Carignano: capitolo 1
 

 

Mercoledì 25 aprile 2001

Liberato. Nessuno sa quel che darei per essere liberato. Forse non venderei l’anima al diavolo, ma un breve affitto potrebbe anche andar bene.

Quattro muri, quattro cortine che celano alla vista ciò che c’è fuori... Quando dormi, con gli occhi chiusi, non ti accorgi di come possa essere insopportabile non vedere. Ma quando finalmente alzi le palpebre, lo sconforto è l’unica sensazione che ti attanaglia. E non perché hai dimenticato in macchina gli occhiali: ci vedi benissimo, ed è proprio qui il problema. Frustrato: proprio quando pensi di poter “vedere” il mondo, ti accorgi che è tutto inutile. Ti accorgi che la cuccia calda che ti ha confortato finora somiglia più ad una trappola.

Cosa c’è là fuori? Perché non basta aprire gli occhi? Aprite questi muri!

Una finestra, ancora di salvezza. Non che la disperazione mi spinga all’insano gesto: sono cristiano, non lo farei mai... poi il davanzale è così alto che non riuscirei a scavalcarlo! No, è per vedere attraverso i quattro muri. Per osservare ciò che di magico si cela per strada non è bastato aprire gli occhi, ho dovuto oppormi a ciò che mi sta intorno.

Mi sporgo. Ma la visione è desolante, immonda: ciò che osservo, è ciò che prima ho rifiutato per liberare la mia vista.

E’ della stessa natura confusa e ipocrita che costituisce le mie palpebre e i muri di casa. Potrei rifiutarla cercando di fuggire anche questa allucinazione, perché di questo spero si tratti, ma ho paura: temo di trovare altrove, e altrove e altrove ancora le stesse forme, gli stessi luoghi, le stesse atmosfere grevi e incombenti che mi opprimono.

Quindi, mentre penso alla soluzione più consona al problema, non mi resta che descrivere questo piccolo paese nella città, questo rifugio di moralità vittoriana tanto cara a chi ha paura di negarla.

 

 

CARIGNANO

 

Capitolo 1.  Il camaleonte

 Per chi abita qui da parecchi anni è normale classificare gli eventi, costruire consolanti schemi che permettano di giudicare e interpretare ciò che accade. E’ un modo come un altro per difendersi: ogni fatto è parcellizzato, sezionato, ed ogni suo aspetto viene chiaramente e oculatamente definito in base alle sue caratteristiche. Se una cosa non è bianca è meglio che sia nera: se fosse grigia, non saprei che fare! Un po’ come intuì Linneo per gli esseri viventi: si parte dal gruppo più generale per arrivare via via a quello particolare, del soggetto interessato.

Vista l’attenzione dei Carignanesi ai grandi problemi esistenziali dell’uomo e della nostra società, non stento a credere che per descrivere i baffi del primo malcapitato si arrivi almeno al ventesimo termine. Quello non è un porcellino d’India, ma una Cavia porcellus del genere Cavia della famiglia dei cavidi dell’ordine dei roditori della classe dei mammiferi del phylum dei cordati del regno degli animali. Allo stesso modo quelli non sono baffi: sono sciocchezze perché mio marito li ha più folti e li cura di più perché il suo barbiere sa i prodotti che usa e non gli darebbe mai una pomata che contenga sostanze che possano irritargli la pelle perché sa che io non sarei contenta e potrei parlarne male alle mie amiche, o cara con te è diverso, sì sei una mia amica ma so che posso fidarmi, ma dicevamo perché sa che se lo dicessi alle altre loro vieterebbero ai propri mariti di frequentare la sua bottega e lui dovrebbe chiudere e questo non lo voglio perché ha una moglie tanto cara e due figli così adorabili che già non si vestono bene, sai con quel che guadagna, e se gli togliessimo anche quei pochi soldi non voglio pensare alla fine che farebbero; e sì, dovrebbe ringraziarmi.

E se vi sembra che da cliente qualcuno si senta trasformato in datore di lavoro non preoccupatevi, i deliri di onnipotenza non sono stati inventati qui, ma solo presi in prestito.

Questa attenta descrizione dei baffi altrui potrebbe essere quella di una normale chiacchierona, di cui è facile incontrare spesso alcuni esemplari eclatanti.

E non solo a Carignano:

 

“Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti uniti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere.”

 

Le ultime considerazioni (i pettegolezzi veri e propri, per intenderci) sono le più importanti per il 90% dei Carignanesi, ma ciò non deve distogliervi da quella che è la classificazione principale. Il primo ordine  che viene sempre adottato è infatti quello della collocazione temporale.

Troppo difficile sarebbe utilizzare una datazione assoluta.

Nulla ci vieta di costruire una scala relativa.

Quindi quello non è più com’era prima, o quello che c’è adesso è diverso da quello che c’era ieri. Nulla è, perché tale: ogni cosa è bella o brutta, giusta o sbagliata, diritta o storta a seconda di com’era prima.

Io stesso mi trovo a volte sul banco degli imputati, colpevole di non riuscire a dare giudizi concreti.

 

“Com’è Holy Smoke?”

“Il nuovo film della Campion? Bah, visti i precedenti mi ha un po’ deluso. Lezioni di piano e Ritratto di signora mi erano piaciuti molto...”

 

Anche questo è uno scudo, non pensiate che lo facciano per pigrizia o per ovviare ad una memoria carente. Il paragone è spesso e volentieri uno specchio per le allodole, lo schermo di un televisore spento su cui si riflette l’immagine dell’ipocrisia. Una “bugia bianca”, come si dice adesso.

Giammai sentirete da un Carignanese “Il tuo nuovo vestito non mi piace tanto...”. Più facile invece sarà ascoltare frasi del tipo “Ma, secondo me il rosso ti dona di più: fa risaltare il colore dei tuoi occhi. Non che il verde pistacchio non mi piaccia, ma il blu...” e così fino a che non bussino alla porta i quattro cavalieri dell’apocalisse!

Il paragone è un po’ come le arti marziali: fintanto che viene usato per difesa personale, possiede i crismi dell’arte; quando si passa all’attacco, viene giudicato deplorevole (visto la natura versatile delle nostre classificazioni?! Al passo con i tempi). Ecco un esempio. Proprio ieri si discuteva di temi impegnativi: il peso fiscale, le tasse sulla settima casa, l’immigrazione, la nuova domestica filippina del tale che abita in Corso Podestà... E soffermandoci sul terzo, qualcuno ha affermato compiaciuto: “Tutti qui vengono, ma cosa vogliono: pensano che qui si stia meglio? Solo capaci a rubarci il lavoro...”.

“Non che gli Italiani abbiano fatto di meglio (se immigrare, poi, possa essere considerato “un peggio” per chi accoglie e non per chi è costretto a partire!): in America ci siamo andati noi e...”. Avete mai provato a togliere la doppietta ad un cacciatore e a puntargliela contro? Lo umiliereste facendolo infuriare. Et voilà: “Ma che cazzo di paragoni fai!”. Tutti quanti hanno sognato di recitare in un film noir puntando a destra e a manca la propria pistola; pochi sarebbero invece felici di vederne una dalla parte opposta, specialmente se è quella che impugnavano un minuto prima!

 

Ma torniamo a parlare di tempo. E prendiamo a questo proposito l’esempio del bar di via Nino Bixio. Fino a poco tempo dopo la mia nascita, il locale era gestito da due fratelli che lo avevano messo in piedi e portato avanti per anni. Problemi familiari, non tanto di età, hanno costretto loro ad abbandonare l’attività e ad affittare i saloni. Un certo signor B. ha tenuto il bar in uno stato di decenza e rispettabilità accettabili per alcuni anni: nulla di eccessivo, e tutto sommato un po’ buio, ma problemi di igiene o affini non ce ne sono mai stati. Insomma, il personaggio sembrava più o meno adatto a succedere alla precedente gestione.

Un bel giorno però la notizia “ci prese come un pugno, ci gelò di sconforto: sapere a brutto grugno” che il suddetto signor B. aveva deciso di mollare. Ma, delizia delle delizie, aveva già trovato un degno, a suo dire, cliente interessato ai locali.

Beh, tanto degno non risultò visto che si succedettero più o meno quattro gestioni, tutte o quasi con problemi di affitti ritardatari e baristi ritardati. L’ultimo, credo per interferenza divina, sta battendo il record di cinque mesi di apertura continua. Quattro gestioni che hanno rivoluzionato l’assetto dei saloni e il mobilio ogni qualvolta si siano passate il testimone. Questo ha causato mesi di inattività, di pagamenti saltuari e di nomi assurdi (dal Rainbow Bar all’ultimo Mojito Bar).

E ad ogni cambio un’inaugurazione e  nuovi commenti: “Ma com’è spazioso, avranno tirato giù qualche muro” (sono tutti portanti!); “Ma com’è luminoso, quello di prima era un po’ più cupo!”; “Simpatico il commesso, ma quello di prima era più disponibile”; “Notevole la commessa, ma la precedente aveva una dotazione di serie migliore, un po’ come la nuova Volvo SVWCGERD ad iniezione cutanea...”.

Visto? A nessuno piace il nuovo bar per “questo, questo o quest’altro motivo”. E nessuno vorrebbe vederlo bruciare per altri cento motivi. Il bar è cambiato rispetto a PRIMA, ed è questa la cosa importante. Perché adesso è possibile giudicare qualche cosa di nuovo, di diverso da ciò che già c’era. Insomma: la disposizione temporale relativa degli eventi, la quale implica necessariamente che essi siano cambiati, è la causa necessaria allo sviluppo di un certo senso critico nei Carignanesi.

Non pensiate però che essi associno il termine “cambiamento” a significati quali “rinnovamento” o “miglioramento”. La giostra dei baristi li ha galvanizzati, ma la triste sostanza è rimasta la stessa: pochi affitti e gestori insopportabili!!!

 

Nei telefilm americani e nei fumetti capita spesso che i cittadini vengano invitati a partecipare a mille concorsi per presentare progetti e schizzi per il simbolo della città. Se si facesse a Carignano, penso verrebbe scelto il camaleonte: cambia colore ma rimane sempre un rettile!!!

 

 

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