CANTI DI CASTELVECCHIO

di Giovanni Pascoli

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18. La tovaglia

  Le dicevano: - Bambina!
che tu non lasci mai stesa,
dalla sera alla mattina,
ma porta dove l'hai presa,
la tovaglia bianca, appena
ch'è terminata la cena!
Bada, che vengono i morti!
i tristi, i pallidi morti!
  Entrano, ansimano muti.
Ognuno è tanto mai stanco!
E si fermano seduti
la notte intorno a quel bianco.
Stanno lì sino al domani,
col capo tra le due mani,
senza che nulla si senta,
sotto la lampada spenta. -
  E` già grande la bambina:
la casa regge, e lavora:
fa il bucato e la cucina,
fa tutto al modo d'allora.
Pensa a tutto, ma non pensa
a sparecchiare la mensa.
Lascia che vengano i morti,
i buoni, i poveri morti.
  Oh! la notte nera nera,
di vento, d'acqua, di neve,
lascia ch'entrino da sera,
col loro anelito lieve;
che alla mensa torno torno
riposino fino a giorno,
cercando fatti lontani
col capo tra le due mani.
  Dalla sera alla mattina,
cercando cose lontane,
stanno fissi, a fronte china,
su qualche bricia di pane,
e volendo ricordare,
bevono lagrime amare.
Oh! non ricordano i morti,
i cari, i cari suoi morti!
  - Pane, sì... pane si chiama,
che noi spezzammo concordi:
ricordate?... E` tela, a dama:
ce n'era tanta: ricordi?...
Queste?... Queste sono due,
come le vostre e le tue,
due nostre lagrime amare
cadute nel ricordare! -



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19. La schilletta di Caprona

I
  Sonata già l'Avemaria
dalla chiesa di Caprona,
si sente correre via via
la schilletta che risòna.
  Il poco viene dopo il tanto;
come là nella capanna:
un pianto ancora, un po' di pianto,
dopo tanta ninnananna!

II
  Un'ombra va col tintinnìo
di quel vecchio campanello;
e l'ombra passa lungo il rio,
gira il piccolo castello,
  si ferma un poco ad ogni soglia,
come vuole ancor quel primo
che non si sa chi fu, che voglia;
ch'era Nimo, il vecchio Nimo.

III
  Fu quando non c'era la fonte,
né la chiesa né il becchino.
Il suo muletto cadde in monte;
gli lasciò solo il bronzino,
  che avea maravigliato i botri
e le polle col suo canto,
quand'egli andava a su con gli otri,
al Saltello, al Lago Santo.

IV
  Al suon di questo che, le notti,
nell'immobile abetina
squillava tra i silenzi rotti
dal crocchiar di qualche pina,
  che su gli abissi senza voce
mise il suo dondolìo blando;
ognuno fa il segno di croce
che si fa pericolando.

V
  O vecchio, o nostro vecchio buono,
or ci sono due campane;
ma quel tuo piccoletto suono
nel castello tuo rimane.
  O Nimo, o nostro vecchio Nimo!
or c'è un doppio bello e grave;
ma tu per noi sei stato il primo
a dirci Ave! Ave! Ave!

VI
  E noi l'amiamo, il tuo bronzino,
che ci mandi, quando imbruna:
lo mandi per un fanciullino:
io lo vidi a un po' di luna.
  A un raggio pallido lo vidi:
è un ragazzo ch'hai, là, teco:
un garzonetto che ti guidi,
perché forse tu sei cieco.

VII
  Lo mandi a noi su la sericcia,
che si chiudono le porte:
ha i piedi scalzi, ma scalpiccia
sopra tante foglie morte;
  non parla, ma passando in fretta
sgrolla qualche secco ramo;
per farci udir la tua schilletta
prima che ci addormentiamo.




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20. Il primo cantore

I
  Il primo a cantare d'amore
        chi è?
Non si vede un boccio di fiore,
non ancora un albero ha mosso;
la calta sola e il titimalo
verdeggia su l'acqua del fosso:
e tu già canti, o saltimpalo,
        sicceccè... sicceccè...
II
  Un ramo non c'è, con due frasche,
per te!
Brulli sono meli e marasche;
forse il mandorlo ha imbottonato:
tu nella vigna sur un palo,
tu sul palancato d'un prato,
d'amore canti, o saltimpalo,

     sicceccè... sicceccè...

III
  Hai fretta di fare il tuo nido...
        perché?
Per un prato gira il tuo grido,
porti a un prato radiche e pappi:
non rischi dunque che sul calo
del verno si vanghi e si zappi!
Eppure gridi, o saltimpalo,
        sicceccè... sicceccè...

IV
  Hai fretta, sei savio, sai bene
        perché!
Viene il maggio, subito viene
la frullana grande che taglia...
Frulla, o falce! Forti su l'ali,
dal nido di musco e di paglia,
frullano i nuovi saltimpali...
        sicceccè... sicceccè...




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21. La capinera

  Il tempo si cambia: stasera
vuol l'acqua venire a ruscelli.
L'annunzia la capinera
tra li àlbatri e li avornielli:
                        tac tac.
  Non mettere, o bionda mammina,
ai bimbi i vestiti da fuori.
Restate, che l'acqua è vicina:
udite tra i pini e gli allori:
                        tac tac.
  Anch'essa nel tiepido nido
s'alleva i suoi quattro piccini:
per questo ripete il suo grido,
guardando il suo nido di crini:
                        tac tac.
  Già vede una nuvola a mare:
già, sotto le goccie dirotte,
vedrà tutto il bosco tremare,
covando tra il vento e la notte:
                        tac tac.




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22. Foglie morte

  Oh! che già il vento volta
e porta via le pioggie!
Dentro la quercia folta
ruma le foglie roggie
        che si staccano, e fru...
  partono; un branco ad ogni
soffio che l'avviluppi.
Par che la quercia sogni
ora, gemendo, i gruppi
        del novembre che fu.
  Volano come uccelli,
morte nel bel sereno:
picchiano nei ramelli
del roseo pesco, pieno
        de' suoi cuccoli già.
  E il roseo pesco oscilla
pieno di morte foglie:
quale s'appende e prilla,
quale da lui si toglie
        con un sibilo, e va.
  Ma quelle foglie morte
che il vento, come roccia,
spazza, non già di morte
parlano ai fiori in boccia,
        ma sussurrano: - Orsù!
  Dentro ogni cocco all'uscio
vedo dei gialli ugnoli:
tu che costì nel guscio
di più covar ti duoli,
        che ti pèriti più?
  Fuori le alucce pure,
tu che costì sei vivo!
Il vento ruglia... eppure
esso non è cattivo.
        Ruglia, brontola: ma...
  contende a noi! Ché tutto
vuol che sia mondo l'orto
pei nuovi fiori, e il brutto,
il secco, il vecchio, il morto,
        vuol che netti di qua.
  Noi c'indugiammo dove
nascemmo, un po', ma era
per ricoprir le nuove
gemme di primavera... -
        Così dicono, e fru...
  partono, ad un rabbuffo
più stridulo e più forte.
E tra un voletto e un tuffo
vanno le foglie morte,
        e non tornano più.



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23. Canzone di marzo

  Che torbida notte di marzo!
Ma che mattinata tranquilla!
che cielo pulito! che sfarzo
di perle! Ogni stelo, una stilla
che ride: sorriso che brilla
        su lunghe parole.
  Le serpi si sono destate
col tuono che rimbombò primo
Guizzavano, udendo l'estate,
le verdi cicigne tra il timo;
battevan la coda sul limo
        le biscie acquaiole.
  Ancor le fanciulle si sono
destate, ma per un momento;
pensarono serpi, a quel tuono;
sognarono l'incantamento.
In sogno gettavano al vento
        le loro pezzuole.
  Nell'aride bresche anco l'api
si sono destate agli schiocchi.
La vite gemeva dai capi,
fremevano i gelsi nei nocchi.
Ai lampi sbattevano gli occhi
        le prime viole.
  Han fatto, venendo dal mare,
le rondini tristo viaggio.
Ma ora, vedendo tremare
sopr'ogni acquitrino il suo raggio,
cinguettano in loro linguaggio,
        ch'è ciò che ci vuole.
  Sì, ciò che ci vuole. Le loro
casine, qualcuna si sfalda,
qualcuna è già rotta. Lavoro
ci vuole, ed argilla più salda;
perché ci stia comoda e calda
        la garrula prole.




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24. Valentino

  Oh! Valentino vestito di nuovo,
come le brocche dei biancospini!
Solo, ai piedini provati dal rovo
porti la pelle de' tuoi piedini;
  porti le scarpe che mamma ti fece,
che non mutasti mai da quel dì,
che non costarono un picciolo: in vece
costa il vestito che ti cucì.
  Costa; ché mamma già tutto ci spese
quel tintinnante salvadanaio:
ora esso è vuoto; e cantò più d'un mese
per riempirlo, tutto il pollaio.
  Pensa, a gennaio, che il fuoco del ciocco
non ti bastava, tremavi, ahimè!,
e le galline cantavano, Un cocco!
ecco ecco un cocco un cocco per te!
  Poi, le galline chiocciarono, e venne
marzo, e tu, magro contadinello,
restasti a mezzo, così con le penne,
ma nudi i piedi, come un uccello:
  come l'uccello venuto dal mare,
che tra il ciliegio salta, e non sa
ch'oltre il beccare, il cantare, l'amare,
ci sia qualch'altra felicità



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25. Il croco

I
  O pallido croco,
nel vaso d'argilla,
ch'è bello, e non l'ami,
coi petali lilla
tu chiudi gli stami
        di fuoco:
  le miche di fuoco
coi lunghi tuoi petali
chiudi nel cuore
tu leso, o poeta
dei pascoli, fiore
        di croco!
  Voi l'acqua di polla
ravvivi, o viole,
non chi la sua zolla
        rivuole!


II
  Ma messo ad un riso
di luce e di cielo,
per subito inganno
ritorna il tuo stelo
colà donde l'hanno
        diviso:
  tu pallido, e fiso
nel raggio che accora,
nel raggio che piace,
dimentichi ch'ora
sei esule, lacero,
        ucciso:
  tu apri il tuo cuore,
ch'è chiuso, che duole,
ch'è rotto, che muore,
        nel sole!



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26. Fanciullo mendico

  Ho nel cuore la mesta parola
d'un bimbo ch'all'uscio mi viene.
Una lagrima sparsi, una sola,
per tante sue povere pene;
  e pur quella pensai che vanisse
negl'ispidi riccioli ignota:
egli alzò le pupille sue fisse,
sentendosi molle la gota.
  E io, quasi chiedendo perdono,
gli tersi la stilla smarrita,
con un bacio, e ponevo il mio dono
tra quelle sue povere dita.
  Ed allora ne intesi nel cuore
la voce che ancora vi sta:
Non li voglio: non voglio, signore,
che scemi le vostra pietà.
  E quand'egli già fuor del cancello
riprese il solingo sentiero,
io sentii, che, il suo grave fardello,
godeva a portarselo intiero:
  e chiamava sua madre, che sorta
pareva da nebbie lontane,
a vederlo; poi ch'erano, morta
lei, morta! ma lui senza pane.




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27. La vite

  Or che il cucco forse è vicino,
mentre i peschi mettono il fiore,
cammino, e mi pende all'uncino
la spada dell'agricoltore.
  Il pennato porto, ché odo
già la prima voce del cucco...
cu... cu... io rispondo a suo modo:
mi dice ch'io cucchi, e sì, cucco.
  Sì, ti cucco, vite, ché sento
già nel sole stridere l'api:
ti taglio ogni vecchio sarmento,
ti lascio tre occhi e due capi.
  O che piangi, vite gentile,
perché al vento stai nuda nata?
Se anch'io tra i fioretti d'aprile
sembravo una vite tagliata!
  Piangi quello che ti si toglie?
Ma ti cucco, taglio ed accollo,
perché, quando cadon le foglie,
tu abbia un tuo qualche grispollo!
  O mia vite... no, o mia vita,
così torta meglio riscoppi!
E poi... com'è buono, alle dita,
l'odore di gemme di pioppi!
  E parlare, ritto su loro,
col venuto di là dal mare,
chiedendogli, in mezzo al lavoro,
quant'anni si deve campare!



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28. Il sonnellino

  Guardai, di tra l'ombra, già nera,
del sonno, smarrendo qualcosa
lì dentro: nell'aria non era
        che un cirro di rosa.
  E il cirro dal limpido azzurro
splendeva sui grigi castelli,
levando per tutto un sussurro
        d'uccelli;
  che sopra le tegole rosse
del tetto e su l'acque del rio
cantavano, e non che non fosse
        silenzio ed oblìo:
  cantavano come non sanno
cantare che i sogni nel cuore,
che cantano forte e non fanno
        rumore.

  E io mi rivolsi nel blando
mio sonno, in un sonno di rosa,
cercando cercando cercando
        quel vecchio qualcosa;
  e forse lo vidi e lo presi,
guidato da un canto d'uccelli,
non so per che ignoti paesi
        più belli...
  che pure ravviso, e mi volgo,
più belli, a guardarli più buono...
Ma tutto mi toglie la folgore...
        O subito tuono!
  ch'hai fatto succedere a un'alba
piaciuta tra il sonno, passata
nel sonno, una stridula e scialba
        giornata!




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29. La bicicletta

I
  Mi parve d'udir nella siepe
la sveglia d'un querulo implume.
Un attimo... Intesi lo strepere
        cupo del fiume.
  Mi parve di scorgere un mare
dorato di tremule mèssi.
Un battito... Vidi un filare
        di neri cipressi.
  Mi parve di fendere il pianto
d'un lungo corteo di dolore.
Un palpito... M'erano accanto
        le nozze e l'amore.
        dlin... dlin...
II
  Ancora echeggiavano i gridi
dell'innominabile folla;
che udivo stridire gli acrìdi
        su l'umida zolla.
  Mi disse parole sue brevi
qualcuno che arava nel piano:
tu, quando risposi, tenevi
        la falce alla mano.
  Io dissi un'alata parola,
fuggevole vergine, a te;
la intese una vecchia che sola
        parlava con sé.
        dlin... dlin...

III
  Mia terra, mia labile strada,
sei tu che trascorri o son io?
Che importa? Ch'io venga o tu vada,
        non è che un addio!
  Ma bello è quest'impeto d'ala,
ma grata è l'ebbrezza del giorno.
Pur dolce è il riposo... Già cala
        la notte: io ritorno.
  La piccola lampada brilla
per mezzo all'oscura città.
Più lenta la piccola squilla
        dà un palpito, e va...
        dlin... dlin...




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30. Il ritorno delle bestie

  Non sul pioppo picchia il pennato
più, né l'eco più gli risponde.
L'erta sale un uomo celato
dal carico folto di fronde.
  E il martello d'un legnaiuolo,
più lontano, più non rimbomba.
Passa il grido d'un bimbo solo:
Turella! Bianchina! Colomba!
  Porta in collo l'erba ch'ha fatta,
nella sua crinella di salcio.
Le sue bestie al greppo, alla fratta,
s'indugiano, al cesto ed al tralcio.
  Ei che vede sopra ogni tetto
già la nuvola celestina,
le minaccia col suo falcetto:
Colomba! Turella! Bianchina!
  C'è un falcetto lucido ancora
su la Pania, al fior del sereno,
dentro l'aria dolce ch'odora
d'un tiepido odore di fieno.
  C'è silenzio lassù, dov'erra
quel falcetto con qualche stella.
Solo il bimbo strilla da terra:
Bianchina! Colomba! Turella!




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31. La figlia maggiore

  Ninnava ai piccini la culla,
cuciva ai fratelli le fasce:
non sapeva, madre fanciulla,
        come si nasce.
  Nel cantuccio, zitta, da brava,
preparava cercine e telo
pei bimbi che mamma le andava
        a prendere in cielo.
  Or cantano i passeri intorno
la piccola croce, in amore...
ché lo seppe, misera, un giorno,
        come si muore!
  L'erba è verde, piena di grilli.
Non un passo, non una voce
mai. Vivono, loro, tranquilli
        intorno la croce.
  Si beccano, s'amano, pascono,
in mezzo a quel pieno di cose
e di silenzio, dove il verbasco
        fa tra le rose.
  No, passeri! su le sue zolle,
no! non fate tanto vicino!
Là fitto di bianche corolle
        è il pero e il susino.
  Andate su l'albero in fiore
che al vento si dondola e culla!
Non turbate l'umile cuore
        che non sa nulla!
  Passa il vento come un respiro
caldo, lungo, dolce, che porta
su l'alito il polline in giro...
        sopra la morta.
  No, vento d'aprile, no, vento
d'amore, no tanto vicino!
Là nei campi bacia il frumento,
        soffia tra il lino!
  Fa che venga l'anima ai cardi,
che le viti tengano il raspo:
fa che abbiano l'accia, più tardi,
        il guindolo e l'aspo!
  Ma l'erba qui prima del fiore,
ma il fiore qui prima del seme,
la frullana taglia, e due ore
        sibila e freme.
  Un vecchione falcia e raduna
l'erbe e i fiori di primavera;
poi tutto egli brucia, là, una
        limpida sera:
  la sera, una sera di maggio,
che s'odono tanti stornelli
di sui gelsi, e sente, il villaggio,
        di filugelli.
  Dal villaggio vedon la fiamma
ch'arde sola, rossa, in quel canto:
la vedono gli occhi di mamma
        pieni di pianto.
  Oh! piange, ché il vecchio le toglie
qualcosa più che le togliesse:
fili d'erba, piccole foglie,
        povera mèsse,
  fioritura, sì, bianca e rossa,
della bimba, che non lo sa:
sua sola, laggiù, nella fossa,
        maternità.

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32. L'usignolo e i suoi rivali

  Egli coglieva ed ammucchiava al suolo
secche le foglie del suo marzo primo
(era il suo nuovo marzo), il rosignolo,
  per farsi il nido. E gorgheggiava in tanto
tutto il gran giorno; e dolce più del timo
e più puro dell'acqua era il suo canto.
  Cantava, quando, per le valli intorno,
cu... cu... sentì ripetere, cu... cu...
Ecco: al cuculo egli cedette il giorno,
e di giorno non volle cantar più.
  Non più di giorno. Ma la notte! Appena
la luna estiva, di tra l'alabastro
delle rugiade, tremolò serena,
  riprese il verso; e d'ora in poi soltanto
cantava a notte; e lucido com'astro
e soave com'ombra era il suo canto.
  Cantava, quando, da non so che grotte,
sentì gemere, chiù... piangere, chiù...
All'assiuolo egli lasciò la notte,
anche la notte; e non cantò mai più.
  Or né canta né ode: abita presso
il brusìo d'una fonte e d'un cipresso.

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33. Il fringuello cieco

  Finch... finché nel cielo volai,
finch... finch'ebbi il nido sul moro,
c'era un lume, lassù, in ma' mai,
un gran lume di fuoco e d'oro,
che andava sul cielo canoro,
spariva in un tacito oblìo...
  Il sole!... Ogni alba nella macchia,
ogni mattina per il brolo,
- Ci sarà? - chiedea la cornacchia;
- Non c'è più! - gemea l'assiuolo;
e cantava già l'usignolo:
- Addio, addio dio dio dio dio... -
Ma la lodola su dal grano
saliva a vedere ove fosse.
Lo vedeva lontan lontano
con le belle nuvole rosse.
E, scesa al solco donde mosse,
trillava: - C'è, c'è, lode a Dio! -
  "Finch... finché non vedo, non credo"
però dicevo a quando a quando.
Il merlo fischiava - Io lo vedo -;
l'usignolo zittìa spiando.
Poi cantava gracile e blando:
- Anch'io anch'io chio chio chio chio... -
        Ma il dì ch'io persi cieli e nidi,
ahimè che fu vero, e s'è spento!
Sentii gli occhi pungermi, e vidi
che s'annerava lento lento.
Ed ora perciò mi risento:
- O sol sol sol sol... sole mio? -

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34. La canzone dell'ulivo

I
  A' piedi del vecchio maniero
che ingombrano l'edera e il rovo;
dove abita un bruno sparviero,
        non altro, di vivo;
  che strilla e si leva, ed a spire
poi torna, turbato nel covo,
chi sa? dall'andare e venire
        d'un vecchio balivo:
  a' piedi dell'odio che, alfine,
solo è con le proprie rovine,
        piantiamo l'ulivo!


II
  l'ulivo che a gli uomini appresti
la bacca ch'è cibo e ch'è luce,
gremita, che alcuna ne resti
        pel tordo sassello;
  l'ulivo che ombreggi d'un glauco
pallore la rupe già truce,
dov'erri la pecora, e rauco
        la chiami l'agnello;
  l'ulivo che dia le vermene
pel figlio dell'uomo, che viene
        sul mite asinello.

III
  Portate il piccone; rimanga
l'aratro nell'ozio dell'aie.
Respinge il marrello e la vanga
        lo sterile clivo.
  Il clivo che ripido sale,
biancheggia di sassi e di ghiaie;
lo assordano l'ebbre cicale
        col grido solivo.
  Qui radichi e cresca! Non vuole,
per crescere, ch'aria, che sole,
        che tempo, l'ulivo!

IV
  Nei massi le barbe, e nel cielo
le piccole foglie d'argento!
Serbate a più gracile stelo
        più soffici zolle!
  Tra i massi s'avvinchia, e non cede,
se i massi non cedono, al vento.
Lì, soffre, ma cresce, né chiede
        più ciò che non volle.
  L'ulivo che soffre ma bea,
che ciò ch'è più duro, ciò crea
        che scorre più molle.

V
  Per sé, c'è chi semina i biondi
solleciti grani cui copra
la neve del verno e cui mondi
        lo zefiro estivo.
  Per sé, c'è chi pianta l'alloro
che presto l'ombreggi e che sopra
lui regni, al sussurro canoro
        del labile rivo.
  Non male. Noi mèsse pei figli,
noi, ombra pei figli de' figli,
        piantiamo l'ulivo!

VI
  Voi, alberi sùbiti, date
pur ombra a chi pianta ed innesta;
voi, frutto; e le brevi fiammate
        col rombo seguace!
  Tu, placido e pallido ulivo,
non dare a noi nulla; ma resta!
ma cresci, sicuro e tardivo,
        nel tempo che tace!
  ma nutri il lumino soletto
che, dopo, ci brilli sul letto
        dell'ultima pace!



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35. Passeri a sera

  L'uomo che intende gli uccelli, i gridi
dei falchi, i pianti delle colombe,
ciò che le cincie dicono ai nidi,
e il chiù, che vuole più dalle tombe;
  siede a un cipresso. Passa, e lavora
sempre, un aratro, là, là, soletto,
con qualche voce ruvida. E` l'ora
che vanno i bruni passeri a letto.
  Chi vien dal monte, chi vien dal piano:
tutti al cipresso. Cantano: - Sì...
  Ora, sebbene tu non ti scopra,
sappiamo quanto buono tu fossi
ponendo pietra su pietra, e sopra
facendo un tetto d'embrici rossi.
  Per chi? Per questi passeri... E` breve,
di verno, il giorno, la notte è lunga:
tu vuoi che prima ci esca la neve,
tu vuoi che il sole prima ci giunga.
  Le case fece la tua gran mano
pei tetti, e i tetti per noi coprì.
  Hai cibi grati per noi, che sono
grandi pel nostro piccolo becco:
giorno per giorno, rompi tu buono
con i tuoi denti stessi il pan secco;
  spargi le bianche briciole, scuoti
la bianca tela; le spazzi fuori;
ma un po' lontano, come è nei voti
di questi buoni tuoi peccatori;
  che, sì, vediamo tutto da un ramo,
lieti, ma in cuore timidi un po'.
  Ed altro pensi, che spetrerebbe
tra l'alte nubi l'aquila e il falco!
Tu prendi, appena sai che ci crebbe
famiglia, i chicchi d'oro dal palco;
  esci all'aperto; spargi quei chicchi,
prodigo e cauto, tra due filari;
anzi, a che l'oro meglio ne spicchi
su quel pulito, v'erpichi ed ari.
  E noi da un ramo, comodi, udiamo
quelle tue lunghe grida, Bi... Ro...
  Vero che a volte ce li nascondi,
quei chicchi; vero; ma fai per giuoco.
Ma ecco, a volte son così fondi,
che noi diremmo, Badaci un poco!
  Pure il tuo male mai non fa male:
quelli che copre l'invida zappa,
poi, col frinire delle cicale,
mettono un gambo, fanno una rappa:
  che poi ci sgrani... Dal male il bene:
bene che nasce, male che fu. -
  Ma già i minori dormono. Soli
vegliano i vecchi. C'è chi sospira:
- Ahimè! talvolta di noi ti duoli!
Sei giusto, eppure grave nell'ira.
  Or che i novelli tengono i capi
sotto le alucce, vicino al cuore,
lo dico, mentre tacciono l'api,
le mosche, i ragni, tutto: si muore!
  Tu ci vuoi bene, certo... ma il bene
tuo lo vorremmo per un po' più... -
  E` già nell'ombra tutta la valle:
sui monti un raggio trema del giorno.
Già le notturne grandi farfalle,
coi neri teschi, ronzano intorno.
  - Oh! quel diluvio con che noi vivi
tu pigli, grandi, piccoli, troppi!
Oh! quel baleno con che ci arrivi
fino su l'alte cime dei pioppi!
  Ma da te viene ciò che ci piace:
forse anche questo ci piacerà. -
  Dormono. L'uomo parte. Il cipresso
freme di nuovi brevi bisbigli.
  - C'era non visto dunque sì presso!?
Su, la zampina... non c'è più, figli! -
  Va l'uomo, e nero tu nell'azzurro,
cipresso pieno d'anime, affondi.
Va l'uomo, ed ora bada al sussurro
che fan tra loro fievole i mondi,
  su, fitti fitti, piccoli, in pace,
nell'infinita serenità.




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36. Il gelsomino notturno

  E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso a' miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
  Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
  Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.
  Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolìo di stelle.
  Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento...
  E` l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.




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37. Il poeta solitario

  O dolce usignolo che ascolto
(non sai dove), in questa gran pace
cantare cantare tra il folto,
là, dei sanguini e delle acace;
  t'ho presa - perdona, usignolo -
una dolce nota, sol una,
ch'io canto tra me, solo solo,
nella sera, al lume di luna.
  E pare una tremula bolla
tra l'odore acuto del fieno,
un molle gorgoglio di polla,
un lontano fischio di treno...
  Chi passa, al morire del giorno,
ch'ode un fischio lungo laggiù
riprende nel cuore il ritorno
verso quello che non è più.
  Si trova al nativo villaggio,
vi ritrova quello che c'era:
l'odore di mesi-di-maggio
buon odor di rose e di cera.
  Ne ronzano le litanie,
come l'api intorno una culla:
ci sono due voci sì pie!
di sua madre e d'una fanciulla.
  Poi fatto silenzio, pian piano,
nella nota mia, che t'ho presa,
risente squillare il lontano
campanello della sua chiesa.
  Riprende l'antica preghiera,
ch'ora ora non ha perché;
si trova con quello che c'era,
ch'ora ora ora non c'è...
 ..........................................
 Chi sono? Non chiederlo. Io piango,
ma di notte, perch'ho vergogna.
O alato, io qui vivo nel fango.
Sono un gramo rospo che sogna.



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38. La guazza

  Laggiù, nella notte, tra scosse
d'un lento sonaglio, uno scalpito
è fermo. Non anco son rosse
        le cime dell'Alpi.
  Nel cielo d'un languido azzurro,
le stelle si sbiancano appena:
si sente un confuso sussurro
        nell'aria serena.
  Chi passa per tacite strade?
Chi parla da tacite soglie?
Nessuno. E` la guazza che cade
        sopr'aride foglie.
  Si parte, ch'è ora, né giorno,
sbarrando le vane pupille;
si parte tra un murmure intorno
        di piccole stille.
  In mezzo alle tenebre sole,
qualcuna riluce un minuto;
riflette il tuo Sole, o mio Sole;
        poi cade: ha veduto.