CANTI DI CASTELVECCHIO

di Giovanni Pascoli

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11. Le ciaramelle

  Udii tra il sonno le ciaramelle,
ho udito un suono di ninne nanne.
Ci sono in cielo tutte le stelle,
ci sono i lumi nelle capanne.
  Sono venute dai monti oscuri
le ciaramelle senza dir niente;
hanno destata ne' suoi tuguri
tutta la buona povera gente.
  Ognuno è sorto dal suo giaciglio;
accende il lume sotto la trave;
sanno quei lumi d'ombra e sbadiglio,
di cauti passi, di voce grave.
  Le pie lucerne brillano intorno,
là nella casa, qua su la siepe:
sembra la terra, prima di giorno,
un piccoletto grande presepe.
  Nel cielo azzurro tutte le stelle
paion restare come in attesa;
ed ecco alzare le ciaramelle
il loro dolce suono di chiesa;
  suono di chiesa, suono di chiostro,
suono di casa, suono di culla,
suono di mamma, suono del nostro
dolce e passato pianger di nulla.
  O ciaramelle degli anni primi,
d'avanti il giorno, d'avanti il vero,
or che le stelle son là sublimi,
conscie del nostro breve mistero;
  che non ancora si pensa al pane,
che non ancora s'accende il fuoco;
prima del grido delle campane
fateci dunque piangere un poco.
  Non più di nulla, sì di qualcosa,
di tante cose! Ma il cuor lo vuole,
quel pianto grande che poi riposa,
quel gran dolore che poi non duole;
  sopra le nuove pene sue vere
vuol quei singulti senza ragione:
sul suo martòro, sul suo piacere,
vuol quelle antiche lagrime buone!


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12. Per sempre!

  Io t'odio?!... Non t'amo più, vedi,
non t'amo... Ricordi quel giorno?
Lontano portavano i piedi
un cuor che pensava al ritorno.
E dunque tornai... tu non c'eri.
Per casa era un'eco dell'ieri,
d'un lungo promettere. E meco
di te portai sola quell'eco:
                PER SEMPRE!
  Non t'odio. Ma l'eco sommessa
di quella infinita promessa
vien meco, e mi batte nel cuore
col palpito trito dell'ore;
mi strilla nel cuore col grido
d'implume caduto dal nido:
                PER SEMPRE!
  Non t'amo. Io guardai, col sorriso,
nel fiore del molle tuo letto.
Ha tutti i tuoi occhi, ma il viso...
non tuo. E baciai quel visetto
straniero, senz'urto alle vene.
Le dissi: "E a me, mi vuoi bene?"
"Sì, tanto!" E i tuoi occhi in me fisse.
"Per sempre?" le dissi. Mi disse:
                "PER SEMPRE!"
  Risposi: "Sei bimba e non sai
Per sempre che voglia dir mai!"
Rispose: "Non so che vuol dire?
Per sempre vuol dire Morire...
Sì: addormentarsi la sera:
restare così come s'era,
                PER SEMPRE!"

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13. La nonna

  Tra tutti quei riccioli al vento,
tra tutti quei biondi corimbi,
sembrava, quel capo d'argento,
dicesse col tremito, bimbi,
        sì... piccoli, sì...
  E i bimbi cercavano in festa,
talora, con grido giulivo,
le tremule mani e la testa
che avevano solo di vivo
        quel povero sì.
  , solo; , sempre, dal canto
del fuoco, dall'umile trono;
, per ogni scoppio di pianto,
per ogni preghiera: perdono,
        sì... voglio, sì... sì!
  , pure al lettino del bimbo
malato... La Morte guardava,
La Morte presente in un nimbo...
La tremula testa dell'ava
        diceva sì! sì!
  , sempre; sì, solo; le notti
lunghissime, altissime! Nera
moveva, ai lamenti interrotti,
la Morte da un angolo... C'era
        quel tremulo ,
  quel , presso il letto... E sì, prese
la nonna, la prese, lasciandole
vivere il bimbo. Si tese
quel capo in un brivido blando,
        nell'ultimo .

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14. La canzone della granata

I
  Ricordi quand'eri saggina,
coi penduli grani che il vento
scoteva, come una manina
di bimbo il sonaglio d'argento?
  Cadeva la brina; la pioggia
cadeva: passavano uccelli
gemendo: tu gracile e roggia
tinnivi coi cento ramelli.
  Ed oggi non più come ieri
tu senti la pioggia e la brina,
ma sgrigioli come quand'eri
        saggina.


II
  Restavi negletta nei solchi
quand'ogni pannocchia fu colta:
te, colsero, quando i bifolchi
v'ararono ancora una volta.
  Un vecchio ti prese, recise,
legò; ti privò della bella
semenza tua rossa; e ti mise
nell'angolo, ad essere ancella.
  E in casa tu resti, in un canto,
negletta qui come laggiù;
ma niuno è di casa pur quanto
        sei tu.

III
  Se t'odia colui che la trama
distende negli alti solai,
l'arguta gallina pur t'ama,
cui porti la preda che fai.
 E t'ama anche senza, ché ai costi
ti sbalza, ed i grani t'invola,
residui del tempo che fosti
saggina, nei campi già sola.
 Ma più, gracilando t'aspetta
con ciò che in tua vasta rapina
le strascichi dalla già netta
        cucina.

IV
  Tu lasci che t'odiino, lasci
che t'amino: muta, il tuo giorno,
nell'angolo, resti, coi fasci
di stecchi che attendono il forno.
  Nell'angolo il giorno tu resti,
pensosa del canto del gallo;
se al bimbo tu già non ti presti,
che viene, e ti vuole cavallo.
  Riporti, con lui che ti frena,
le paglie ch'hai tolte, e ben più;
e gioia or n'ha esso; ma pena
        poi tu.

V
  Sei l'umile ancella; ma reggi
la casa: tu sgridi a buon'ora,
mentre impaziente passeggi,
gl'ignavi che dormono ancora.
   E quanto tu muovi dal canto,
la rondine è ancora nel nido;
e quando comincia il suo canto,
già ode per casa il tuo strido.

   E l'alba il suo cielo rischiara,
ma prima lo spruzza e imperlina,
così come tu la tua cara
        casina.

VI
  Sei l'umile ancella, ma regni
su l'umile casa pulita.
Minacci, rimproveri; insegni
ch'è bella, se pura, la vita.
   Insegni, con l'acre tua cura
rodendo la pietra e la creta,
che sempre, per essere pura,
si logora l'anima lieta.
   Insegni, tu sacra ad un rogo
non tardo, non bello, che più
di ciò che tu mondi, ti logori
        tu!




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15. La voce

  C'è una voce nella mia vita,
che avverto nel punto che muore;
voce stanca, voce smarrita,
col tremito del batticuore:
  voce d'una accorsa anelante,
che al povero petto s'afferra
per dir tante cose e poi tante,
ma piena ha la bocca di terra:
  tante tante cose che vuole
ch'io sappia, ricordi, sì... sì...
ma di tante tante parole
non sento che un soffio... Zvanî...
  Quando avevo tanto bisogno
di pane e di compassione,
che mangiavo solo nel sogno,
svegliandomi al primo boccone;
  una notte, su la spalletta
del Reno, coperta di neve,
dritto e solo (passava in fretta
l'acqua brontolando, Si beve?);
  dritto e solo, con un gran pianto
d'avere a finire così,
mi sentii d'un tratto daccanto
quel soffio di voce... Zvanî...
  Oh! la terra, com'è cattiva!
la terra, che amari bocconi!
Ma voleva dirmi, io capiva:
- No... no... Di' le devozioni!
  Le dicevi con me pian piano,
con sempre la voce più bassa:
la tua mano nella mia mano:
ridille! vedrai che ti passa.
  Non far piangere piangere piangere
(ancora!) chi tanto soffrì!
il tuo pane, prega il tuo angelo
che te lo porti... Zvanî... -
  Una notte dalle lunghe ore
(nel carcere!), che all'improvviso
dissi - Avresti molto dolore,
tu, se non t'avessero ucciso,
  ora, o babbo! - che il mio pensiero,
dal carcere, con un lamento,
vide il babbo nel cimitero,
le pie sorelline in convento:
  e che agli uomini, la mia vita,
volevo lasciargliela lì...
risentii la voce smarrita
che disse in un soffio... Zvanî...

  Oh! la terra come è cattiva!
non lascia discorrere, poi!
Ma voleva dirmi, io capiva:
- Piuttosto di' un requie per noi!
  Non possiamo nel camposanto
più prendere sonno un minuto,
ché sentiamo struggersi in pianto
le bimbe che l'hanno saputo!
  Oh! la vita mia che ti diedi
per loro, lasciarla vuoi qui?
qui, mio figlio? dove non vedi
chi uccise tuo padre... Zvanî?... -
  Quante volte sei rivenuta
nei cupi abbandoni del cuore,
voce stanca, voce perduta,
col tremito del batticuore:
  voce d'una accorsa anelante
che ai poveri labbri si tocca
per dir tante cose e poi tante;
ma piena di terra ha la bocca:
  la tua bocca! con i tuoi baci,
già tanto accorati a quei dì!
a quei dì beati e fugaci
che aveva i tuoi baci... Zvanî!...
  che m'addormentavano gravi
campane col placido canto,
e sul capo biondo che amavi,
sentivo un tepore di pianto!
  che ti lessi negli occhi, ch'erano
pieni di pianto, che sono
pieni di terra, la preghiera
di vivere e d'essere buono!
  Ed allora, quasi un comando,
no, quasi un compianto, t'uscì
la parola che a quando a quando
mi dici anche adesso... Zvanî...

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16. Il sole e la lucerna

I
  In mezzo ad uno scampanare fioco
sorse e batté su taciturne case
il sole, e trasse d'ogni vetro il fuoco.
  C'era ad un vetro tuttavia, rossastro
un lumicino. Ed ecco il sol lo invase,
lo travolse in un gran folgorìo d'astro.
   E disse, il sole: - Atomo fumido! io
guardo, e tu fosti. - A lui l'umile fiamma:
- Ma questa notte tu non c'eri, o dio;
e un malatino vide la sua mamma
  alla mia luce, fin che tu sei sorto.
Oh! grande sei, ma non ti vede: è morto! -

 II
  E poi, guizzando appena:
- Chiedeva te! che tosse!
voleva te! che pena!
  Tu ricordavi al cuore
suo le farfalle rosse
su le ginestre in fiore!
  Io stavo lì da parte...
gli rammentavo sere
lunghe di veglia e carte
piene di righe nere!
  stavo velata e trista,
per fargli il ben non vista. -
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