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Cesare
De Bello Gallico
libro V, cap 1- 26
1
Sotto il consolato di L. Domizio e Ap. Claudio, Cesare, al
momento di lasciare i quartieri invernali per recarsi in Italia,
come di consueto ogni anno, ordina ai legati preposti alle
legioni di costruire, durante l'inverno, il maggior numero
possibile di navi e di riparare le vecchie. Ne indica la
struttura e la forma: per garantire rapide operazioni di imbarco
e per tirarle con facilità in secco, le costruisce lievemente più
basse delle navi di solito impiegate nel nostro mare e, tanto più
perché aveva saputo che qui, per il frequente alternarsi delle
maree, le onde sono meno alte, allo scopo di facilitare il
trasporto del carico e dei giumenti, le rende un po' più larghe
delle imbarcazioni che usiamo negli altri mari. Ordina di
costruirle tutte leggere, e a tale scopo contribuiscono molto i
bordi bassi. Comanda di far pervenire dalla Spagna tutto il
necessario per equipaggiarle. Dal canto suo, tenute le sessioni
giudiziarie in Gallia cisalpina, parte per l'Illirico, perché
aveva sentito che i Pirusti, con scorrerie, stavano devastando le
regioni di confine della nostra provincia. Una volta sul posto,
chiede alle popolazioni truppe in rinforzo e ordina di
concentrarle in un luogo stabilito. I Pirusti, appena lo sanno,
inviano a Cesare emissari: gli spiegano che tutto era accaduto
senza una deliberazione ufficiale e si dichiarano pronti a
qualsiasi risarcimento dei danni. Dopo averli ascoltati, Cesare
esige ostaggi e fissa il giorno della consegna; in caso contrario,
dichiara che avrebbe mosso guerra. Secondo gli ordini, consegnano
gli ostaggi il giorno stabilito ed egli, per dirimere le
controversie tra le città, nomina dei giudici incaricati di
calcolare i danni e di stabilire i risarcimenti.
2
Dopo tali provvedimenti e tenute le sessioni giudiziarie, Cesare
ritorna nella Gallia cisalpina e, da qui, parte alla volta dell'esercito.
Appena giunto, ispeziona tutti i campi invernali e trova che,
nonostante la carenza estrema di materiale, i soldati, grazie al
loro straordinario impegno, avevano costruito circa seicento
imbarcazioni del tipo già descritto e ventotto navi da guerra,
in grado di essere varate entro pochi giorni. Elogiati i soldati
e gli ufficiali preposti ai lavori, impartisce le istruzioni e
ordina a tutti di radunarsi a Porto Izio, da dove sapeva che il
passaggio in Britannia era assai agevole, perché la distanza dal
continente era di circa trenta miglia: lasciò un presidio
giudicato sufficiente per tale operazione. Egli, alla testa di
quattro legioni senza bagagli e di ottocento cavalieri, punta sui
territori dei Treveri, popolo che non si presentava alle
assemblee, non ubbidiva agli ordini e, a quel che si diceva,
sollecitava l'intervento dei Germani d'oltre Reno.
3
I Treveri possiedono, tra tutti i Galli, la cavalleria più forte
in assoluto e una fanteria numerosa. I loro territori raggiungono,
come si è detto in precedenza, il Reno. Tra i Treveri due uomini
lottavano per il potere: Induziomaro e Cingetorige. Quest'ultimo,
non appena giunge notizia dell'arrivo di Cesare con le legioni,
gli si presenta e, confermandogli che lui e tutti i suoi
avrebbero rispettato gli impegni assunti senza tradire l'amicizia
del popolo romano, lo mette al corrente della situazione.
Induziomaro, invece, inizia a raccogliere cavalieri e fanti e a
prepararsi alla guerra; chi, per ragioni d'età, non poteva
combattere, era stato posto al sicuro nella selva delle Ardenne,
una foresta enorme, che dal Reno attraverso la regione dei
Treveri si estende sino al confine dei Remi. Ma quando alcuni
principi dei Treveri, spinti dai loro legami di amicizia con
Cingetorige e spaventati dall'arrivo del nostro esercito, si
recarono da Cesare e, non potendo provvedere per la nazione,
cominciarono a presentargli richieste per se stessi, anche
Induziomaro, nel timore di rimaner completamente solo, gli inviò
emissari: non aveva voluto abbandonare i suoi e presentarsi di
persona a Cesare soltanto per poter garantire, con maggior
facilità, il rispetto degli impegni assunti; c'era il rischio
che il popolo, una volta lontani tutti i nobili, commettesse
imprudenze; i Treveri, dunque, erano sotto la sua autorità ed
egli, se Cesare lo permetteva, si sarebbe recato nell'accampamento
romano per porre se stesso e la propria gente sotto la sua
protezione.
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Cesare, anche se capiva i motivi che avevano spinto Induziomaro a
parlare in tali termini e che cosa lo inducesse a rinunciare al
piano intrapreso, tuttavia, per non trovarsi costretto, con la
spedizione per la Britannia già pronta, a passare l'estate nelle
terre dei Treveri, gli ordinò di presentarsi con duecento
ostaggi. Dopo che Induziomaro ebbe consegnato gli ostaggi, tra
cui suo figlio e tutti i suoi parenti, espressamente richiesti,
Cesare lo trattò con benevolenza, lo invitò a rispettare gli
impegni; comunque, convocati i capi dei Treveri, li riconciliò
uno a uno con Cingetorige, non solo in considerazione dei meriti
da lui acquisiti, ma anche perché riteneva molto importante
favorire al massimo l'autorità di Cingetorige tra i Treveri,
data la straordinaria devozione del Gallo nei suoi confronti. Fu
un duro colpo per Induziomaro veder diminuito il suo prestigio
tra i Treveri: se già prima il suo animo ci era ostile, adesso l'ira
lo inasprì maggiormente.
5
Sistemata la questione, Cesare con le legioni raggiunse Porto
Izio. Qui apprese che sessanta navi, costruite nelle terre dei
Meldi, erano state respinte da una tempesta e non avevano potuto
tenere la rotta, per cui erano rientrate alla base di partenza;
trovò, però, le altre pronte a salpare ed equipaggiate di tutto
punto. Qui lo raggiunsero contingenti di cavalleria da ogni parte
della Gallia, per un complesso di circa quattromila uomini,
insieme ai principi dei vari popoli: ne lasciò in Gallia ben
pochi, quelli di provata lealtà; gli altri aveva deliberato di
portarseli dietro in qualità di ostaggi, perché temeva, in sua
assenza, una sollevazione della Gallia.
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Tra gli altri c'era l'eduo Dumnorige, di cui abbiamo già parlato.
Fu uno dei primi che Cesare decise di tenere con sé,
conoscendone il desiderio di rivolgimento, l'ambizione di
comandare, la forza d'animo e il grande prestigio tra i Galli.
Inoltre, nell'assemblea degli Edui, Dumnorige aveva detto che
Cesare gli aveva offerto il regno: ciò non piaceva affatto agli
Edui, ma non osavano inviare messi a Cesare per opporsi o per
invitarlo a desistere. Della faccenda Cesare era stato informato
dai suoi ospiti. Dumnorige, in un primo tempo, ricorse a ogni
sorta di preghiere per riuscire a restare in Gallia: disse di
aver paura del mare, inesperto com'era di navigazione, addusse
come scusa un impedimento d'ordine religioso. Quando vide le sue
richieste tenacemente respinte, persa ogni speranza di
raggiungere il suo scopo, cominciò a sobillare i principi della
Gallia e a terrorizzarli; li prendeva in disparte, li spingeva a
non lasciare il continente: non era un caso se la Gallia veniva
privata di tutti i nobili; si trattava di un piano di Cesare, che,
non avendo il coraggio di eliminarli sotto gli occhi dei Galli,
li portava in Britannia per ucciderli; come garanzia per loro,
Dumnorige dava la propria parola, ma ne esigeva la promessa, con
giuramento solenne, di provvedere di comune accordo a ciò che
ritenevano l'interesse della Gallia. Le mosse di Dumnorige
vennero riferite a Cesare da più d'uno.
7
Non appena lo seppe, Cesare, in quanto attribuiva molto prestigio
al popolo eduo, stimava necessario tenere a freno e dissuadere
Dumnorige con qualsiasi mezzo. E vedendo che la follia del Gallo
non faceva che crescere sempre di più, passò alle misure
necessarie per evitare danni a sé e alla repubblica. Così, nel
periodo in cui fu costretto a rimanere a Porto Izio, circa
venticinque giorni, perché il vento coro, che in quella regione
soffia pressoché costante in ogni epoca dell'anno, impediva la
navigazione, Cesare si adoperava per tenere al suo posto
Dumnorige e per conoscerne, al tempo stesso, tutti i piani. Alla
fine, sfruttando il tempo propizio alla navigazione, ordina ai
soldati e ai cavalieri di imbarcarsi. Ma mentre tutti erano
intenti a tale operazione, Dumnorige, alla testa dei cavalieri
edui, si allontana dal campo e si dirige in patria, all'insaputa
di Cesare. Appena informato, sospesa la partenza e rimandata ogni
altra faccenda, Cesare lancia all'inseguimento di Dumnorige il
grosso della cavalleria e comanda di ricondurlo all'accampamento;
se si fosse ribellato e non avesse eseguito gli ordini, dà
disposizione di ucciderlo, non attendendosi nulla di sensato, in
propria assenza, da un uomo che aveva dissubbidito al suo
cospetto. All'intimazione di tornare indietro, Dumnorige comincia
a opporre resistenza, si difende con la forza, scongiura i suoi
di osservare i patti, proclamandosi più volte, a gran voce, uomo
libero di un popolo libero. I Romani, conforme agli ordini, lo
circondano e lo uccidono: tutti i cavalieri edui ritornano da
Cesare.
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Dopo tali avvenimenti, Cesare lasciò Labieno sul continente con
tre legioni e duemila cavalieri, per difendere i porti,
provvedere alle scorte di grano, tenersi al corrente della
situazione in Gallia e prendere decisioni sulla base del momento
e delle circostanze. Dal canto suo, salpò alla testa di cinque
legioni e di tanti cavalieri, quanti ne aveva lasciati in
terraferma; fece vela verso il tramonto, al soffio leggero dell'africo,
che però cessò verso mezzanotte, impedendogli di tenere la
rotta: spinto piuttosto lontano dalla marea, all'alba vide che
aveva lasciato la Britannia alla sua sinistra. Allora, sfruttando,
adesso, la marea, che aveva cambiato direzione, a forza di remi
cercò di raggiungere la zona dell'isola che - lo sapeva dall'estate
precedente - consentiva un comodissimo accesso. Nel corso della
manovra, veramente lodevole fu l'impegno dei soldati: pur con
navi da trasporto appesantite dai carichi, senza mai smettere di
remare, riuscirono a uguagliare la velocità delle navi da guerra.
Approdò in Britannia con tutte le navi verso mezzogiorno, senza
alcun nemico in vista; come apprese in seguito dai prigionieri, i
Britanni, giunti sul luogo con truppe numerose, erano rimasti
atterriti alla vista della nostra flotta: erano apparse,
contemporaneamente, più di ottocento unità, comprese le navi
dell'anno precedente e le imbarcazioni private che alcuni avevano
costruito per propria comodità. Quindi, i nemici avevano
abbandonato il litorale e si erano rifugiati sulle alture.
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Cesare provvide allo sbarco dell'esercito e alla scelta di un
luogo adatto per il campo. Non appena dai prigionieri seppe dove
si erano attestate le truppe nemiche, lasciò nella zona costiera
dieci coorti e trecento cavalieri a presidio delle navi e, dopo
mezzanotte, mosse contro i nemici, senza alcun timore per le
imbarcazioni, lasciate all'ancora su un litorale in lieve pendio
e senza scogli; lasciò a capo del distaccamento e delle navi Q.
Atrio. Dopo aver percorso, di notte, circa dodici miglia, Cesare
avvistò i nemici, che dalle alture, con la cavalleria e i carri,
avanzarono verso il fiume: qui, stando in posizione più elevata,
impedirono ai nostri di procedere e attaccarono battaglia.
Respinti dalla cavalleria, cercarono rifugio nelle selve,
sfruttando una zona egregiamente difesa dalla conformazione
naturale e da fortificazioni allestite già in passato,
probabilmente in occasione di guerre interne: avevano abbattuto
molti alberi, disponendoli in modo da precludere ogni accesso. I
Britanni, disseminati qua e là, combattevano dall'interno delle
selve e ostacolavano l'ingresso dei nostri nella loro roccaforte.
Ma i soldati della settima legione, dopo aver formato la
testuggine ed essere riusciti a costruire un terrapieno fino ai
baluardi nemici, presero la postazione dei Britanni e, subendo
poche perdite, li costrinsero a lasciare le selve. Ma Cesare
ordinò di non proseguire l'inseguimento, sia perché non
conosceva la zona, sia perché era già giorno inoltrato e voleva
dedicare le ultime ore di luce a rinsaldare le difese del proprio
campo.
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La mattina successiva, inviò all'inseguimento del nemico in fuga
tre colonne di legionari e cavalieri. I nostri avevano già
percorso un certo tratto ed erano ormai in vista dei primi
fuggiaschi, quando alcuni cavalieri inviati da Q. Atrio
raggiunsero Cesare per riferirgli che la notte precedente era
scoppiata una violentissima tempesta: quasi tutte le navi avevano
subito danni ed erano state sbattute sul litorale; non avevano
retto né le ancore, né le gomene; nulla avevano potuto marinai
e timonieri contro la violenza della tempesta: le navi avevano
cozzato le une contro le altre, riportando gravi danni.
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Informato dell'accaduto, Cesare ordina alle legioni e alla
cavalleria di ritornare e di resistere durante il rientro; lui
personalmente raggiunge le navi. Constata, con i suoi occhi, che
la situazione all'incirca corrispondeva alle informazioni
ricevute dalla lettera e dai messi: risultavano perdute circa
quaranta navi, ma le altre sembravano riparabili, sia pur con
grandi fatiche. Così, tra i legionari sceglie dei carpentieri e
ne fa arrivare altri dal continente. Scrive a Labieno di
costruire, con le legioni a sua disposizione, quante più navi
possibile. Sebbene l'operazione risultasse molto complicata e
faticosa, decide che la soluzione migliore consisteva nel tirare
in secco tutte le navi e congiungerle all'accampamento con una
fortificazione unica. I lavori richiedono circa dieci giorni,
durante i quali i soldati non si concedono mai una sosta, neppure
di notte. Tirate in secco le imbarcazioni e ben munito il campo,
lascia a presidio delle navi le stesse truppe di prima e ritorna
da dove era venuto. Appena giunto, vede che già si erano lì
radunate, ben più numerose di prima, truppe nemiche provenienti
da tutte le regioni: il comando supremo delle operazioni era
stato affidato, per volontà comune, a Cassivellauno, sovrano di
una regione separata dai popoli che abitavano lungo il mare da un
fiume chiamato Tamigi e distante dal mare circa ottanta miglia.
In passato, tra Cassivellauno e gli altri popoli c'era stata
continua guerra, ma adesso i Britanni, preoccupati per il nostro
arrivo, gli avevano conferito il comando supremo delle operazioni.
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Nella parte interna della Britannia gli abitanti, secondo quanto
essi stessi dicono per remota memoria, sono autoctoni, mentre
nelle regioni costiere vivono genti venute dal Belgio a scopo di
bottino e di guerra e che, dopo la guerra, si erano qui insediate
dandosi all'agricoltura: quasi tutte queste genti conservano i
nomi dei gruppi di origine. La popolazione è numerosissima,
molto fitte le case, abbastanza simili alle abitazioni dei Galli,
elevato il numero dei capi di bestiame. Come denaro usano rame o
monete d'oro, oppure, in sostituzione, sbarrette di ferro di un
determinato peso. Le regioni dell'interno sono ricche di stagno,
sulla costa si trova ferro, ma in piccola quantità; usano rame
importato. Ci sono alberi d'ogni genere, come in Gallia, tranne
faggi e abeti. La loro religione vieta di mangiare lepri, galline
e oche, animali che essi, comunque, allevano per proprio piacere.
Il clima è più temperato che in Gallia, il freddo meno intenso.
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L'isola ha forma triangolare, con un lato posto di fronte alla
Gallia: un angolo di questo lato, verso il Canzio, dove approdano
quasi tutte le navi provenienti dalla Gallia, è rivolto a
oriente; l'altro, più basso, guarda a meridione. Questo lato è
lungo circa cinquecento miglia. Un altro lato è volto verso la
Spagna e occidente: su questo versante c'è l'Ibernia, un'isola
che si reputa circa la metà della Britannia e che da essa dista
tanto quanto la Britannia stessa dalla Gallia. A metà strada si
trova un'isola chiamata Mona; inoltre, si ritiene che ci siano
molte altre isole minori lungo la costa: alcuni hanno scritto che
in esse, nel periodo del solstizio d'inverno, la notte dura
trenta giorni consecutivi. Noi non siamo riusciti a raccogliere
altre notizie in proposito, malgrado le nostre domande; abbiamo
solo constatato che qui le notti, misurate con precisione
mediante clessidre ad acqua, sono più brevi rispetto al
continente. La lunghezza di questo lato, secondo l'opinione degli
autori citati, è di settecento miglia. Il terzo lato è rivolto
a settentrione: nessuna terra gli sta di fronte, ma un suo lembo
guarda essenzialmente verso la Germania. Si ritiene che si
estenda per ottocento miglia. Così, il perimetro totale dell'isola
risulta di duemila miglia.
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Tra tutti i popoli della Britannia, i più civili in assoluto
sono gli abitanti del Canzio, una regione completamente marittima
non molto dissimile per usi e costumi dalla Gallia. Gli abitanti
dell'interno, per la maggior parte, non seminano grano, ma si
nutrono di latte e carne e si vestono di pelli. Tutti i Britanni,
poi, si tingono col guado, che produce un colore turchino, e
perciò in battaglia il loro aspetto è ancor più terrificante;
portano i capelli lunghi e si radono in ogni parte del corpo, a
eccezione della testa e del labbro superiore. Hanno le donne in
comune, vivendo in gruppi di dieci o dodici, soprattutto fratelli
con fratelli e genitori con figli; se nascono dei bambini, sono
considerati figli dell'uomo che per primo si è unito alla donna.
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I cavalieri e gli essedari nemici si scontrarono duramente con la
nostra cavalleria in marcia, che però ebbe il sopravvento in
ogni settore e li respinse nelle selve e sui colli. I nostri, però,
dopo averne uccisi molti, li inseguirono con eccessiva foga e
riportarono alcune perdite. I Britanni per un po' attesero, poi,
all'improvviso, dalle selve si precipitarono sui nostri, che non
se l'aspettavano ed erano intenti ai lavori di fortificazione:
assalite le guardie di fronte all'accampamento, si batterono
accanitamente. Cesare inviò in aiuto due coorti - le prime di
due legioni - che si schierarono a brevissima distanza l'una dall'altra.
Ma mentre i nostri erano atterriti dalla nuova tattica di
combattimento degli avversari, i Britanni, con estrema audacia,
sfondarono il fronte tra le due coorti e, quindi, ripararono in
salvo. Quel giorno perde la vita Q. Laberio Duro, tribuno
militare. I nemici vengono respinti grazie all'invio di altre
coorti a rinforzo.
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Nel suo insieme, il tipo di battaglia, svoltasi sotto gli occhi
di tutti, davanti all'accampamento, ci permise di capire che i
nostri non erano preparati ad affrontare un avversario del genere:
appesantiti dall'armamento, i Romani non erano in grado di
inseguire i nemici in fuga, né osavano allontanarsi dalle
insegne. I cavalieri, poi, correvano grossi rischi nella mischia,
perché gli avversari per lo più cedevano, anche di proposito:
quando erano riusciti a portare i nostri cavalieri abbastanza
lontano dalle legioni, scendevano dai carri e, a piedi,
combattevano in posizione di vantaggio. Così, la natura degli
scontri di cavalleria era identica per chi inseguiva e per chi si
ritirava, presentando pari pericolo per entrambi. Inoltre, i
nemici non lottavano mai in formazione serrata, ma a piccoli
gruppi molto distanziati, disponendo postazioni di riserva: a
turno gli uni subentravano agli altri, soldati freschi e riposati
davano il cambio a chi era stanco.
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L'indomani i nemici si attestarono sui colli, lontano dall'accampamento.
Cominciarono ad avanzare in ordine sparso e a sfidare la nostra
cavalleria con minor foga del giorno precedente. Ma nel
pomeriggio, dopo che Cesare aveva inviato in cerca di foraggio
tre legioni e tutta la cavalleria agli ordini del legato C.
Trebonio, all'improvviso i nemici piombarono su di essi da ogni
direzione, stringendosi attorno alle insegne e alle legioni. I
nostri, con un veemente assalto, li respinsero e li incalzarono:
i cavalieri, contando sull'appoggio delle legioni, che vedevano
alle spalle, costrinsero i nemici a una fuga precipitosa, ne
fecero strage e non diedero loro la possibilità né di
raccogliersi, né di attestarsi o di scendere dai carri. Questa
fuga provocò subito la dispersione delle truppe ausiliarie dei
Britanni, che erano giunte da ogni regione: in seguito, il nemico
non ci avrebbe più affrontato con l'esercito al completo.
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Cesare, informato delle intenzioni dei Britanni, condusse l'esercito
nelle terre di Cassivellauno, verso il Tamigi, fiume che può
essere guadato a piedi solo in un punto, e a stento. Appena
giunto, si rese conto che sull'altra sponda erano schierate
ingenti forze nemiche. La riva, poi, era difesa da pali aguzzi
piantati nel terreno, così come altri simili, sott'acqua, erano
celati dal fiume. Messo al corrente di ciò dai prigionieri e dai
fuggiaschi, Cesare mandò in avanti la cavalleria e ordinò alle
legioni di seguirla senza indugio. I nostri, pur riuscendo a
tenere fuori dall'acqua solo la testa, avanzarono con una rapidità
e un impeto tale, che gli avversari, non essendo in grado di
reggere all'assalto delle legioni e della cavalleria,
abbandonarono la riva e fuggirono.
19
Cassivellauno - lo abbiamo detto in precedenza - persa ogni
speranza di proseguire nello scontro aperto, aveva congedato il
grosso dell'esercito e con solo circa quattromila essedari
sorvegliava i nostri movimenti: si teneva a poca distanza dalle
strade, nascosto in luoghi di difficile accesso e fitti di boschi;
nelle zone per cui sapeva che dovevamo transitare cacciava via
bestiame e popolazione dalle campagne nelle foreste. Quando la
nostra cavalleria si spingeva troppo in là nei campi, per
saccheggiare e devastare, lungo tutte le strade e i sentieri, dai
boschi Cassivellauno lanciava all'attacco i carri e combatteva
con i nostri con tale rischio per loro, da costringerli, per il
timore di scontri, a non spingersi troppo distante. A Cesare non
restava che impedire alla cavalleria di allontanarsi troppo dal
grosso delle legioni in marcia, e accontentarsi di danneggiare i
nemici devastandone le campagne e appiccando incendi, per quanto
lo potevano i legionari, impegnati in marce faticose.
20
Nel frattempo giunge a Cesare un'ambasceria da parte dei
Trinovanti, il più potente, o quasi, tra i popoli di quelle
regioni. In passato, uno di essi, il giovane Mandubracio, si era
posto sotto la protezione di Cesare e lo aveva raggiunto sul
continente: suo padre era diventato re ed era stato ucciso da
Cassivellauno, mentre lui si era salvato con la fuga. Gli
ambasciatori dei Trinovanti, promettendo resa e obbedienza,
chiedono a Cesare di tutelare Mandubracio dai soprusi di
Cassivellauno e di inviarlo al suo popolo per diventarne il capo
e assumere il potere. Cesare esige da loro quaranta ostaggi e
grano per l'esercito e invia Mandubracio. I Trinovanti eseguirono
rapidamente gli ordini e mandarono gli ostaggi, secondo il numero
fissato, e il grano.
21
Vedendo i Trinovanti protetti e al sicuro da ogni attacco
militare, i Cenimagni, i Segontiaci, gli Ancaliti, i Bibroci e i
Cassi mandarono a Cesare ambascerie per arrendersi. Da essi seppe
che, non lontano, sorgeva la roccaforte di Cassivellauno difesa
da selve e paludi, dove erano stati concentrati uomini e bestiame
in numero ragguardevole. I Britanni, in effetti, chiamano
roccaforte una selva impraticabile munita da vallo e fossa, dove
di solito si raccolgono per sottrarsi alle incursioni dei nemici.
Lì Cesare si diresse con le legioni: si imbatté in un luogo
estremamente ben protetto sia dalla conformazione naturale, sia
dall'opera dell'uomo. Nonostante ciò, intraprese l'assedio su
due fronti. I nemici opposero una breve resistenza, ma non
riuscirono a frenare l'assalto dei nostri e cercarono di mettersi
in salvo da un'altra parte della roccaforte. Qui venne trovato un
gran numero di capi di bestiame e molti dei fuggiaschi furono
catturati e uccisi.
22
Nel corso di tali avvenimenti, Cassivellauno invia dei messi nel
Canzio, regione che si affaccia sul mare - lo si è già
ricordato - e che era governata da quattro re: Cingetorige,
Carvilio, Taximagulo e Segovace. A essi ordina di raccogliere
tutte le loro truppe e di sferrare un improvviso attacco all'accampamento
navale romano, ponendolo sotto assedio. Appena i nemici giunsero
al campo, i nostri effettuarono una sortita e ne fecero strage:
catturato anche il loro capo, Lugotorige, di nobile stirpe,
rientrarono sani e salvi. Quando gli fu annunciato l'esito della
battaglia, Cassivellauno, visti i tanti rovesci, i territori
devastati e scosso, soprattutto, dalle defezioni, invia, tramite
l'atrebate Commio, una legazione a Cesare per trattare la resa.
Cesare aveva deciso di svernare sul continente per prevenire
repentine sollevazioni in Gallia e si rendeva conto che, volgendo
ormai l'estate al termine, i nemici potevano con facilità
temporeggiare. Perciò, chiede ostaggi e fissa il tributo che la
Britannia avrebbe dovuto pagare annualmente al popolo romano. A
Cassivellauno proibisce formalmente di arrecar danno a
Mandubracio o ai Trinovanti.
23
Consegnati gli ostaggi, riconduce l'esercito sulla costa, dove
trova le navi riparate. Dopo averle calate in acqua, decise di
trasportare l'esercito in due viaggi, poiché aveva molti
prigionieri e alcune navi erano state distrutte dalla tempesta.
Ma ecco che cosa capitò: di tante navi, in tante traversate, non
ne era andata perduta neppure una che trasportasse soldati, né
quell'anno, né l'anno precedente; delle imbarcazioni, invece,
che gli venivano rinviate vuote dal continente (che si trattasse
delle navi di ritorno dal primo viaggio dopo aver sbarcato le
truppe, oppure delle sessanta costruite in un secondo tempo da
Labieno), pochissime erano giunte a destinazione, quasi tutte le
altre erano state ributtate sulla costa. Cesare le attese per un
po' inutilmente; poi, per evitare che la stagione - l'equinozio
era vicino - impedisse la navigazione, fu costretto a stipare i
soldati un po' più allo stretto del solito. Levate le ancore
subito dopo le nove di sera, trovò il mare molto calmo e all'alba
prese terra: aveva portato in salvo tutte le navi.
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Dopo aver tratto in secca le navi e tenuto l'assemblea dei Galli
a Samarobriva, vista la magra annata per il grano a causa della
siccità, fu costretto a disporre i quartieri d'inverno in modo
diverso rispetto agli anni precedenti e a ripartire le legioni su
più territori. Ne inviò una presso i Morini sotto la guida del
legato C. Fabio, un'altra con Q. Cicerone dai Nervi, una terza
con L. Roscio nella regione degli Esuvi; ordinò che una quarta
legione, al comando di T. Labieno, svernasse nei territori dei
Remi, al confine con i Treveri; ne stanziò tre nel paese dei
Belgi, alle dipendenze del questore M. Crasso e dei legati L.
Munazio Planco e C. Trebonio. Una legione, di recente arruolata
al di là del Po, venne mandata, insieme a cinque coorti, fra gli
Eburoni, che per la maggior parte abitano tra la Mosa e il Reno e
sui quali regnavano Ambiorige e Catuvolco. Il comando ne fu
affidato ai legati Q. Titurio Sabino e L. Aurunculeio Cotta.
Ripartite così le truppe, stimava di poter ovviare, con grande
facilità, alla penuria di grano. Gli accampamenti invernali di
tutte le legioni non distavano, comunque, più di cento miglia l'uno
dall'altro, eccezion fatta per le milizie di L. Roscio, che però
doveva condurle in una zona del tutto tranquilla e sicura. Dal
canto suo, Cesare decise di fermarsi in Gallia fino a conferma
ricevuta che le legioni erano stanziate nelle rispettive zone e
che gli accampamenti erano stati fortificati.
25
Tra i Carnuti viveva una persona di nobili natali, Tasgezio, i
cui antenati avevano regnato sul paese: Cesare gli aveva
restituito il rango degli avi, in considerazione del suo valore e
della sua fedeltà, dato che in tutte le guerre Cesare si era
avvalso del suo contributo incomparabile. Tasgezio era già al
suo terzo anno di regno, quando i suoi oppositori lo eliminarono
con una congiura, mentre anche molti cittadini avevano appoggiato
apertamente il piano. La cosa viene riferita a Cesare, che,
temendo una defezione dei Carnuti sotto la spinta degli
oppositori - parecchi erano implicati nella vicenda - ordina a L.
Planco di partire al più presto dal Belgio alla testa della sua
legione, di raggiungere il territorio dei Carnuti e di passarvi l'inverno:
chiunque gli risultasse implicato nell'uccisione di Tasgezio,
doveva essere arrestato e inviato a Cesare. Nello stesso tempo,
tutti gli ufficiali preposti alle legioni informano Cesare che
erano giunti ai quartieri d'inverno e che le fortificazioni erano
ormai ultimate.
26
Circa quindici giorni dopo l'arrivo agli accampamenti invernali,
improvvisamente scoppiò un'insurrezione guidata da Ambiorige e
Catuvolco. Costoro si erano presentati al confine dei loro
territori, a disposizione di Sabino e di Cotta e avevano
consegnato grano all'accampamento; in seguito, però, spinti dai
messi del trevero Induziomaro, avevano chiamato i loro a raccolta
e, sopraffatti i nostri legionari in cerca di legna, con ingenti
forze avevano stretto d'assedio il campo. Mentre i nostri
impugnavano rapidamente le armi e salivano sul vallo, i cavalieri
spagnoli, usciti da una porta del campo, sferravano un attacco in
cui ebbero la meglio: gli avversari, persa ogni speranza di
vittoria, furono costretti a togliere l'assedio. Poi, a gran voce,
come è loro costume, chiesero che qualcuno dei nostri si facesse
avanti per parlamentare: avevano da riferire informazioni d'interesse
comune, grazie alle quali speravano di poter risolvere i
contrasti.
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