CANTI DI CASTELVECCHIO

di Giovanni Pascoli

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39. Primo canto

  Quando apparisce l'oro nel grano
col verdolino nuovo dei tralci,
e già nell'ore d'ozio il villano
sopra una pietra batte le falci;
  dall'aie, dalle prode, dal fimo
che vaporando sente la state,
voi con la gioia del canto primo,
primi galletti, tutti cantate:
                Vita da re...!
  A tutte l'ore gettate all'aria,
chi di tra i solchi, chi di sui rami,
la vostra voce stridula e varia,
chi, che ripeta, chi, che richiami.
  Chi fioco i versi muta e rimuta,
chi strilla quasi lo correggesse:
e l'uno dopo l'altro saluta
la casa, il sole, l'ombra, la mèsse:
                Vita da re...!
  Galletti arguti, gloria dell'aia
che da due mesi v'ospita e pasce,
ora la vostra vecchia massaia,
quando vi sente, pensa alle grasce:
  quando vi sente, pensa ai padroni
il contadino vostro che miete,
e mentre lega manne e covoni,
galletti arguti, con voi ripete:
                Vita da re...!
  Quando, odorati sempre di lolla,
lasciate i campi dove nasceste,
perché, se un'aspra mano vi sgrolla,
voi vi beccate tra voi le creste?
  Lunga è la strada, grave la state,
vi stringe il duro cappio di tozzo:
voi l'uno all'altro rimproverate
quel vostro canto chiuso nel gozzo:
                Vita da re...!
  Poi nel paese, tra quattro mura,
sotto il barlume forse d'un moggio,
nella cucina tacita e scura
voi ricordate l'aia ed il poggio;
  e mentre tutti dormono, e scialba
geme la luce dalle finestre,
come un lamento lungo su l'alba
suona l'antico grido silvestre:
                Vita da re...!




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40. La canzone del girarrosto

I
  Domenica! il dì che a mattina
sorride e sospira al tramonto!...
Che ha quella teglia in cucina?
che brontola brontola brontola...
  E` fuori un frastuono di giuoco,
per casa è un sentore di spigo...
Che ha quella pentola al fuoco?
che sfrigola sfrigola sfrigola...
  E già la massaia ritorna
        da messa;
così come trovasi adorna,
        s'appressa:
  la brage qua copre, là desta,
passando, frr, come in un volo,
spargendo un odore di festa,
di nuovo, di tela e giaggiolo.


II
  La macchina è in punto; l'agnello
nel lungo schidione è già pronto;
la teglia è sul chiuso fornello,
che brontola brontola brontola...
  Ed ecco la macchina parte
da sé, col suo trepido intrigo:
la pentola nera è da parte,
che sfrigola sfrigola sfrigola...
  Ed ecco che scende, che sale,
        che frulla,
che va con un dondolo eguale
        di culla.
  La legna scoppietta; ed un fioco
fragore all'orecchio risuona
di qualche invitato, che un poco
s'è fermo su l'uscio, e ragiona.


III
  E` l'ora, in cucina, che troppi
due sono, ed un solo non basta:
si cuoce, tra murmuri e scoppi,
la bionda matassa di pasta.
  Qua, nella cucina, lo svolo
di piccole grida d'impero;
là, in sala, il ronzare, ormai solo,
d'un ospite molto ciarliero.
  Avanti i suoi ciocchi, senz'ira
        né pena,
la docile macchina gira
        serena,
  qual docile servo, una volta
ch'ha inteso, né altro bisogna:
lavora nel mentre che ascolta,
lavora nel mentre che sogna.


IV
  Va sempre, s'affretta, ch'è l'ora,
con una vertigine molle:
con qualche suo fremito incuora
la pentola grande che bolle.
  E` l'ora: s'affretta, né tace,
ché sgrida, rimprovera, accusa,
col suo ticchettìo pertinace,
la teglia che brontola chiusa.
  Campana lontana si sente
        sonare.
Un'altra con onde più lente,
        più chiare,
  risponde. Ed il piccolo schiavo
già stanco, girando bel bello,
già mormora, in tavola! in tavola!,
e dondola il suo campanello.




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41. L'ora di Barga

  Al mio cantuccio, donde non sento
se non le reste brusir del grano,
il suon dell'ore viene col vento
dal non veduto borgo montano:
suono che uguale, che blando cade,
come una voce che persuade.
  Tu dici, E` l'ora; tu dici, E` tardi,
voce che cadi blanda dal cielo.
Ma un poco ancora lascia che guardi
l'albero, il ragno, l'ape, lo stelo,
cose ch'han molti secoli o un anno
o un'ora, e quelle nubi che vanno.
  Lasciami immoto qui rimanere
fra tanto moto d'ale e di fronde;
e udire il gallo che da un podere
chiama, e da un altro l'altro risponde,
e, quando altrove l'anima è fissa,
gli strilli d'una cincia che rissa.
  E suona ancora l'ora, e mi manda
prima un suo grido di meraviglia
tinnulo, e quindi con la sua blanda
voce di prima parla e consiglia,
e grave grave grave m'incuora:
mi dice, E` tardi; mi dice, E` l'ora.
  Tu vuoi che pensi dunque al ritorno,
voce che cadi blanda dal cielo!
Ma bello è questo poco di giorno
che mi traluce come da un velo!
Lo so ch'è l'ora, lo so ch'è tardi;
ma un poco ancora lascia che guardi.
  Lascia che guardi dentro il mio cuore,
lascia ch'io viva del mio passato;
se c'è sul bronco sempre quel fiore,
s'io trovi un bacio che non ho dato!
Nel mio cantuccio d'ombra romita
lascia ch'io pianga su la mia vita!
  E suona ancora l'ora, e mi squilla
due volte un grido quasi di cruccio,
e poi, tornata blanda e tranquilla,
mi persuade nel mio cantuccio:
è tardi! è l'ora! Sì, ritorniamo
dove son quelli ch'amano ed amo.




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42. Il viatico

  Là, suonano a doppio. Si sente,
qua presso, uno struscio di gente,
e suona suona un campanello
        sul dolce mezzodì.
  Si sente una lauda che sale
tra il fremito delle cicale
per il sentiero, ove il fringuello
        cauto via via zittì.
  E passa un branchetto... Son quelli.
Son poveri bimbi in capelli,
poi donne salmeggianti in coro:
        O vivo pan del ciel!...
  E` un vecchio che parte; e il paese
gli porta qualcosa che chiese,
cantando sotto il cielo d'oro:
        O vivo pan del ciel!...
  qualcosa che in tanti e tanti anni,
cercando tra gioie ed affanni,
ancora non poté riporre
        da portar via con sé.
  E gli altri si assidono a mensa,
ma egli ancor cerca, ancor pensa
al niente, al niente che gli occorre,
        a un piccolo perché,
  nel piccolo passo, ch'è un volo
di mosca, ch'è un attimo solo...
Quel giorno anche per me, campane,
        sonate pur così,
  quel canto, in quell'ora, s'inalzi,
portatemi, o piccoli scalzi,
portatelo anche a me quel pane,
        sul vostro mezzodì.




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43. L'imbrunire

  Cielo e Terra dicono qualcosa
l'uno all'altro nella dolce sera.
Una stella nell'aria di rosa,
un lumino nell'oscurità.
  I Terreni parlano ai Celesti,
quando, o Terra, ridiventi nera;
quando sembra che l'ora s'arresti,
nell'attesa di ciò che sarà.
  Tre pianeti su l'azzurro gorgo,
tre finestre lungo il fiume oscuro;
sette case nel tacito borgo,
sette Pleiadi un poco più su.
  Case nere: bianche gallinelle!
Case sparse: Sirio, Algol, Arturo!
Una stella od un gruppo di stelle
per ogni uomo o per ogni tribù.
  Quelle case sono ognuna un mondo
con la fiamma dentro, che traspare;
e c'è dentro un tumulto giocondo
che non s'ode a due passi di là.
  E tra i mondi, come un grigio velo,
erra il fumo d'ogni focolare.
La Via Lattea s'esala nel cielo,
per la tremola serenità.




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44. La fonte di Castelvecchio

  O voi che, mentre i culmini Apuani
il sole cinge d'un vapor vermiglio,
e fa di contro splendere i lontani
                        vetri di Tiglio;
  venite a questa fonte nuova, sulle
teste la brocca, netta come specchio,
equilibrando tremula, fanciulle
                        di Castelvecchio;
  e nella strada che già s'ombra, il busso
picchia de' duri zoccoli, e la gonna
stiocca passando, e suona eterno il flusso
                        della Corsonna:
  fanciulle, io sono l'acqua della Borra,
dove brusivo con un lieve rombo
sotto i castagni; ora convien che corra
                        chiusa nel piombo.
  A voi, prigione dalle verdi alture,
pura di vena, vergine di fango,
scendo; a voi sgorgo facile: ma, pure
                        vergini, piango:
  non come piange nel salir grondando
l'acqua tra l'aspro cigolìo del pozzo:
io solo mando tra il gorgoglio blando
                        qualche singhiozzo.
  Oh! la mia vita di solinga polla
nel taciturno colle delle capre!
udir soltanto foglia che si crolla,
                        cardo che s'apre,
  vespa che ronza, e queruli richiami
del forasiepe! Il mio cantar sommesso
era tra i poggi ornati di ciclami
                        sempre lo stesso;
  sempre sì dolce! E nelle estive notti,
più, se l'eterno mio lamento solo
s'accompagnava ai gemiti interrotti
                        dell'assiuolo,
  più dolce, più! Ma date a me, ragazze
di Castelvecchio, date a me le nuove
del mondo bello: che si fa? le guazze
                        cadono, o piove?
  e per le selve ancora si tracoglie,
o fate appietto? ed il metato fuma,
o già picchiate? aspettano le foglie
                        molli la bruma,
  o le crinelle empite ne' frondai
in cui dall'Alpe è scesa qualche breve
frasca di faggio? od è già l'Alpe ormai
                        bianca di neve?
  Più nulla io vedo, io che vedea non molto
quando chiamavo, con il mio rumore
fresco, il fanciullo che cogliea nel folto
                        macole e more.
  Col nepotino a me venìa la bianca
 vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo
andare come vaccherella stanca
                        va col suo redo.
  Nella deserta chiesa che rovina,
vive la bianca Matta dei Beghelli
più? desta lei la sveglia mattutina
                più, de' fringuelli?
  Essa veniva al garrulo mio rivo
sempre garrendo dentro sé, la vecchia:
e io, garrendo ancora più, l'empivo
                        sempre la secchia.
  Ah! che credevo d'essere sua cosa!
Con lei parlavo, ella parlava meco,
come una voce nella valle ombrosa
                        parla con l'eco.
  Però singhiozzo ripensando a questa
che lasciai nella chiesa solitaria,
che avea due cose al mondo, e gliene resta
                        l'una, ch'è l'aria.




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45. Temporale

  E` mezzodì. Rintomba.
Tacciono le cicale
nelle stridule seccie.
  E chiaro un tuon rimbomba
dopo uno stanco, uguale,
rotolare di breccie.
  Rondini ad ali aperte
fanno echeggiar la loggia
de' lor piccoli scoppi.
  Già, dopo l'afa inerte,
fanno rumor di pioggia
le fogline dei pioppi.
  Un tuon sgretola l'aria.
Sembra venuto sera.
Picchia ogni anta su l'anta.
  Serrano. Solitaria
s'ode una capinera,
là, che canta... che canta...
  E l'acqua cade, a grosse
goccie, poi giù a torrenti,
sopra i fumidi campi.
  S'è sfatto il cielo: a scosse
v'entrano urlando i venti
e vi sbisciano i lampi.
  Cresce in un gran sussulto
l'acqua, dopo ogni rotto
schianto ch'aspro diroccia;
  mentre, col suo singulto
trepido, passa sotto
l'acquazzone una chioccia.
  Appena tace il tuono,
che quando al fin già pare,
fa tremare ogni vetro,
  tra il vento e l'acqua, buono,
s'ode quel croccolare
co' suoi pigolìi dietro.




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46. La mia sera

  Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
        Che pace, la sera!
  Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
        nell'umida sera.
  E`, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
        nell'ultima sera.
  Che voli di rondini intorno!
che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Né io... e che voli, che gridi,
        mia limpida sera!
  Don... Don... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era...
sentivo mia madre... poi nulla...
        sul far della sera.




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47. In viaggio

  Si ferma, e già fischia, ed insieme,
tra il ferreo strepito del treno,
si sente una squilla che geme,
là da un paesello sereno,
paesello lungo la via:
        Ave Maria...
  Un poco, tra l'ansia crescente
della nera vaporiera,
l'addio della sera si sente
seguire come una preghiera,
seguire il treno che s'avvia:
     Ave Maria...
  E, come se voglia e non voglia,
il treno nel partir vacilla:
quel suono ci chiama alla soglia
e alla lampada che brilla,
nella casa, ch'è una badia:
        Ave Maria...
  Il padre a quel suono rincasa
facendo un passo ad ogni tocco;
e subito all'uscio di casa
trova il visino del suo cocco,
del più piccino che ci sia...
        Ave Maria...
  Si chiude, la casa; e s'appanna
d'un tratto il vocerìo che c'è;
si chiude, ristringe, accapanna,
per parlare tra sé e sé;
e saluta la compagnia...
        Ave Maria...
  O, tinta d'un lieve rossore,
casina che sorridi al sole!
per noi c'è la notte con l'ore
lunghe lunghe, con l'ore sole,
con l'ore di malinconia...
        Ave Maria...
  Il treno già vola e ci porta
sbuffando l'alito di fuoco;
e ancora nell'aria più smorta
ci giunge quell'addio più fioco,
dal paese che fugge via:
        Ave Maria...
  E cessa. Ma uno che vuole
velar gli occhi, pensar lontano,
tra gemiti e strilli e parole,
tra il frastuono or tremolo or piano,
ode il suono che non s'oblia:
        Ave Maria...
  Con l'uomo che va nella notte,
tra gli aspri urli, i lunghi racconti
del treno che corre per grotte
di monti, sopra lenti ponti,
vien nell'ombrìa la voce pia:
        Ave Maria...



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48. Maria

  Ti splende su l'umile testa
la sera d'autunno, Maria!
Ti vedo sorridere mesta
tra i tocchi d'un'Avemaria:
sorride il tuo gracile viso;
né trova, il tuo dolce sorriso,
        nessuno:
  così, con quelli occhi che nuovi
si fissano in ciò che tu trovi
per via; che nessuno ti sa;
quelli occhi sì puri e sì grandi,
coi quali perdoni, e domandi
        pietà:
  quelli occhi sì grandi, sì buoni,
sì pii, che da quando li apristi,
ne diedero dolci perdoni!
ne sparsero lagrime tristi!
quelli occhi cui nulla mai diede
nessuno, cui nulla mai chiede
        nessuno!
  quelli occhi che toccano appena
le cose! due poveri a cena
dal ricco, ignorati dai più;
due umili in fondo alla mensa,
due ospiti a cui non si pensa
        già più!

 

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49. La mia malattia

I
  L'altr'anno, ero malato, ero lontano,
a Messina: col tifo. All'improvviso
udivo spesso camminar pian piano,
  a piedi scalzi. Era Maria, col viso
tutt'ombra, dove un mio levar di ciglia
gettava sempre un lampo di sorriso.
  A volte erano i morti, la famiglia
nostra... Io pian piano mi sentia toccare
il polso, e sussurrare: - Oh! la mia figlia!
  sola! con nulla! con di mezzo il mare! -

II
  Quelle sere, Maria non, come suole,
pregava al mio guanciale, co' suoi lenti
bisbigli, con le sue dolci parole:
  dolci parole dette per gli assenti
al buon Gesù, dette per me: preghiere
perché in pace riposi e m'addormenti.
  Prega, e vuol ch'io ripeta. Quelle sere,
nulla, o diceva: "Dormi, ch'hai la voce
debole; è meglio ora per te tacere,
  dormire; fatti il segno della croce".

III
  Io pensava: - Ma dunque ella non crede
più, tanto? Che sarà della sua vita,
un vilucchio avvoltato alla sua fede? -
  E pensando, alla mente illanguidita
io richiamava le devozioni
già dette con le mie tra le sue dita.
  E ricordai che tra quei fiochi suoni
che a un Angiolo bisbiglia che li porti
su, c'era il Requiem; c'era anche: Vi doni
  nostro Signore eterna pace, o morti!

IV
  Morti che amate, morti che piangete,
morti che udivo camminar pian piano
nella mia, nella sua stanza a parete:
  che sempre in dubbio d'aspettare in vano
sempre aspettate con pupille fisse,
come il mendico, tesa ch'ha la mano,
  quelle preghiere; oh! sì, Maria le disse,
quelle preghiere, ma da sé, ma ebbre
di pianto, ma di là... che non sentisse
  suo fratello, che aveva alta la febbre...




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50. Un ricordo

  Andavano e tornavano le rondini,
intorno alle grondaie della Torre,
ai rondinotti nuovi. Era d'agosto.
Avanti la rimessa era già pronto
il calessino. La cavalla storna
calava giù, seccata dalle mosche,
l'un dopo l'altro tutti quattro i tonfi
dell'unghie su le selci della corte.
Era un dolce mattino, era un bel giorno:
di San Lorenzo. Il babbo disse: "Io vo".
  E in un gruppo tubarono le tortori.
Esse là nella paglia erano in cova.
Tra quel hu hu, mia madre disse: "Torna
prestino". "Sai che volerò!" "Non correr
tanto: la tua stornella è appena doma".
"Eh! mi vuol bene!" "Addio". "Addio". "Vai solo?
non prendi Jên?" "Aspetto quel signore
da Roma..." "E` vero. Ti verremo incontro
a San Mauro. Io sarò sotto la Croce.
Tu ci vedrai passando". "Io vi vedrò".
  E Margherita, la sorella grande,
di sedici anni, disse adagio: "Babbo..."
"Che hai?" "Ho, che leggemmo nel giornale
che c'è gente che uccide per le strade..."
Chinò mio padre tentennando il capo
con un sorriso verso lei. Mia madre
la guardò coi suoi cari occhi di mamma,
come dicendo: A cosa puoi pensare!
E le rondini andavano e tornavano,
ai nidi, piene di felicità.
  Mio padre palpeggiò la sua cavalla
che l'ammusò con cenno familiare.
Riguardò le tirelle e il sottopancia,
e raccolte le briglie, calmo e grave,
si volse ancora a dire: "Addio!" Mia madre
s'appressò con le due bimbe per mano:
la più piccina a lui toccò la mazza.
Egli teneva il piede sul montante.
E in un gruppo le tortori tubarono,
e si sentì: "Papà! Papà! Papà!"
  E un poco presa egli sentì, ma poco
poco, la canna come in un vignuolo,
come v'avesse cominciato il nodo
un vilucchino od una passiflora.
Sì: era presa in una mano molle,
manina ancora nuova, così nuova
che tutto ancora non chiudeva a modo.
Era la bimba che vi avea ravvolte,
come poteva, le sue dita rosa,
e che gemeva: "No! no! no! no! no!"
  Mio padre prese la sua bimba in collo,
col suo gran pianto ch'era di già roco;
e la baciò, la ribaciò negli occhi
zuppi di già per non so che martoro.
"Non vuoi che vada?" "No!" "Perché non vuoi?"
"No! no!" "Ti porto tante belle cose!"
"No! no!" La pose in terra: essa di nuovo
stese alla canna le sue dita rosa,
gli mise l'altro braccio ad un ginocchio:
"No! no! papà! no! no! papà! no! no!"
  Non s'udì che quel pianto e quei singulti
nel tranquillo mattino tutto luce.
Più non raspava i ciottoli con l'unghia
la cavalla, e volgea la testa smunta
alla bimba. E le tortori, hu, hu!
Povera bimba! non avea compiuti
due anni, e ancor dormiva nella culla.
Sapea di latte il suo gran pianto lungo:
assomigliava ad un vagir notturno.
Mio padre disse: "Non partirò più".
  Jên, a un suo cenno, menò fuor del muro
la cavalla, aspettando ad un altro uscio.
Lontanò essa con un ringhio acuto.
E mio padre baciò la creatura,
e le disse: "Non vado: entro; mi muto,
e sto con te. Perché tu sia sicura,
prendi la canna". Rabbrividì tutta
essa, come un uccello quando arruffa
le piume; le spianò; poi con le due
braccia abbracciò la canna di bambù.
  Ed aspettò. Aspetta ancora. Il babbo
non tornò più. Non si rivide a casa.
Lo portarono a sera in camposanto,
lo stesero in un tavolo di marmo,
dissero, oh! sì! dissero ch'era sano,
e che avrebbe vissuto anche molti anni.
Ma uno squarcio aveva egli nel capo,
ma piena del suo sangue era una mano.
Maria! Maria! quel pegno di tuo padre,
ciò che di lui rimase, ove sarà?
  Sorella, a volte penso che tu l'abbia,
che tu lo tenga ancora fra le braccia.
Così mi pare a volte, che ti guardo
e tu non vedi, ché tu stai pregando.
Tieni le braccia in croce, un poco lasse;
e tieni ancora gli occhi fissi in alto.
Stai come quando ti lasciò tuo padre;
sicura, come allora. Ma una lagrima
ancora scorre a te, di quelle, e il labbro
balbetta ancora, sì: "Papà! Papà!"



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51. Il nido di "farlotti"

  Tra gli autunnali giorni ricorre
al mio pensiero sempre quel giorno,
che dal palazzo, dalla gran Torre,
facemmo un tanto mesto ritorno:
  ritorno tanto mesto, sebbene
fosse alla bianca nostra casina
che aveva ai piedi tante verbene
e su pei muri tanta cedrina;
  dov'era, dietro siepi riquadre
di biancospino, dietro un cancello
verde, ciò ch'era della mia madre,
nostro, ma poco; poco, ma bello.
  Io non credeva, fuori che in sogno,
fossero altrove gigli e giaggioli,
e il dolce odore del catalogno
e gli agri pomi de' lazzeruoli:
  e ch'altro al mondo fosse che il troppo,
dopo le canne fitte dell'orto
e la mimosa, ch'è morta, e il pioppo,
ch'è morto, e l'alto cedro, ch'è morto.
  Oh! sì, com'era mesto il ritorno,
e sì, la sera com'era mesta,
ben ch'in San Mauro fosse, quel giorno,
un'argentina romba di festa!
  Ma morto il babbo da più d'un mese,
non c'era posto per i suoi nati
più, nella Torre, sì che al paese
ritornavamo come scacciati.
  Noi s'era in otto, nove con essa,
nella carrozza, piccoli, stretti
a lei che stava bianca e dimessa
tra lo scoppiare dei mortaretti;
  che si vedeva pallida e magra
tra il rintoccare delle campane.
Noi si tornava per una sagra
senza più padre senza più pane.
  E disse un uomo; disse: e l'udiva
ella e ne pianse le lunghe notti
e ne fu trista fin che fu viva,
un anno: "Un nido, ve', di farlotti!"
  Verlette, quando v'odo cantare,
nunzie che il caldo viene e la state,
nelle mattine tacite e chiare,
nelle opaline lunghe serate;
  Oh! - dico - il nido fatto tra i rovi.
il vostro nido messo tra il rusco,
oh! che il villano non ve lo trovi,
il molle nido pieno di musco!
  che rozzo è fuori, radiche e stecchi,
ma dentro è tutto lana e lichene,
dove d'un solo tratto sei becchi
s'aprono a un solo grillo che viene!
  viene nel becco vostro, che intanto
state sur una vetta vicine
spiando il cibo raro e col canto
cullando il nido ch'è tra le spine!
  Oh! voi non, mentre gettate il grido
che salva gli altri, predi l'astore;
né il bruco e il grillo manchi nel nido,
né il calduccino di sotto il cuore!
  E quando viene Santa Maria
che rende all'uomo l'arma sua lunga,
oh! la covata vostra già sia
buona a volare; ch'e' non vi giunga!
  Siano volastri per mezzo agosto,
né con la mano l'uomo li pigli
dopo un voletto, poco discosto
dal nido... come, madre, i tuoi figli!
  E come, o madre, quella parola
ti si confisse tanto nel petto,
che assomigliava la famigliuola
tua nuda a quella d'un uccelletto?
  O madre! o madre! non era vero?
non eran ali dunque le tue?
non anche prese te lo sparviero
lasciando il nido senza voi due?
  prima con otto bocche, poi sette,
sei, cinque... aperte sempre al tuo volo,
aperte invano... sì, di verlette:
nido fra i duri triboli solo.
  Tra quei che il falco non ghermì poi,
o l'uomo vile, madre mia santa,
tra quei farlotti piccoli tuoi,
uno non vola dunque? non canta?
  non era vero vero? le prime
arie non canta, semplici e tristi?
non vola, in alto, poi dalle cime
scende là dove tu gli sparisti?
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