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Sant’Ambrogio

di Giuseppe Giusti

Vostra Eccellenza che mi sta in cagnesco

per que’ pochi scherzucci di dozzina,

e mi gabella per anti-tedesco

perché metto le birbe alla berlina,

o senta il caso avvenuto di fresco

a me che girellando una mattina,

capito in Sant’Ambrogio di Milano,

in quello vecchio, là, fuori di mano.

M’era compagno il figlio giovinetto

d’un di que’ capi un po’ pericolosi,

di quel tal Sandro, autor d’un romanzetto,

ove si tratta di Promessi Sposi…

Che fa di nesci Eccellenza? O non l’ha letto?

Ah, intendo; il suo cervel, Dio lo riposi,

in tutt’altre faccende affaccendato,

a questa roba è morto e sotterrato.

Entro, e ti trovo un pieno di soldati,

di que’ soldati settentrïonali,

come sarebbe Boemi e Croati,

messi qui nella vigna a far da pali:

difatti se ne stavano impalati,

come sogliono in faccia a’ Generali,

co’ baffi di capecchio e con que’ musi,

davanti a Dio dritti come fusi.

Mi tenni indietro; che piovuto in mezzo

di quella maramaglia, io non lo nego

d’aver provato un senso di ribrezzo

che lei non prova in grazia dell’impiego.

Sentiva un’afa, un alito di lezzo:

scusi, Eccellenza, mi parean di sego,

in quella bella casa del Signore

fin le candele dell’altar maggiore.

Era un coro del Verdi; il coro a Dio

Là de’ Lombardi miseri assetati;

quello: O Signore, dal letto natio,

che tanti petti ha scossi e inebriati.

Qui cominciai a non esser più io;

e come se que’ cosi doventati

fossero gente della nostra gente,

entrai nel branco involontariamente.

 

Che vuol ella, Eccellenza, il pezzo è bello,

poi nostro, e poi suonato come va;

e coll’arte di mezzo, e col cervello

dato all’arte, l’ubbie si buttan là.

Ma cessato che fu, dentro, bel bello

Io ritornava a star, come la sa;

quand’eccoti, per farmi un altro tiro,

da quelle bocche, che parean di ghiro,

un cantico tedesco lento lento

per l’aer sacro a Dio mosse le penne:

era preghiera e mi parea lamento,

d’un suono grave, flebile, solenne

tal, che sempre nell’anima lo sento

e mi stupisco che in quelle cotenne,

in quei fantocci esotici di legno,

potesse l’armonia fino a quel segno.

Sentìa nell’inno la dolcezza amara

de’ canti uditi da fanciullo: il core,

che da voce domestica gl’impara,

ce li ripete i giorni del dolore:

un pensier mesto della madre cara,

n desiderio di pace e d’amore,

uno sgomento di lontano esilio,

che mi faceva andare in visibilio.

E quando tacque, mi lasciò pensoso

di pensieri più forti e più soavi.

Costor, dicea tra me, Re pauroso,

degl’italici moti e degli slavi,

strappa a’ lor tetti, e qua, senza riposo

schiavi gli spinge per tenerci schiavi;

gli spinge di Croazia e di Boemme,

come mandre a svernar nelle Maremme.

A dura vita, a dura disciplina,

muti, derisi, solitari stanno

strumenti ciechi d’occhiuta rapina

che lor non tocca e che forse non sanno.

E quest’odio che mai non avvicina

Il popolo lombardo all’alemanno,

giova a chi regna dividendo, e teme

popoli avversi affratellati insieme.

Povera gente! Lontana da’ suoi,

in un paese qui che le vuol male,

chi sa che in fondo all’anima po’ poi

non mandi a quel paese il principale!

Gioco che l’hanno in tasca come noi –

Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale;

colla su’ brava mazza di nocciolo,

duro e piantato lì come un piolo.

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