CANTI DI CASTELVECCHIO

di Giovanni Pascoli

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67. Il bolide

  Tutto annerò. Brillava, in alto in alto,
il cielo azzurro. In via con me non c'eri,
in lontananza, se non tu, Rio Salto.
  Io non t'udiva: udivo i cantonieri
tuoi, le rane, gridar rauche l'arrivo
d'acqua, sempre acqua, a maceri e poderi.
  Ricordavo. A' miei venti anni, mal vivo,
pensai tramata anche per me la morte
nel sangue. E, solo, a notte alta, venivo
  per questa via, dove tra l'ombre smorte
era il nemico, forse. Io lento lento
passava, e il cuore dentro battea forte.
  Ma colui non vedrebbe il mio spavento,
sebben tremassi all'improvviso svolo
d'una lucciola, a un sibilo di vento:
  lento lento passavo: e il cuore a volo
andava avanti. E che dunque? Uno schianto;
e su la strada rantolerei, solo...
  no, non solo! Lì presso è il camposanto,
con la sua fioca lampada di vita.
Accorrerebbe la mia madre in pianto.
  Mi sfiorerebbe appena con le dita:
le sue lagrime, come una rugiada
nell'ombra, sentirei su la ferita.
  Verranno gli altri, e me di su la strada
porteranno con loro esili gridi
a medicare nella lor contrada,
  così soave! dove tu sorridi
eternamente sopra il tuo giaciglio
fatto di muschi e d'erbe, come i nidi!
  Mentre pensavo, e già sentìa, sul ciglio
del fosso, nella siepe, oltre un filare
di viti, dietro un grande olmo, un bisbiglio
  truce, un lampo, uno scoppio... ecco scoppiare
e brillare, cadere, esser caduto,
dall'infinito tremolìo stellare,
  un globo d'oro, che si tuffò muto
nelle campagne, come in nebbie vane,
vano; ed illuminò nel suo minuto
  siepi, solchi, capanne, e le fiumane
erranti al buio, e gruppi di foreste,
e bianchi ammassi di città lontane.
  Gridai, rapito sopra me: Vedeste?
Ma non v'era che il cielo alto e sereno.
Non ombra d'uomo, non rumor di péste.
  Cielo, e non altro: il cupo cielo, pieno
di grandi stelle; il cielo, in cui sommerso
mi parve quanto mi parea terreno.

  E la Terra sentii nell'Universo.
Sentii, fremendo, ch'è del cielo anch'ella.
E mi vidi quaggiù piccolo e sperso
  errare, tra le stelle, in una stella.



 

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68. Tra San Mauro e Savignano

  Una voce ora udii nel camposanto.
- Dal tetro sonno in pieno dì mi scosse
un lungo squillo che parea di pianto.
  E... Oh! speranza del mio cuor superba!
I miei cari lasciai nelle lor fosse
dormire avvolti in bianche fibre d'erba.
  Cantavano un soave inno le trombe,
di pianto e gloria; ed echeggiava lento
su l'immobilità delle altre tombe.
  La mia sussultò sola. Era d'un grande
popolo il passo... mi parea che al vento
s'esalasse l'odor delle ghirlande...
  Chi venne in pia soavità di rose
alla sua pace? Forse... Ora che ai vivi
apri l'anime, o notte, ombri le cose;
  vado: la voglio rimirar, con l'orme
del pensiero ma già sui semprevivi
calma, la fronte di colui che dorme.
  Odor di fiori mi conduce ov'egli
dorme... Non è chi mi sperava il cuore.
Non è. Non è... Ma chi sei tu? Tu vegli!
  Oh! non hai pace!... Io so chi sei... chi eri.
Tu sei colui che uccide e che poi muore.
Oh! son anni, son anni anni... Fu ieri.
  Tu non hai fatto che bagnar la fossa
tua del mio sangue. E tu davi la morte
che ignoravi? Ma eri anche tu d'ossa.
  L'uomo non ti punì? Tu dalla vita
giungi tra i fiori? Hai oggi dalla morte
la pena che sarebbe oggi finita.
  Riposeresti... Oh! i figli miei! Tu giungi
or dalla vita. Alcuni già qui sono
con me, con noi. Gli altri, non so, ma lungi.
  Una dormiva ancora nella culla.
Tutti piccoli, tristi, in abbandono
e scoramento... Ne sai nulla?... Nulla.
  Avevi i tuoi... Ma io, io ombra esangue,
io di qui sopra le lor nude vite
getto il mantello del mio puro sangue.
  Se fanno il male, li difendo io, sorto
su loro. Uomini, me me non punite,
se chi m'uccise, infuria su me morto!
  Se poi si sono stretti, umili e proni
al lor destino e nella terra amara
per bontà loro vollero esser buoni;
  oh! benedetti! E il tristo ieri adorni
oggi di fiori semplici la cara
miseriola dei lor miti giorni.
  Ma se alcuno di loro, dallo stento
della sua giovinezza, a poco a poco
avesse alzato, oh! non la fronte e il mento,
  ma il cuore! il cuore! se dalla sua creta
insanguinata avesse tratto il fuoco!
se fosse, quel mendico, ora un poeta!
  fosse un consolatore, egli cui niuno
consolò! fosse, il derelitto, un forte!
un grande fosse l'orfano digiuno!...
  Io sogno! Io sogno, o muto autor del male!
ma se di quelli che dannasti a morte
col padre loro, fosse, uno, immortale!
  Oh! se qui, con soavi inni, a' suoi morti
ch'egli amò tanto, il popolo suo mai,
in un giorno d'amor, non lo riporti;
  io là sarò, col figlio mio sepolto,
che mi ridona ciò che gli donai,
che m'ha ridato ciò che tu m'hai tolto! -
  Oh padre!... Gli astri... Vega, Aquila, Arturo...
splendeano sopra il camposanto oscuro...



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APPENDICE

69. Diario autunnale
        (1907)

I
                Bologna, 1 novembre.

  Che fanno là, presso la muta altana,
i crisantemi, i nostri fior, che fanno?
  Oh! stanno là, con la beltà lor vana,
a capo chino, lagrimando, stanno.
  Pensano che quest'anno sei lontana,
lagrimano che non ci sei quest'anno.
  Non torna più! mormora la campana...
Ma le cincie: Sì! Sì! Ritorneranno!


II
                Bologna, 2 novembre.

  Per il viale, neri lunghi stormi,
facendo tutto a man a man più fosco,
passano: preti, nella nebbia informi,
che vanno in riga a San Michele in Bosco.
  Vanno. Tra loro parlano di morte.
Cadono sopra loro foglie morte.
  Sono con loro morte foglie sole.
Vanno a guardare l'agonia del sole.


III

                Torre di San Mauro.
                Notte dal 9 al 10 novembre.

  Dormii sopra la chiesa della Torre.
Cantar, la notte, udii soave e piano.
  Udii, tra sonno e sonno, voci e passi,
e tintinnire il campanello d'oro,
ed un fruscìo di pii bisbigli bassi,
ed un ronzìo d'alte preghiere in coro,
ed una gloria d'organo canoro,
che dileguava a sospirar lontano.
  A sospirar così soave e piano!
Era una messa. Santo! Santo! Santo!
  Ma eran voci morte che cantare
udii la notte fino sul mattino:
un morto prete curvo su l'altare,
un bimbo morto ritto sul gradino,
con su le spalle il suo lenzuol di lino
in che l'avvolse la sua madre in pianto.
  Era la messa. Santo! Santo! Santo!
Ma sul mattino ecco garrir gli uccelli:
  - No: era il vento quel ronzìo che udisti,
erano pioggia quei bisbigli bassi.
Frusciavan alto i vecchi abeti tristi,
brusivan cupo i tristi vecchi tassi.
Erano foglie, foglie secche, i passi,
cadute ai vecchi tigli, ai vecchi ornelli. -
  Così garrendo mi dicean gli uccelli.
E i vecchi alberi: - Il tempo, come corre!
  Quel campanello era il tuo vecchio cuore,
in cui battean vecchie memorie care;
ma le altre voci, fievoli o sonore,
di noi, non le potevi ricordare...
Siamo di dopo!... A que' tuoi giorni, pare,
tutto era a prato avanti quella Torre. -


IV

                Bologna, 14 novembre.

  La luna par che adagio si avvicini
a San Michele, e guardi nel Convento.
No: non ci sono frati, ma bambini...
fuori del nido. Ella ristà tra il vento.
  Han l'ali rotte... Ma nei letti bianchi
dormono in lunghe file, come stanchi;
  stanchi di voli, ora sognati almeno,
che poi la madre li raccoglie al seno.
  La luna ascolta. Non li vuol destare
ma vuol vedere; e se ne va, ma sale.
Illuminare deve i monti e il mare,
ma un raggio manda anche sul lor guanciale.
  E sale il cielo, l'alto cielo buono;
cerca le stelle in cielo: dove sono?...
  e corre e cerca: dove mai son elle?...
Vuol dir la cosa alle virginee stelle.


V

                Bologna, 20 novembre.

        Il ponte sull'Aposa

  Aposa trista! Il povero al tuo ponte
sosta, e non altri. Siede sul sedile,
né guarda: non a valle non a monte:
  non alle torri lunghe e sdutte, che oggi
sfumano in grigio, non a quelle file
d'alti cipressi tra i castagni roggi:
  ascolta, a capo chino, ad occhi bassi,
te che laggiù brontoli cupa, e passi.
  A te vengono gli uomini infelici,
Aposa trista! E nella solitaria
notte a qualcuno tristi cose dici.
  T'ascolta a lungo. E poi, quando una foglia
secca di platano, a un brivido d'aria,
sembra un fruscìo di gonna su la soglia:
  ecco, quell'uomo non è più: dirupa...
tu passi, e dopo un po' brontoli cupa.
  Aposa trista! E l'Aposa risponde:
- Vien l'usignolo, a marzo, tra le acace!
  Al gorgoglìo delle mie picciole onde
sta prima attento, a lungo impara, e tace.
  Ma poi di canto m'empie le due sponde;
e il canto suo già mio singulto fu.
  Canta al suo nido, al nido suo di fronde,
di quelle fronde che cadono giù... -



VI

             Bologna, 12 decembre.
        Narcissi

  - Narcissi d'oro, candidi narcissi,
voi che corona avete oltre corolla:
  per cuna aveste un vaso, e non la zolla;
terriccio a letto, e non la madre terra.
  Per gli altri il freddo, ma per voi la serra;
morivan gli altri, e voi veniste in boccia.
  Ora ogni foglia stride e s'accartoccia;
e voi fiorite, lieti, belli, e soli. -
  - Oh! i primi caldi dopo il verno, e i voli
delle farfalle, e i canti dei fringuelli!
  Al sole uscir con tutti i suoi fratelli,
odorar tutti al cominciar d'aprile!
  al vento, all'acqua, a gruppi a macchie a file,
in tanti, in tanti, da sfiorire in pace!
  nel prato, con le altr'erbe, fin che piace
alla falce che agguaglia erbe e narcissi. -


VII

             Castelvecchio, 15 decembre.
        Nell'orto

  A casa mia giunto sul vespro alfine,
io vedo un sogno ch'è pur cosa vera.
I quattro peri che piantai nell'orto
a circondar la conca d'arenaria,
vedo fioriti! E il cielo è bigio e smorto,
la nebbia fuma, fredda punge l'aria:
la neve è su la Pania solitaria...
- Allora, a marzo, o che lassù non c'era? -
  E tutto cade, tutto va, si perde;
il fiume va come una folla in pianto.
La quercia ha il musco e l'edera, di verde:
sui verdi rami ha un suo gran rosso manto.
Sol foglie secche, e i vostri fior soltanto!...
- O non era così di primavera? -
  Marzo a decembre, alba somiglia a sera!
Eppure altro è il principio, altro la fine.
  Vedo tremare un poco le fogline
delle corolle al vento che le sfiora.
  Avete il tempo, arbusti miei, sbagliato:
ora non viene la dolciura in cielo.
Non si prepara a rifiorire il prato:
viene la brina e mangia ogni suo stelo.
Viene la brina, ed anche viene il gelo...
- E così dunque non accadde allora? -
  Ma il monte allora ritornò turchino,
e fiorirono i peschi e gli albicocchi.
Era fiorito il mandorlo e il susino,
metteva il melo foglie e fiori a gli occhi.
Fiori per tutto, a spighe, a mazzi, a fiocchi...
- A noi, col gelo li strinò l'aurora! -
  Poveri arbusti! E si riprovan ora.
Oh! videro fiorire anche le spine!...


VIII

                Castelvecchio, 21 decembre.

  Io sento il suono dell'antica avena
su l'alba ancora scialba ma serena.
  Ed ecco il monte trascolora in rosa,
splendono i vetri a tutte le finestre.
E gente va, che vuol saper la cosa,
per le callaie e per le vie maestre.
Va dove il placido organo silvestre
canta l'antica sacra cantilena.
  E` un pastor bianco al pari della neve,
che non ha casa ed anco all'otre beve.
  Dice: - Era il sole per fuggir dal cielo.
Oggi s'è fermo e tornerà pian piano.
Piccolo è il seme, ma fa lungo stelo;
il seme è poco, ma fa tanto grano:
ed il buon Sole per un anno sano
semina, o genti, il giorno suo più breve. -