cap2
II
 
 
 
 
 
 
 
 
 

"Sì...  pronto."
"Se non chiamo io, ti dimentichi completamente di me. È una settimana che non ti fai sentire. Mi dici come stai almeno? Ti è passato il raffreddore?"
Era Luisa al telefono.
"Sì, è passato."
"Perché non prendi un bel film in videoteca e mi raggiungi a casa?"
"No, stasera no. Facciamo un altro giorno, domani eh?"
"No, adesso!" comandò dolce.
"Tesoro, sono stanco, è stata una giornataccia, perché non vieni tu piuttosto?"
"Verrei ma non posso. Qui con me c’è Moira, è appena arrivata, non posso mandarla via."
"E il suo Aldo che fine ha fatto?" domandai sardonico.
"Sta partecipando ad un torneo di calcetto, dai, su, vieni!"
"No, non vengo. Vieni tu."
"Dai!" frignò alterata. "Lo sai che non posso lasciare Moira così su due piedi."
"Ed io non ho voglia di uscire di casa," ribadii per troncare la sua richiesta.
Restò silenziosa, riprese "Per l’ultimo di carnevale hai deciso cosa fare?"
"No."
"Aldo, martedì, organizza a casa sua un ballo in maschera..."
"Va bene, ma t’avverto che non ho intenzione di vestirmi, al massimo metto un paio di baffi."
"Sei sempre il solito. Te lo trovo io un costume da mettere."
"No, lascia stare. Odio le feste in maschera. Odio camuffarmi. Ti accompagno e basta. Lasciami fuori dalle pagliacciate."
"Da Aldo ti divertirai un mondo; lui organizza le cose alla grande. Vedrai."
"Vedremo, ciao."
"Ciao amore."
- Quando la smetterò con Luisa? Da quando tempo si trascina questa storia? -
Non avevo nulla da spartire col suo mondo, coi suoi amici della città bene, con le feste, i tornei e i suoi riti; nulla.
Niente in comune, se non un’illusione d’amore finita troppo presto e un raffreddore strano, ormai cronico, che ricompariva immancabilmente quando mi riavvicinavo a lei. Eppure la nostra storia non arrivava ad un capolinea perché ogni volta la discesa era rinviata alla tappa successiva, perché, ancora, qualcosa ci legava, ci teneva insieme, come quel sottilissimo filo di luce che era passato tra i nostri occhi.
Di Luisa m’ero innamorato l’estate prima, sulla spiaggia, in modo repentino ed inaspettato. Trascorsi nottate insonni, belle e tremende, delirando il suo nome, quasi fosse un’entità sacra, la fonte unica d’un amore fino ad allora sconosciuto, la purezza stessa in cui mondare lo spirito e il corpo.
Ma quell’inebriante esaltazione cessò all’improvviso, proprio quando Luisa iniziò ad accorgersi di me.
Non più innamorato, anziché allontanarmi, m’incaparbii ad andarle dietro, a comportarmi né più né meno come prima e freddamente a pianificare un approccio fatto di passi graduali, di finti tentennamenti e paroline dolci. E Luisa, la bionda, irraggiungibile Luisa, tutta sorriso fra le amiche, s’innamorò, cadendo anche lei in quella che era stata la mia mestizia d’amore. Ed io, anziché arrestare quel gioco stupido e tremendo, m’industriai a farla ancor più trasalire e, per capriccio e rivalsa, un giorno di quel fine agosto, m’accostai a lei che era restata a fissarmi e le dissi "Ti amo, ti amo".
Parole false che solo un mese prima avrebbero avuto tutt’altro significato. Parole stupide, le sole che racchiudono la forza di un sentimento grande, le uniche che possono essere pronunciate per ingannare chi per loro si strugge.
Ebbi i suoi baci, i suoi sospiri, le sue carezze, ma persi me.
Quell’elettricità fisica e mentale che scaturiva da Luisa era esaltante ed attraente come l’eden dei nostri sogni e, nel turbamento che provai per il totale e immediato suo abbandono, m’illusi per lungo tempo che l’amore mio potesse risorgere, confondendolo, alla fine, ahimè, col piacere fisico del contatto.

"Sei pronta?"
"Sì, prontissima."
"Che cosa ti sei messa?"
"È una sorpresa, vedrai ti piacerà," fece Luisa al telefono con una vocina felice e squillante.
"Vengo a prenderti."
Chissà dove trovava tanto entusiasmo, dove si ricaricava di tanta fanciullesca vitalità.
E pensare che a me le feste in maschera son sempre state antipatiche. Devo risalire a molti anni fa, alla mia infanzia, per ritrovare nella memoria il gusto del travestimento.
Allora, ricordo, avevo un sogno ricorrente; cavalcavo un purosangue forte e snello, dalla folta criniera e dal manto lucido e correvo con agilità e fierezza per prati e boschi. A carnevale indossavo gli abiti da cowboy e mi sentivo perfettamente a mio agio, era quella l’occasione per vivere e recitare il mio personaggio.
Successivamente, però, non ho messo più alcun panno; all’inizio ero imbarazzato di mostrare attraverso l’immagine esteriore il mio desiderio più intimo, poi, ricordo, il ritegno scomparve, ed ho sempre creduto che mascherarsi fosse davvero infantile. Da grandi le cose cambiano. Credo che ci si vesta essenzialmente per nascondersi e vivere dietro la maschera l’occasione del divertimento senza freni inibitori.
Luisa scese puntualissima da casa, ed era davvero bella.
Indossava un abito da fatina bianco e celeste. Le spalle, le braccia e gran parte del dorso suo erano ricoperte da un bianco e trasparente tessuto ricamato in pizzo. La vita era fasciata da un bustino aderentissimo che metteva ancor più in evidenza il seno, già grande, celato da due coppe di seta bianca. La gonna celeste, ampia e leggera, era frappata da stelle di merletto e terminava, senza toccare il suolo, con una candida blònda.
"Che te ne pare?" chiese ridendo con aria intrigante.
"Sei una meraviglia."
Ed era vero. Il suo volto, al solito privo di trucco, era abbellito in modo accuratissimo: un piccolissimo copricapo conico luccicante di polvere argentata ben fissato sui riccioli biondi e, dietro la nuca, uno chignon aggiunto di sottili treccine paglierine.
Aveva con sé una bacchetta alla cui estremità aveva infilato, per renderla magica, una stella natalizia. Io al suo confronto ero decisamente ‘spoglio’; oltre i baffi avevo messo un pomo rosso sul naso e un papillon bianco a pois neri.
La casa di cui parlava Luisa m’aveva fatto pensare ad un innocuo appartamento cittadino, invece ci ritrovammo su una strada brecciata di collina che portava ad una torreggiante villa moderna. Vedemmo Aldo venirci incontro con un vistoso berretto piumato; s’era abbigliato in stile rinascimentale. Indossava una giubba color ocra con maniche bianche trinciate sotto un leggero mantello dorato; calzebrache rosse con all’inguine uno sbuffo di alterne liste di tessuto color rubino e giallo ocra. Sul fianco, uno spadino guainato, ai piedi, morbidi calzari marroni. Trattenni a stento una risata ricacciandola nello stomaco: le gambe di Aldo già lunghe e sottili, sembravano ossa spolpate tanto erano striminzite sotto quella specie di gonnellino.
Con le solite parole strascicate e voce manierata c’indicò dove accostare l’automobile. Lo seguimmo oltre il cancello e per l’ampio atrio della villa, cintato, su entrambi i lati, da un muro semicircolare, sostegno e barriera al prato posto più in alto rispetto al livello della strada d’accesso.
Passando sotto una pergola di rampicanti e di acacie già in fiore, arrivammo di fronte ad un’ampia porta ad ante scorrevoli che immetteva al piano terra nonché al pianerottolo da cui partivano, in direzione opposte, le scale che davano adito al piano superiore. L’ambiente inferiore, non alto, costituito da quasi l’intera pianta della dimora, era immenso. Adibito a luogo di ricreazione e di gioco, era stato predisposto, per l’occasione, a locale da ballo.
"Caspita quanto è grande qui! Ma non c’è ancora nessuno?" domandai perplesso.
"No siete i primi," rispose Aldo "venite, vi presento ai miei."
E con le presentazioni di rito, restammo impacciati ad osservare gli ultimi preparativi.
Su un biliardo ed un tavolo da ping-pong, in un angolo della sala, opportunamente ricoperti da teli di polietilene e tovaglie di carta, venivano ancora aggiunti da Aldo e dai genitori, vassoi ricolmi di cibarie e leccornie d’ogni tipo. Quella parte del salone era l’unica zona illuminata in modo diretto. Altrove, faretti schermati e lampade a soffitto orientate sulle pareti, producevano una luce di fondo, morbida ed avvolgente, sufficientemente diffusa da rendere appena percettibile il lampeggìo delle lampade colorate, qua e là sistemate in serie, pulsanti al ritmo della musica non ancora alta.
Luisa, ad un tratto, rivolta ad Aldo con un tono tra il serio e il faceto "Posso far vedere il guerriero a Giuseppe?"
"Ah, ah! Certo! Vai pure. Su c’è Moira."
"Quale guerriero?" domandai incuriosito.
Poco dopo ci ritrovammo nello studio del padre di Aldo dove, su un mobiletto nero, faceva bella mostra di sé, in atteggiamento aggressivo, un guerriero metallico fornito di lancia, dalle forme astrattamente abbozzate, dalla testa schiacciata e lunga e dal fallo eretto esageratamente lungo, l’unico elemento della scultura perfettamente cesellato. Una statuina davvero sorprendente, simile, seppur non paragonabile per bellezza, a quelle singolarissime sculture lignee dell’isola di Bali.
In verità, il guerriero era il pretesto di Luisa per salir su e spettegolare con Moira, la fidanzata di Aldo.
Costituivano davvero una coppia particolare, Moira ed Aldo.
Lui flemmatico, fastidiosamente lento nel pensare, nel dire, nel fare. Lei esuberante ed espansiva oltre misura, quasi vivesse a velocità superiore; bambina ancora per alcuni aspetti ma dall’intelligenza arguta e fulminea.
Usciti dallo studio ripercorremmo il corridoio alla ricerca di Moira. La trovammo nel salone centrale, intenta a sistemarsi un copricapo a ciambella.
"Sei bellissima!" esclamò Luisa accentando e prolungando la prima ‘i’ nella tipica sospensione di meraviglia femminile.
Moira si pavoneggiava, davanti a noi, in un sontuoso abito cinquecentesco color damasco cremisi con ricami in oro. Girava su se stessa spazzando il pavimento con una gonna ampia, bandata centralmente di velluto amaranto, a richiamo del corpetto sfavillante, dal gran décolleté quadrangolare.
Togliendo il copricapo, con aria eccitata domandò "Siete i primi?"
"Per il momento sì," risposi. E il suo interesse tornò tutto al cappello a cui stava applicando uno chiffon scarlatto come mantellina. M’allontanai da Luisa e Moira che continuavano a scambiarsi apprezzamenti e rivolsi la mia attenzione oltre il vetro dell’ampia finestra; nonostante l’oscurità esterna s’intuiva dov’era il mare, sopra il chiarore albicante della città lontana.

"Questo è un lento, andiamo?"
Luisa sembrava alquanto restia a muoversi tra la calca. Ballammo qualche lento, poi riprese la musica da discoteca.
"Perché non prendiamo qualcosa?" proposi.
"Va pure," rispose "ti raggiungo dopo."
Rincontrai il solito Francesco, questa volta con la bautta sollevata
"Ti diverti?"
"Moltissimo."
Ed ecco Attilio, l’infiltrato del gruppo ma anche il personaggio più simpatico, davanti ai dolci ad ingozzarsi e ruttare in casacca da moschettiere col colletto vagamente all’Antonie Van Dick.
- Ti sei messo il bavaglino - pensai di riprenderlo ma poi, frenato dalla discrezione mi limitai ad un "Come va?"
Continuando ad ingoiare con una voracità che non gli avrei mai immaginato "Aldo ha organizzato le cose alla grande!"
Aldo, Aldo. Dove stava Aldo?
Il nostro anfitrione d’occasione con le sue ridicole calzebrache rinascimentali stava proprio dietro di me a discorrere coi soliti gesti effeminati con Moira, Barbara e Luisa, già di ritorno, pronta per l’ennesimo ballo.
Di nuovo la mia fatina, tanto imbronciata, tanto sensuale, tanto desiderabile, con le braccia tese su di me.
"Cosa stavi fissando," chiese indagatrice.
"Cosa?!"
Faccio per storcere la bocca e lei incalza "Quella lì, guarda!" indicando col capo una ragazza travestita da zingara. "La conosci?"
"No, mai vista."
La strinsi più forte a me "Non sarai gelosa?"
M’osservò con infinita dolcezza e sorrideva fresca di menta.
- Sei più di quanto potrei desiderare, più di quanto abbia mai avuto, eppure fuggo da te, mi ritiro a fantasticare altro e fantastico te -
"A cosa stai pensando?" domandò.
"A niente; mi godo il tuo profumo, la luce dei tuoi occhi e ..."
- soffro di solitudine - pensai rabbrividendo.
"Parlami di quella ragazza che osservavi prima," mi sussurrò all’orecchio "sono sicura che la conosci."
Aveva letto bene nel mio sguardo. Quella fanciulla m’aveva riportato alla mente la regale ed entusiasmante immagine d’una turista straniera che avevo incrociato a Roma, l’estate precedente.
"L’ho incontrata a Roma," confessai.
"A Roma? Quando?" trasalì stupita.
Mi piacque sul momento tenerla sulle spine, continuai misurando le parole "Aveva un giubbetto differente, molto stretto, sì, con dei ricami strani color porpora di stampo orientale, una gonna dello stesso tipo e, ai piedi, alti zoccoli con tomaia chiara ricamata a fori; ed era mora."
"Mora?!"
"Sì mora," sorrisi "non era lei, naturalmente" la rassicurai.
"Sul Campidoglio, dal lato del foro romano, poggiata ad un parapetto metallico, guardava giù, verso le rovine, trattenendosi sul capo un panama con un lungo nastro cadente. Era bellissima e sola. Straordinariamente bella per non fermarsi ad ammirarla."
"E tu, naturalmente, ti sei fermato."
"No, ma avrei voluto, avrei voluto conoscerla, magari fotografarla, ma ho proseguito accelerando il passo."
"Perché?"
"Perché mi sono spaventato. Perché era troppo bella per trovarmela davanti così all’improvviso, troppo bella per non pensare che fosse un inganno, una zingara appostata lì per chiedere denaro, per spillare soldi al primo turista sventurato. Magari poteva essere davvero un angelo."
Frattanto Luisa s’appoggiava più pesantemente.
"Che hai? Ti vedo un po’ strana."
"Niente."
"Niente?"
Portando la mano al ventre "Mi sono tornate proprio questa sera, accidenti."
"Ti riporto a casa?"
"Scherzi! No, no, salgo un po’ su."
Rimase sopra per tutta la restante parte della serata. A me non restò che gettarmi nella mischia variopinta e scatenarmi in un ballo solitario, ritrovandomi a notte fonda, stanco e stordito, avvinghiato ad una cicciona vestita di solo lenzuolo.
 

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