I momenti perfetti

 

"Ascolta, volevo dirti: lo sai che non ho mai saputo perfettamente cosa fossero i momenti perfetti; tu non me l'hai mai spiegato."

"Si, lo so, tu non facevi alcuno sforzo. facevi il palo, vicino a me."

"Ahimè! So bene quanto ciò mi sia costato."

"Ti sei meritato tutto quello che t'é accaduto, eri molto colpevole; m'irritavi con quella tua aria solida. Sembrava che dicessi: sono normale, io; e t'applicavi a spirare sanità, trasudavi sanità morale."

"Tuttavia t'avrò domandato più di cento volte cosa era un..."

"Si, ma con quel tono" dice lei arrabbiata "accondiscendevi ad informarti, questa è la verità. Lo domandavi con un'amabilità distratta, come le vecchie signore che mi domandavano a cosa giocavo, quando ero piccola. In fondo" dice pensosamente "mi domando se non sei tu la persona che ho odiato di più."

Fa uno sforzo su se stessa, si riprende, e sorride, le gote ancora infiammate. E' bellissima.

"Voglio proprio spiegarti che cos'é. Ormai sono abbastanza vecchia per parlare senza arrabbiarmi, alla vecchie brave donne come te, dei giuochi della mia infanzia. Avanti, parla, che cos'é che vuoi sapere?"

"Che cosa era?"

"Ti ho pur parlato delle situazioni privilegiate!"

"Non mi pare."

"Si" dice lei con sicurezza. "Fu ad Aix, su quella piazza di cui non ricordo il nome. Eravamo nel giardino di un caffè, al solleone, sotto certi parasoli arancione. Tu non te ne ricordi: bevevamo limonate ed io trovai delle mosche morte nello zucchero in polvere..."

"Ah, si, può darsi..."

"Ebbene, ti parlai di questo, in quel caffè. Te ne parlai a proposito della grande edizione della storia del Michelet, quella che avevo quando ero piccola. Era molto più grande di questa, e le pagine avevano un colore pallido, come il dentro di un fungo, e odoravano anche di fungo. Alla morte di mio padre, ci mise la mano mio zio Giuseppe, e si portò via tutti i volumi. Fu quel giorno che lo chiamai vecchio porco, e che mia madre mi frustò ed io saltai dalla finestra..."

"Si, si... Devi avermi parlato di questa Storia di Francia... non la leggevi in soffitta? vedi che ricordo. Vedi che eri ingiusta, poco fa, quando mi accusavi di aver dimenticato tutto."

"Sta' zitto. Dunque mi portavo, come tu ti sei ricordato così bene, quegli enormi volumi in soffitta. Avevano pochissime figure, forse tre o quattro ogni volume. Ma ciascuna occupava da sola tutta una pagina, una pagina il cui retro era rimasto in bianco. E ciò mi faceva tanto più effetto in quanto, sulle altre pagine, il testo era stato disposto su due colonne per guadagnare spazio. Per quelle incisioni io avevo un amore straordinario; le conoscevo tutte a memoria, e quando rileggevo un libro di Michelet, le attendevo cinquanta pagine prima, e il ritrovarle mi pareva sempre un miracolo. E poi c'era una raffinatezza: la scena che rappresentavano non si riferiva mai al testo delle pagine vicine, bisognava andare a cercare l'avvenimento una trentina di pagine più in là."

"Ti supplico, parlami dei momenti perfetti."

"Ti parlo delle situazioni privilegiate. Erano quelle che erano rappresentate dalle incisioni. Sono io che le chiamavo privilegiate, mi dicevo che dovevano avere un'importanza ben considerevole perché si fosse acconsentito a farne il soggetto di quelle figure così rare. Erano state scelte tra tutte, capisci? e tuttavia, c'erano tanti episodi che avevano un valore plastico maggiore, e altri che avevano maggior interesse storico. Per esempio, per tutto il sedicesimo secolo, c'erano soltanto tre figure: una per la morte d'Enrico II, una per l'assassino del Duca di Guisa, ed una per l'ingresso di Enrico IV a Parigi. Allora mi ero immaginata che questi avvenimenti fossero d'una natura particolare. D'altra parte le incisioni mi confermavano in questa idea: il disegno era logoro, le braccia e le gambe non erano mai ben attaccate al tronco. Ma era pieno di grandezza. Quando il Duca di Guisa viene assassinato, per esempio, gli astanti manifestano il loro stupore e la loro indignazione tendendo tutti le palme in avanti e voltando la testa; era molto bello, si sarebbe detto un coro. E non credere che si fossero dimenticati i particolari piacevoli o aneddotici. Si vedevano dei fogli che cadevano per terra, cagnolini che fuggivano, buffoni seduti sugli scalini del trono. Ma tutti questi particolari erano trattati con tanta grandezza e tanta goffaggine ch'erano in perfetta armonia col resto dell'immagine: non credo di aver più visto quadri che avessero una unità così rigorosa. Ebbene, sono nate lì."

"Le situazioni privilegiate?"

"Insomma, l'idea che me ne facevo. Erano situazioni che avevano un'essenza del tutto rara e preziosa, stile, se vuoi. Essere re, per esempio, quando avevo otto anni mi sembrava una situazione privilegiata. Oppure morire. Tu ridi, ma c'è tanta gente disegnata nel momento della sua morte, e tanti che pronunciavano parole sublimi in quel momento, che io credevo in buona fede... insomma, pensavo che entrando in agonia si fosse trasportati al di sopra di se stessi. D'altronde bastava essere nella stanza di un morto: essendo la morte una situazione privilegiata, da essa emanava qualcosa che si comunicava a tutte le persone presenti. Una specie di grandezza. Quando morì mio padre mi fecero salire nella sua stanza per vederlo un'ultima volta. Salendo le scale mi sentivo molto infelice ma ero anche come inebriata di una sorta di gioia religiosa, finalmente in una situazione privilegiata. Mi appoggiai al muro, provai a fare i gesti che ci volevano. ma c'erano mia zia e mia madre inginocchiate ai lati del letto, che guastavano tutto coi loro singhiozzi."

Dice queste parole con astio, come se il ricordo le fosse ancora cocente. S'interrompe, lo sguardo fisso, le sopracciglia alzate, approfitta dell'occasione per rivivere la scena ancora una volta.

"In seguito, ho allargato questo concetto: dapprima vi ho aggiunto una situazione nuova: l'amore (voglio dire l'atto di far l'amore). Ecco, se non l'hai mai capito, perché mi rifiutavo a... a certe tue richieste, ora hai l'occasione di capirlo: per me c'era qualcosa da salvare. E poi mi son detta che allora dovevano essercene molte di più, di situazioni privilegiate, di quanto io non potessi constatare, e alla fine ne ho ammesse un'infinità."

"Si, ma insomma, che cos'era?"

"Ma te l'ho detto!" dice lei sbalordita. "E' un quarto d'ora che te lo sto spiegando."

"Insomma, forse bisognava soprattutto che la gente fosse molto appassionata, trasportata dall'osio o dall'amore, per esempio; oppure occorre che l'aspetto esteriore dell'avvenimento sia grande, voglio dire, ciò che se ne può vedere..."

"Tutt'e due... secondo" risponde lei con malgarbo.

"E i momenti perfetti? Che cosa c'entrano?"

"Vengono dopo. Prima vi sono dei segni premonitori. Poi la situazione privilegiata, lentamente, maestosamente, entra nella vita della gente. Allora si pone la questione di sapere se se ne vuol fare un momento perfetto."

"Si" dico io "ho capito. In ciascuna situazione privilegiata vi sono certi atti che bisogna fare, atteggiamenti che bisogna prendere, parole che bisogna dire - e altri atteggiamenti, altre parole, sono strettamente proibiti. E' così?"

"Se vuoi..."

"Insomma, la situazione è della materia che richiede di essere trattata."

"E' così" dice lei "prima bisognava essere tuffati in qualcosa d'eccezionale e sentire che uno ci metteva ordine. Se tutte queste condizioni fossero state realizzate, il momento sarebbe stato perfetto."

"Insomma, era una specie di opera d'arte."

"Me l'avevi già detto, questo" dice lei contrariata. "ma no, era... un dovere. Bisognava trasformare le situazioni privilegiate in momenti perfetti. Era una questione di morale. Si, si, ridi pure: di morale."

Non rido affatto.

"Senti" le dico spontaneamente " anch'io riconosco i miei torti. Non t'ho mai compresa bene, non ho mai tentato sinceramente di aiutarti. Se avessi saputo..."

"Grazie, grazie mille" dice lei ironicamente. "Spero che non t'aspetterai della riconoscenza per questi tardivi rimpianti. D'altra parte non te ne voglio; non t'ho mai spiegato nulla con chiarezza, ero legata, non potevo parlare ad alcuno, nemmeno a te - specialmente a te. C'era sempre qualcosa che suonava falso, in quei momenti. E allora mi sentivo come smarrita. E tuttavia avevo l'impressione di fare tutto quello che potevo."

"Ma che cosa bisognava fare? quali azioni?"

"Come sei sciocco, non si possono dare esempi, dipende."

"Ma raccontami cosa cercavi di fare."

"No, non ci tengo a parlarne. Ma se vuoi, ecco una storia che m'aveva colpito molto quando andavo a scuola. C'era un re che aveva perduto una battaglia, ed era stato fatto prigioniero. Era là, in un angolo, nel campo del vincitore. Vede passare suo figlio e sua figlia in catene e non piange, non dice niente. Poi vede passare, anche lui in catene, uno dei suoi servi allora si è messo a genere e a strapparsi i capelli. Puoi inventare da te stesso degli esempi. Tu lo vedi, vi sono casi in cui non si deve piangere - altrimenti si è immondi. Ma se ci si lascia cadere un ceppo su un piede, si può fare qual che si vuole, gemere, singhiozzare, saltare sull'altro piede. Ciò che sarebbe sciocca sarebbe di essere sempre stoici: ci si esaurirebbe per niente."

Sorride:

"Altre volte occorreva essere più che stoici. Tu non ti ricordi, naturalmente, la prima volta che t'ho baciato?"

"Si, benissimo" dico trionfalmente. "Fu nel giardino di Kiew, in riva la Tamigi."

"ma quello che non hai mai saputo è che m'ero seduta sulle ortiche, la veste mi si era alzata e avevo le cosce piene di punture, e al minimo movimento erano altre punture. Ebbene, lì lo stoicismo non sarebbe bastato. Tu non mi turbavi affatto, non avevo una voglia particolare delle tue labbra, quel bacio che stavo per darti aveva un'importanza ben più grande, era un impegno, un patto. E allora, tu lo capisci, non mi era permesso pensare alle mie cosce in un momento come quello. Non bastava non notare la mia sofferenza: bisognava non soffrire."

Mi guarda fieramente, ancora piena di sorpresa per quello che ha fatto:

"Per più di venti minuti, per tutto il tempo in cui tu insistevi per averlo, quel bacio che ero ben decisa di darti, per tutto il tempo in cui mi facevo pregare - poiché bisognava dartelo secondo le forme - arrivai ad anestetizzarmi completamente, e Dio lo sa se ho la pelle sensibile; non sentii niente, fino a quando non ci rialzammo."

Ecco, è proprio così. Non ci sono avventure - non ci sono momenti perfetti... Avevamo perduto le stesse illusioni, percorso, gli stessi cammini. Indovino il resto - posso addirittura prendere io la parole in vece sua, e dire io stesso ciò che le rimane da dire: " E allora, ti sei resa conto che c'era sempre qualche buona donna in lacrime, o un tipo rosso, o qualsiasi altri, a guastare i tuoi effetti?"

"Già, naturalmente" dice senza entusiasmo.

"Non è così?"

"Oh, sai, ai malestri di un tipo rosso avrei magari potuto rassegnarmi, a lungo andare. Dopo tutto ero abbastanza buona da interessarmi alla maniera in cui gli altri facevano la loro parte... no, piuttosto è..."

"Che non ci sono situazioni privilegiate?"

"Ecco, Credevo che l'odio, l'amore o la morte scendessero su di noi, come lingue di fuoco del Venerdì santo. Credevo che si potesse raggiare di odio o di morte. Che errore! Si, davvero, pensavo che "l'Odio" esistesse, e che venisse a posarsi sulle persone e ad elevarle al di sopra di loro stesse. Naturalmente non ci son che io, io che odio, io che amo. E allora questo io è sempre la stessa cosa, una pasta che si allunga, si allunga... e si rassomiglia talmente che ci si domanda come la gente abbia avuto l'idea di inventare nomi, fare distinzioni."

Pensa come me. Sembra ch'io non l'abbia mai lasciata.

 

Da "La nausea" di J.P. Sartre

 

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