Triage

 

Mi è capitato anni fa, quando Margaret, la nostra capo-infermiera australiana a Kabul, mi prese sottobraccio. "Vieni, ci sono già un centinaio di feriti nel cortile, devi fare il triage."

C'erano molti combattenti tra loro, una situazione atipica, e quei combattenti ci erano in qualche modo familiari. Avevano tenuto sotto tiro noi e il nostro ospedale per giorni, senza alcun rispetto per gli altri feriti e per chi come noi era lì solo per prestare assistenza. Io provavo un misto di paura e di rabbia, sentivo il peso di aver lavorato per giorni in mezzo a colpi di mitra e di mortaio.

Neanche lì, davanti a un mujaheddin con un proiettile in pancia, sono riuscito a liberarmi dalla rabbia. Avevo la mente piena di emozioni e di sentimenti, ma da nessuna parte c'era posto per la pietà, che invece dovrebbe essere sempre presente nella testa di un medico.

Era dura ammetterlo, ma di quei guerriglieri feriti, che ci avevano terrorizzato per giorni, non me ne importava assolutamente niente.

"Il triage è fatto, Margaret - le dissi dopo pochi minuti che ci spostavamo tra quella folla di persone stese per terra - prima i bambini e le donne!"

"Cooosa?"

"Si, hai capito bene, prima i bambini e le donne. Se non ti va bene chiama qualcun altro, a fare il triage." E tornai in sala operatoria senza neanche attendere una risposta.

Nei giorni seguenti avrei ripensato a quella scelta, non basata sull'etica medica, né sull'approccio razionale al problema.

E' vero, lì dentro bambini e donne erano gli unici a non avere colpe, avevano solo subito la violenza altrui. Chi invece la guerra la fa, mi ero detto, chi spara per uccidere, deve pur metterlo in conto un proiettile in pancia.

E perché avrei dovuto dare la precedenza a chi mi stava sparando addosso fino a mezz'ora prima?

Ci ho messo un po' di tempo a trovare la forza di dire a me stesso che quella, in fondo, era solo una specie di vendetta, il trasformarsi da medico in giudice spietato e inappellabile.

E mi sono spaventato.

Quella scelta non aveva nulla a che vedere con il mio mestiere. Mi sono dato delle attenuanti, ma alla fine il verdetto è rimasto lo stesso: come si chiamerebbe da noi, complicità in omicidio plurimo e omissione di soccorso?

 

Da "Pappagalli verdi" di G. Strada

 

 

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