
numero di nemici, abbiano la possibilità di mettersi rapidamente
al sicuro. Così, nelle battaglie si assicurano la mobilità dei
cavalieri e la stabilità dei fanti. Grazie alla pratica e all'esercizio
quotidiano sono capaci di frenare, anche in pendii a precipizio,
i cavalli lanciati al galoppo, di moderarne la velocità e di
cambiare direzione in poco spazio, di correre sopra il timone del
carro, di tenersi fermi sul giogo dei cavalli e poi, da qui, di
ritornare sui carri in un attimo.
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Perciò, mentre i nostri erano disorientati dall'insolita tattica
di combattimento, Cesare giunse in aiuto nel momento più
opportuno: con il suo arrivo, infatti, i nemici si arrestarono, i
nostri ripresero coraggio. Tuttavia, Cesare ritenne che non fosse
il momento adatto per sfidare gli avversari e attaccar battaglia,
perciò tenne le proprie posizioni e, poco dopo, ricondusse le
legioni all'accampamento. Mentre si svolgono questi fatti,
tenendo impegnati tutti i nostri, si ritirarono gli altri
Britanni che si trovavano nelle campagne. Per parecchi giorni si
rovesciarono piogge senza interruzione, che costrinsero i nostri
nell'accampamento e impedirono ai nemici di attaccare. Nel
frattempo, i barbari inviarono messaggeri in tutte le direzioni,
continuando a insistere sul fatto che i nostri erano ben pochi e
a spiegare quale bottino, quale possibilità di rendersi per
sempre liberi li attendesse, se avessero scacciato i Romani dal
loro campo. Così, dopo aver radunato un gran numero di fanti e
cavalieri, mossero sull'accampamento romano.
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Cesare si rendeva conto che si sarebbe verificata la stessa
situazione delle battaglie precedenti: il nemico, in caso fosse
stato battuto, si sarebbe sottratto a ogni pericolo grazie alla
sua rapidità di movimento. Tuttavia, disponendo di circa trenta
cavalieri che l'atrebate Commio, di cui si è già parlato, aveva
condotto con sé, Cesare decise di schierare dinanzi all'accampamento
le legioni, pronte alla battaglia. Lo scontro ebbe luogo: i
nemici non riuscirono a reggere all'attacco dei legionari a lungo
e si volsero in fuga. I nostri li inseguirono finché ebbero la
forza di correre; dopo averne uccisi molti, incendiarono gli
edifici in lungo e in largo e rientrarono al campo.
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Quel giorno stesso a Cesare si presentarono emissari per chiedere
pace. Egli raddoppiò il numero di ostaggi chiesti in precedenza
e ne ordinò la consegna sul continente, perché non riteneva
opportuno affrontare d'inverno la traversata - l'equinozio era
vicino - con le navi in cattivo stato. Approfittando di un tempo
favorevole, salpò poco dopo la mezzanotte: tutte le navi
raggiunsero senza danni il continente; solo due imbarcazioni da
carico non riuscirono ad approdare agli stessi porti delle altre
e vennero sospinte un po' più a sud.
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Da queste due navi sbarcarono circa trecento dei nostri, che si
diressero verso l'accampamento. I Morini, che Cesare al momento
della partenza per la Britannia aveva lasciato pacificati, spinti
dalla speranza di bottino, circondarono dapprima in numero non
altissimo i nostri e intimarono loro la resa, se volevano aver
salva la vita. Mentre i legionari, disposti in cerchio, si
difendevano, alle grida dei Morini sopraggiunsero rapidamente
altri seimila uomini circa. Appena ne fu informato, Cesare, a
sostegno dei suoi, inviò tutta la cavalleria presente al campo.
Nel frattempo, i nostri ressero all'urto dei nemici e si
batterono con estremo valore per più di quattro ore: subirono
poche perdite e uccisero molti nemici. E non appena comparve la
cavalleria, i nemici gettarono le armi e si diedero alla fuga: i
nostri ne fecero strage.
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Il giorno seguente, contro i Morini che si erano ribellati,
Cesare inviò il legato T. Labieno alla testa delle legioni
rientrate dalla Britannia. Le paludi erano in secca e i nemici,
che non potevano rifugiarvisi come l'anno precedente, non
sapevano dove ripiegare, perciò si sottomisero quasi tutti all'autorità
di Labieno. E i legati Q. Titurio e L. Cotta, che avevano guidato
le legioni nella regione dei Menapi, ritornarono da Cesare dopo
aver devastato tutti i campi, distrutto i raccolti, incendiato
gli edifici, in quanto la popolazione si era rifugiata in massa
nel folto dei boschi. Cesare stabilì che tutte le legioni
ponessero i quartieri d'inverno nelle terre dei Belgi. Lì
pervennero gli ostaggi di due popoli britanni in tutto; gli altri
contravvennero all'impegno di inviarli. In seguito a tali imprese,
comunicate per lettera da Cesare, il senato decretò venti giorni
di feste solenni di ringraziamento.
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